giovedì 21 ottobre 2021

Abbondanza o carenza?

Honsell In questi giorni l’attenzione generale è stata assorbita dall’assalto alla CGIL di Roma e dai tentati blocchi dei porti, soprattutto di quello di Trieste, da parte di coloro che vengono chiamati no-vax, o no-pass, ma che, in realtà, dovrebbero essere definiti “no-lib” visto che attentano pesantemente ai diritti altrui tra i quali è il primo e quello sottolineato dall’articolo 32 della nostra Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».

Ed è forse per questo che è passato quasi sotto silenzio, tranne che per una lodevole interrogazione del consigliere regionale Furio Honsell, il fatto che la casa editrice Kappavu sia stata depennata dal novero degli editori presenti al Salone del libro di Torino nello stand della Regione Friuli Venezia Giulia.

Perché? È stata la stessa assessora Gibelli a confermare il fatto e a lanciarsi in acrobazie dialettiche per giustificare una decisione inqualificabile e in netto contrasto con il dettato della Costituzione che, nell’articolo 21, afferma: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».

Il tema del contendere è sempre quello rappresentato dalla raccapricciante storia delle foibe e dal tentativo delle destre di usarla come contraltare della Shoah, come se fosse possibile che due negatività si annullino a vicenda, mentre, in realtà, finiscono per assommarsi nel cumulo di disumanità di cui è zeppa la storia. Quello che all’assessora non va giù non è che ci sia un negazionismo che nessuno si sogna di sostenere, ma che si pubblichino lavori di storici che, con documentazioni, come per tutte le altre stragi, cerchino di dare contorni numerici definiti alla realtà e che retrocedano nel tempo per ricordare anche i motivi per i quali molti slavi odiassero i fascisti che altre stragi avevano perpetrato durante l’occupazione di gran parte dell’attuale Slovenia e della Croazia. Solo per ricordare un episodio: il 4 agosto 1942 il generale Mario Robotti ha trasmesso per iscritto, in un fonogramma, a margine di un ordine impartito dal generale Roatta, una sua conclusione: «Si ammazza troppo poco!». Intendiamoci: la vendetta, soprattutto quella cruenta, non è mai lecita, come è assolutamente inaccettabile l’idea di pensare che ogni italiano fosse un fascista, ma questo può far capire come si sia arrivati a simili livelli di odio reciproco e di barbarie.

Nella sua risposta l’assessora curiosamente afferma di essere contro il pensiero unico; quello altrui, naturalmente. E facendo ciò ricorda da vicino, pur se su altri temi, quelli che affermano: «Non sono razzista, ma…». Poi elenca una serie di titoli editi dalla Kappavu dei quali, come lei stessa fa capire, ha letto soltanto le brevi note di presentazione e annovera tra quelli che lei chiama «ladri di verità» vari storici di cui alcuni scrivono anche per il Mulino, una delle case editrici più serie e rispettate a livello internazionale, nel campo della saggistica.

A contraltare quelli che scrivono di storia pone il cantautore (o l’artista, come preferisce chiamarlo lei) Simone Cristicchi, che viene portato a esempio di difensore della verità perché ha avuto molto successo nei suoi spettacoli dedicati all’esodo e, quindi, anche alle foibe. Nessuno mette in dubbio la buona fede con cui Cristicchi ha scritto e portato sul palco “Magazzino 18”, ma se l’unico metro di giudizio per Tiziana Gibelli è dato dal successo di pubblico, immagino che il suo riferimento filosofico attuale sia quello dei pur musicalmente bravissimi e pluripremiati Måneskin.

Da applausi è, poi, la veronica con la quale tenta di annacquare le più che giustificate accuse: dapprima chiama a correo Pordenonelegge che, visto come si è sempre comportato, non posso assolutamente pensare sia complice di una simile censura, e poi se ne esce con dei distinguo davanti ai quali l’Azzeccagarbugli manzoniano appare come un piccolo dilettante: «La Kappavu non è stata esclusa dal Salone del libro di Torino», ma il suo nome non compare nell’elenco degli editori presenti nello stand della Regione». E poi, ancora più virtuosistica: «Non ho impedito loro di partecipare; semplicemente non li ho accettati», e, specificando, «ho impedito loro, non abbiamo consentito di esporre il loro catalogo», cancellando così circa trecento titoli che, tra l’altro, con la storia delle foibe non hanno neppure il più piccolo aggancio.

