In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Strana
cosa la memoria. Quanti, per esempio, quando hanno sentito pronunciare,
per il Covid-19, la parola “pandemia”, non hanno pensato a un
neologismo coniato per l’occasione? Eppure è un termine già usato per
infiniti flagelli che hanno colpito l’umanità. Ma, poiché è un ricordo
scomodo, molti lo hanno relegato in un angolo nascosto.
Eppure, al di là della citatissima
peste nera, riapparsa a varie riprese in Europa, soltanto dagli inizi
del Novecento a oggi la lista non è breve e comincia con la Spagnola che
tra il 1918 e il ’20, su una popolazione mondiale di due miliardi di
persone ne contagia circa 500 milioni e ne uccide una cifra imprecisata
che spazia tra i 30 e i 100 milioni con un’approssimazione enorme,
causata probabilmente dal fatto che nessuno pensava che fissare i
termini della strage avrebbe potuto essere utile per i posteri.
Poi, oltre alle varie recrudescenze
del colera manifestatesi nell’Unione Sovietica del 1923 e ’66,
nell’Indonesia del ’60, nel Bangladesh del ’63 e nell’India del ’64, nel
1957 è scoppiata l’Asiatica, seguita dalla Hong Kong nel ’68,
dall’HIV-AIDS dall‘81, dall’Aviaria nel ’97 e dalla Suina nel 2009.
Senza contare altri tipi di malattie terribilmente infettive che non
raggiungevano l’intero mondo, ma che erano terribili nei loro focolai.
Chi non è più giovane, per esempio, non può dimenticare la poliomielite
che, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, ha ucciso, storpiato, o
comunque messo in grave pericolo migliaia di persone, per la maggior
parte bambini, fino a quando non sono arrivati i vaccini Koprowski nel
1950, il Salk nel ’52 e il Sabin nel ’62. Se, poi, ricordiamo che a
tutt’oggi non esiste ancora alcuna cura per la poliomielite, risulta
molto difficile comprendere come qualcuno possa essere e dichiararsi no
vax.
Il fatto è che in tutti i campi
tendiamo a dimenticare le cose scomode, o, almeno, a riporle in secondo
piano. Non altrimenti si potrebbero spiegare altri fenomeni
raccapriccianti come il negazionismo della Shoah e di altri genocidi che
continua a prosperare pur essendo incontrovertibilmente sbugiardato da
documenti, racconti, testimonianze dirette, confessioni, fotografie e
filmati. E per lo stesso motivo continuano a esistere i tanti razzismi
che sono tutti, scientificamente oltre che eticamente, insostenibili.
Fortunatamente esiste una categoria,
quella degli studiosi e degli scienziati seri, che tengono una memoria
delle cose importanti in centri di ricerca che in parte assomigliano ai
monasteri del medioevo e che, cioè, sono deputati a conservare la
memoria di quello che è accaduto per poterla riutilizzare in caso di
necessità. E sta di fatto che, se anche la maggior parte della gente
avesse presente questa realtà, molto probabilmente oggi non si sarebbe
alcuna difficoltà a far seguire da tutti certe istruzioni che, con la
conoscenza, appaiono non soltanto giustificate, ma inevitabili.
La “damnatio memoriae”,
insomma, non è stata applicata soltanto alle persone, ma anche e
soprattutto agli avvenimenti. Se volete un esempio vicino, pensate alla
drammatica sorpresa che moltissimi in Friuli hanno provato il 6 maggio
del 1976. Eppure bastava retrocedere nel tempo di pochi anni per trovare
i terremoti di Verzegnis e di Sacile; e, se si andava ancora più
indietro, appariva chiaramente che il Friuli è stato da sempre una zona
sismica.
Sembra quasi che esista un virus che
agisce scavando buchi nella memoria dell’umanità e condannandola,
cancellando l’arma dell’esperienza acquisita, a non difendersi in
anticipo da tutte le possibili catastrofi, almeno per limitarle. E
questo virus è talmente potente che cancella in molti uomini, che forse
s’illudono di essere più forti della natura, anche l’istinto di
trasmettere la propria conoscenza, e, quindi capacità di sopravvivenza,
ai propri cuccioli. Tzvetan Todorov ha scritto: «Se in seguito al morbo
di Alzheimer un individuo è privato della memoria, cessa di essere se
stesso. Allo stesso modo un popolo non può esistere senza una memoria
comune».
Da tutto questo appare evidente che
la memoria non è soltanto preziosa per conoscere il passato, ma è
fondamentale per prefigurare il futuro. Con l’esperienza fatta con il
coronavirus, per esempio, se si pensa al bene comune, chi potrebbe
ancora proclamare la superiorità della sanità privata rispetto a quella
pubblica che deve fare il bene dei cittadini prima di produrre utili e,
quindi, può anche prevedere le costosissime attrezzature e la varietà di
specializzazioni richieste dai reparti di terapia intensiva?
E chi potrebbe onestamente accettare
che oltre che sulla sanità, i tagli continuassero a essere fatti nei
campi dell’istruzione e della ricerca che sono sempre più in sofferenza e
che vedono i nostri migliori cervelli parlarci da altre nazioni – Stati
Uniti, Gran Bretagna, Francia e altri ancora – dove sono stati
accettati, o meglio cercati, e dove hanno trovato condizioni e mezzi per
lavorare al meglio? E, ancora, se ci si ricorderà di quello che è
successo, sarà possibile affidare all’unico criterio della redditività
dettata dal mercato la decisione se tenere in piedi, o meno, almeno
alcune fabbriche di mascherine? Se, poi, lo Stato avesse deciso di
continuare a gestire in proprio qualche azienda farmaceutica e chimica,
oggi non sarebbe necessario attendere che il laboratorio farmaceutico
dell’Esercito si riconverta per produrre la quantità di disinfettanti
necessari che devono essere fatti di corsa per salvare le persone ben
prima che per incrementare gli utili di qualcuno.
La memoria, insomma, ci dovrebbe impedire di continuare sulla strada seguita fino a oggi.
Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Infodemia, Libertà, Natura, Quarantena, Scelta, Sogno, Solidarietà, Tempo, Vulnerabilità.
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