domenica 5 aprile 2020

Le parole del virus: Vulnerabilità

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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È incontestabile il fatto che l’odio che proviamo per il Covid-19 è provocato, oltre che dalla paura per i nostri cari e per noi stessi, dal fatto che ci ha fatto scoprire, o riscoprire, le nostre vulnerabilità, sia a livello individuale, sia sociale. Il significato di vulnerabile - “che può essere ferito” – è sicuramente univoco, ma le sue implicazioni sono complesse e spesso contrastanti, visto che la vulnerabilità ci fa sentire deboli, come inevitabilmente siamo, ma ci dà anche la forza che deriva dalla coscienza che essere deboli, o, meglio, sapere di essere deboli, ci rende molto più umani.


Del resto la totale invulnerabilità non esiste neppure nei fumetti dove Superman è terrorizzato dalla kriptonite, e, addirittura, non è contemplata nelle varie mitologie antiche nelle quali si abbondava nel distribuire ai semidei delle qualità incredibili. Achille poteva essere ucciso colpendolo nel tallone, Sigfrido soltanto in un punto della schiena. Ed entrambi, infatti sono stati uccisi, forse anche perché, avendo un solo punto da dover difendere, lo trascuravano pensando soltanto al fatto che praticamente nessuno poteva riuscire a far loro del male.

Noi di talloni e di punti della schiena scoperti ne abbiamo tanti ed è proprio la vulnerabilità della condizione nostra, e quindi altrui, che, assieme alla libertà di scelta, sta alla base dell’etica e dei doveri che ne discendono.
 

Pensate soltanto a chi si disinteressa delle norme che ci impediscono di uscire di casa, se non in caso di assoluta necessità, e a quelle che proibiscono gli assembramenti. Ebbene, chi non le rispetta non soltanto si crede irrealisticamente invulnerabile, ma se ne frega totalmente di quello che può accadere a chi invulnerabile non è. Invece è l’accettazione della vulnerabilità propria e altrui che ci spinge a rispettare le regole, a far sì che un’apparente debolezza individuale possa diventare una forza collettiva. Perché essere vulnerabili non equivale a essere deboli, o sottomessi. Anzi, è proprio la capacità di superare la paura e il dolore a rendere più forti e più capaci di agire nella maniera migliore.

Provate a soffermarvi sullo stereotipo dell’“uomo forte”, tanto in voga un tempo e ancora oggi coltivato in certe parti della società: quell’uomo reprime le emozioni, mette a tacere la sensibilità, si vergogna di essere delicato, si sforza di farsi vedere più forte di chiunque altro, predica la superiorità del proprio sesso e della propria cosiddetta razza, non deve chiedere aiuto, ma è obbligato a obbedire ciecamente, anche se magari non è d’accordo, a chi gli appare come più forte di lui stesso. È una figura posticcia, più che umana, E, al contrario di quello che può credere, vulnerabilissima.

Perché, poi, è il desiderio di stabilire un legame con qualcuno che, in assoluto, ci rende più indifesi. E la vulnerabilità è con noi quando chiediamo qualcosa di cui abbiamo bisogno, quando prendiamo un impegno, o quando ammettiamo di provare tenerezza, gioia, paura, dolore.

Del resto anche lo stesso uso comune di questa parola descrive il fatto che inizialmente non sappiamo accettarla. Quando nella parlata di ogni giorno si dice che qualcuno è “una persona vulne¬rabile”, spesso si vuole indicare un essere umano emarginato od oppresso, che rischia più facilmente di altri di essere abusato e manipolato.

Se non si è preparati, la vulnerabilità può essere una sensazione sgradevole perché ci fa sentire esposti, senza protezione; può addirittura allungare la sua ombra su ogni situazione quotidiana: nel lavoro, nei rapporti interpersonali, nella difesa della propria privacy, nell’intraprendere qualsiasi nuova iniziativa, anche nell’affidarsi a internet. Se non si accetta il fatto che la vulnerabilità è una nostra caratteristica e non un nostro difetto, questa sensazione può diventare addirittura un una specie di fastidioso rumore di sottofondo costante, che ogni tanto alza il suo volume fino a diventare insopportabile.

L’unica strada possibile è proprio quella di accettare la propria vulnerabilità. È assurdo sperare di riuscire a creare una teorica invulnerabilità alzando muri, tagliando ponti, richiudendosi in una specie di castello che apparentemente difende da ipotetiche minacce esterne, ma in realtà diventa una prigione che non lascia uscire. E soprattutto adesso, con tutto quello che ci ha imposto il coronavirus, dovremmo ormai sapere quanto fastidioso sia sentirsi prigionieri, non avere libertà di movimento, non poter incontrare e abbracciare le persone che vorremmo avere vicine.


Le altre parole: Abbraccio, Anonimo, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Europeismo, Futuro, Infodemia, Libertà, Natura, Scelta, Sogno, Solidarietà.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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