Davanti a simili atteggiamenti di un’assessora regionale e al terribile silenzio che ha accompagnato questa censura è difficile non tentar di far ricordare a tutti che la ragione dell’ascesa al potere di Mussolini non è stata una sovrabbondanza di fascisti, bensì una drammatica carenza di democratici.

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mercoledì 13 ottobre 2021

Una Costituzione da leggere

Costituzione 2Probabilmente i fatti di Roma hanno finito per far aprire gli occhi a molti sulla realtà fascista di una parte non trascurabile dei cosiddetti movimenti no-vax e no-green pass, ma non sono pochi quelli che continuano imperterriti a recitare le loro formulette dialettiche imparate a memoria nei non pochi siti infarciti di fake-news.

Lasciando perdere coloro che fideisticamente credono a qualunque fantasiosa ipotesi complottistica venga loro fatta passare per reale e quelli che sanno benissimo che quelle fake news sono proprio nient’altro che bufale utili a fini elettoralistici, restano alcune persone che non credono alla scientificità della scienza e altre che si affidano a una lettura parziale e capziosa della nostra Costituzione, che probabilmente è uno dei testi più citati e insieme meno letti al mondo.

A coloro che tirano in ballo la Costituzione, vorrei suggerire la lettura di quel testo in maniera completa e, nello specifico, segnatamente l’articolo 32 che, nel secondo comma, recita: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», ma anche l’articolo 16, che, al primo comma, afferma: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza».

Viste queste due brevi citazioni la prima delle ipotesi possibili fa pensare che i contestatori, al netto delle suggestioni fasciste, non concepiscano il concetto di una legge emanata, in democrazia, per stato di necessità. Quindi questo vuol dire che, o non si considera eccezionale e grave l’accadimento di una pandemia che solo in Italia ha mietuto oltre 130 mila vittime, o non si ha fiducia nella scienza. Eventualità che sono molto lontane dalle mie convinzioni e – ne sono certo – anche dalla realtà.

È in quest’ottica che va inquadrato il fatto che da venerdì l’obbligo del green pass diventerà cogente in tutte le situazioni, anche di lavoro, pubblico o privato che sia, con sanzioni, multe e sospensione dello stipendio per gli inadempienti.

Su questo obbligo si sta assistendo a spettacolari tentativi di equilibrismo logico che non riescono a nascondere una contrarietà concettuale al vaccino. Stante il fatto che l’obbligatorietà – grazie a Dio già esistente per altri vaccini – avrebbe sicuramente precluso la possibilità di opposizioni se non per concreti problemi di salute, le richieste minacciose e spesso violente di una gratuità dei tamponi per chiunque voglia farne uso appare decisamente contraddittoria con il fatto che i vaccini che puntano a combattere la pandemia sono già completamente a carico dello Stato e, quindi della collettività. E questa richiesta appare decisamente ingiusta anche dal punto di vista dell’equità contributiva generale visto che farebbe pagare a tutti gli italiani il rifiuto da parte di alcuni di seguire la strada che invece è quella più sicura e utile per l’intera comunità.

Se poi si rifiuta un controllo tramite green pass, implicitamente si vuol concedere a tutti di andare da qualunque parte sempre e comunque e quindi, in pratica, si finisce per negare anche la validità e la necessità del vaccino. Già sarebbe inaccettabile in via di speculazione filosofica, ma, sapendo che chiunque potrebbe contagiare chiunque altro (e già questo purtroppo è già successo alcune centinaia di migliaia di volte), la cosa è inammissibile anche dal punto di vista pratico oltre che costituzionale.

A tale proposito, per coloro che amano citare la nostra Carta fondamentale senza conoscerla consiglio la lettura dell’articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti involabili dell'uomo...», il primo dei quali è quello alla salute e alla vita e quindi alla difesa dalla possibilità di venir contagiato da chi rifiuta, per motivi non fondati, non soltanto di difendere se stessi, ma soprattutto di non mettere in pericolo gli altri.

