In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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È
incontestabile il fatto che l’odio che proviamo per il Covid-19 è
provocato, oltre che dalla paura per i nostri cari e per noi stessi, dal
fatto che ci ha fatto scoprire, o riscoprire, le nostre vulnerabilità,
sia a livello individuale, sia sociale. Il significato di vulnerabile -
“che può essere ferito” – è sicuramente univoco, ma le sue implicazioni
sono complesse e spesso contrastanti, visto che la vulnerabilità ci fa
sentire deboli, come inevitabilmente siamo, ma ci dà anche la forza che
deriva dalla coscienza che essere deboli, o, meglio, sapere di essere
deboli, ci rende molto più umani.
Del resto la totale invulnerabilità
non esiste neppure nei fumetti dove Superman è terrorizzato dalla
kriptonite, e, addirittura, non è contemplata nelle varie mitologie
antiche nelle quali si abbondava nel distribuire ai semidei delle
qualità incredibili. Achille poteva essere ucciso colpendolo nel
tallone, Sigfrido soltanto in un punto della schiena. Ed entrambi,
infatti sono stati uccisi, forse anche perché, avendo un solo punto da
dover difendere, lo trascuravano pensando soltanto al fatto che
praticamente nessuno poteva riuscire a far loro del male.
Noi di talloni e di punti della
schiena scoperti ne abbiamo tanti ed è proprio la vulnerabilità della
condizione nostra, e quindi altrui, che, assieme alla libertà di scelta,
sta alla base dell’etica e dei doveri che ne discendono.
Pensate soltanto a chi si disinteressa delle norme che ci impediscono di
uscire di casa, se non in caso di assoluta necessità, e a quelle che
proibiscono gli assembramenti. Ebbene, chi non le rispetta non soltanto
si crede irrealisticamente invulnerabile, ma se ne frega totalmente di
quello che può accadere a chi invulnerabile non è. Invece è
l’accettazione della vulnerabilità propria e altrui che ci spinge a
rispettare le regole, a far sì che un’apparente debolezza individuale
possa diventare una forza collettiva. Perché essere vulnerabili non
equivale a essere deboli, o sottomessi. Anzi, è proprio la capacità di
superare la paura e il dolore a rendere più forti e più capaci di agire
nella maniera migliore.
Provate a soffermarvi sullo
stereotipo dell’“uomo forte”, tanto in voga un tempo e ancora oggi
coltivato in certe parti della società: quell’uomo reprime le emozioni,
mette a tacere la sensibilità, si vergogna di essere delicato, si sforza
di farsi vedere più forte di chiunque altro, predica la superiorità del
proprio sesso e della propria cosiddetta razza, non deve chiedere
aiuto, ma è obbligato a obbedire ciecamente, anche se magari non è
d’accordo, a chi gli appare come più forte di lui stesso. È una figura
posticcia, più che umana, E, al contrario di quello che può credere,
vulnerabilissima.
Perché, poi, è il desiderio di
stabilire un legame con qualcuno che, in assoluto, ci rende più
indifesi. E la vulnerabilità è con noi quando chiediamo qualcosa di cui
abbiamo bisogno, quando prendiamo un impegno, o quando ammettiamo di
provare tenerezza, gioia, paura, dolore.
Del resto anche lo stesso uso comune
di questa parola descrive il fatto che inizialmente non sappiamo
accettarla. Quando nella parlata di ogni giorno si dice che qualcuno è
“una persona vulne¬rabile”, spesso si vuole indicare un essere umano
emarginato od oppresso, che rischia più facilmente di altri di essere
abusato e manipolato.
Se non si è preparati, la
vulnerabilità può essere una sensazione sgradevole perché ci fa sentire
esposti, senza protezione; può addirittura allungare la sua ombra su
ogni situazione quotidiana: nel lavoro, nei rapporti interpersonali,
nella difesa della propria privacy, nell’intraprendere qualsiasi nuova
iniziativa, anche nell’affidarsi a internet. Se non si accetta il fatto
che la vulnerabilità è una nostra caratteristica e non un nostro
difetto, questa sensazione può diventare addirittura un una specie di
fastidioso rumore di sottofondo costante, che ogni tanto alza il suo
volume fino a diventare insopportabile.
L’unica strada possibile è proprio
quella di accettare la propria vulnerabilità. È assurdo sperare di
riuscire a creare una teorica invulnerabilità alzando muri, tagliando
ponti, richiudendosi in una specie di castello che apparentemente
difende da ipotetiche minacce esterne, ma in realtà diventa una prigione
che non lascia uscire. E soprattutto adesso, con tutto quello che ci ha
imposto il coronavirus, dovremmo ormai sapere quanto fastidioso sia
sentirsi prigionieri, non avere libertà di movimento, non poter
incontrare e abbracciare le persone che vorremmo avere vicine.
Le altre parole: Abbraccio, Anonimo, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Europeismo, Futuro, Infodemia, Libertà, Natura, Scelta, Sogno, Solidarietà.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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