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domenica 10 ottobre 2021

Il punto di vista

CGILSono sempre più convinto che stiamo guardando le cose da un punto di vista sbagliato. Anche il vergognoso assalto alla sede centrale della CGIL a Roma durante una manifestazione dei no-vax e no-green pass viene interpretata come la manipolazione da parte dei fascisti (non mi sembrano davvero neo-) di una massa di persone che volevano protestare pacificamente per quelli che ritengono essere loro diritti. E, quindi ci si limita a lanciare proclami contro ogni restaurazione dei gruppi politici che si rifanno alla cupa violenza del ventennio dittatoriale italiano, dicendo che mai il fascismo tornerà nel nostro Paese. Il tutto mentre impunemente Meloni e Salvini chiedono a gran voce le dimissioni della Lamorgese, ministra degli Interni.

Per prima cosa, dovrebbero essere gli italiani a chiedere a gran voce a Meloni e Salvini le dimissioni dal loro ruolo di segretari di partiti perché sono proprio loro ad aver allevato, coccolato, ispirato, tentato di sdoganare i vari gruppuscoli violenti che si ispirano al fascismo e al nazismo che, a parte che per il colore delle camicie, proprio tanto diversi non erano. E già qui un primo errore comincia a essere evidente. Abbiamo sempre ritenuto che i due leader si comportassero così per bassi interessi elettorali: ora, con tutte le cose che sono accadute e che stanno accadendo, appare sempre più evidente che il loro comportamento non dipende da pur schifose convenienze, ma che probabilmente deriva da vere e proprie convinzioni sociali e politiche.

Secondo aspetto, ancora più importante: siamo davvero sicuri che ci sia tanto da distinguere tra i fascisti che godono nel trasformare in violenza tutto quello che riescono a toccare e i gruppi di no-vax e no-Green pass che, con il loro comportamento, si mettono nelle condizioni di essere dei potenziali assassini? Perché non ci sono dubbi possibili sul fatto che, se, anche a differenza di molti altri Paesi, siamo riusciti a limitare all’enorme cifra, comunque ancora in crescita, di oltre 130 mila morti il numero delle vittime del Covid, lo dobbiamo esclusivamente ai vaccini e alle forme di limitazione nelle partecipazioni comuni a luoghi e avvenimenti e all’obbligo di praticare certe prevenzioni personali, come l’uso delle mascherine. Ripeto: non ci sono dubbi possibili, almeno se non si è in malafede, o non si è in grado di leggere la realtà.

Non vedo differenze sostanziali tra chi mette a repentaglio la vita altrui con la violenza fisica e chi fa la stessa cosa esponendo a un contagio potenzialmente mortale chiunque incontri. In entrambi i casi si tratta di disprezzo per la vita umana (quella altrui, ben s’intende).

E non si venga a parlare di dittatura sanitaria, o di libertà conculcata. C’è qualcuno che seriamente può pensare che l’esame della patente sia previsto per dimostrare semplicemente di saper usare contemporaneamente volante, freno, acceleratore e frizione e non per assicurare la società che sulle strade possano andare soltanto persone in grado di evitare di trasformare le automobili in potenziali armi mortali nei confronti dei passanti, o di altri automobilisti?

Forse l’errore da cui tutto discende consiste nel fatto che si pensa che sentirsi democratici corrisponda a dover lasciare che ognuno dica e faccia tutto quello che gli passa nella testa. Non è così. Chi può ritenere lecito che si possa incitare alla violenza, o all’omicidio? Chi accetta che la propria proprietà possa essere messa in discussione? Chi andrebbe a bere un caffè in un bar nel quale chi sta dietro il banco è affetto da quella tubercolosi ormai quasi del tutto scomparsa grazie al progredire di quella scienza che i no-vax rifiutano? Eppure non c’è più alcun obbligo, come una volta, di possedere un libretto sanitario che controlli periodicamente le eventuali malattie in atto.

Probabilmente bisognerebbe fare un ripasso non soltanto dell’idea di “delega”, ma anche del significato della parola “libertà” e della sua differenza con il concetto di “arbitrio”. Se non lo si farà, sarà sempre più priva di ostacoli la strada che permetterà non il ritorno del fascismo che, nonostante le parole della Costituzione, è già tornato e ha messo non poche radici, ma del suo rafforzamento che mette in pericolo non soltanto la democrazia, ma la civiltà stessa del nostro Paese.

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mercoledì 6 ottobre 2021

Non solo uno scienziato

Giorgio ParisiQuesta intervista è stata fatta ad me al professor Giorgio Parisi, da ieri premio Nobel per la fisica, il 25 gennaio 2005, qualche giorno prima della consegna del Premio Nonino che ancora una volta è riuscito ad anticipare le scelte della commisssione di Stoccolma.

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– Professor Parisi, per prima cosa complimenti per il premio Nonino alla cui cerimonia di consegna lei, fisico teorico, sarà in compagnia di due letterati di cui una è particolarmente impegnata nel sociale. Dante parlava di «seguir virtute e canoscenza»: forse finalmente le due sfere del sapere riescono a riavvicinarsi?

«Mi sentirò in una compagnia estremamente piacevole e sono molto contento perché questo è un tentativo importante di avvicinare le due sfere della conoscenza».

– Da un certo punto di vista, lo sta già facendo, perché, un po’ come i presocratici, nei tempi in cui fisica e filosofia erano abbastanza unite, lei tenta di indagare la natura soltanto con la forza del pensiero per intuire e costruire realtà possibili. Poi ai calcolatori spetta soltanto il compito di fare una specie di prova del nove. È così?

«Sì, è giustissimo. Ma senza andare indietro nel tempo fino ai presocratici, anche al tempo di Kant ed Hegel la fisica newtoniana aveva influenzato moltissimo il pensiero filosofico».

– E poi come mai questo distacco?

«Perché la scienza è diventata molto specializzata. La quantità di studi necessari per capire i fondamenti di Newton era molto inferiore a quella che serve adesso per comprendere Einstein, o la meccanica quantistica. Inoltre, il tempo che uno ha è limitato ed è difficile trovare persone che lavorino in discipline classiche e abbiano contemporaneamente una solida formazione scientifica».

– Con la sua opera, lei ricorda che la matematica è il tessuto su cui tutti si basa: fisica, chimica, biologia, economia. Eppure la purezza e l’assolutezza della matematica sembra quasi metterla in contrasto con il caos del mondo...

«La matematica da un paio di secoli ha una certa tendenza a diventare più qualitativa. Alla fisica è sempre stata molto vicina, ma se ci si vuole confrontare con le scienze “molli”, quelle che a volte sono al limite tra scienza e conoscenza, l’unica strada è avere descrizioni il più possibile di qualità».

– Lo sforzo, insomma, è quello di tramutare cose apparentemente caotiche in qualcosa di comprensibile lavorando sia in termini di spazio, sia di tempo. Ma nel passato c’è sicuramente stato qualcosa di caotico che ora a noi sembra ordinato e comprensibile grazie ai progressi della scienza...

«È vero. Prendiamo il moto dei pianeti che, riferendosi a un sistema geocentrico, erano quasi incomprensibili. Quando gli antichi osservano con cura il cielo, una delle cose che li faceva impazzire era il fatto che Marte, che normalmente si muove in una direzione, a un certo punto sembra tornare indietro per un po’. Quello che succedeva, e non lo potevano capire, era dovuto al fatto che la Terra va più veloce di Marte e che quando la sorpassa apparentemente Marte va all’indietro; poi torna a muoversi normalmente. Per secoli molte cose sono sembrate incomprensibili, anche nella biologia».

– Quindi il caos è un concetto relativo?

«Direi che il caos è diventato un concetto tecnico; e questo è un fatto che si riesce a controllare perché esiste una definizione precisa e matematica di cos’è un sistema caotico, e di come si misurano gli indici della sua caoticità. Mentre prima di questo concetto non si poteva parlare, ora il caos è una quantità misurabile, definibile, matematicamente studiabile».

– Cercando di stabilire regole ed equilibri dentro sistemi caotici lei, in un certo senso, sembra lavorare anche per confermare l’esistenza del determinismo pensato da Laplace. È un’impresa che, ammesso io ne avessi le capacità, mi farebbe paura perché, se avessi successo, dovrei essere d’accordo con Laplace non soltanto quando dice che Dio diventa superfluo, ma anche quando implicitamente sostiene che non esiste neppure il libero arbitrio. Non la intimorisce l’idea di aprire una porta che potrebbe farle capire che lei quella porta ha dovuto e non voluto aprirla?

«Io non sono assolutamente d’accordo con l’affermazione metodologica di Laplace, perché a noi non serve assolutamente descrivere le scienze utilizzando metodi deterministici. Laplace dice che se fossimo matematici infinitamente abili saremmo in grado di costruire il futuro e ricostruire il passato. Ma non siamo matematici infinitamente abili, né siamo infinitamente precisi per sapere esattamente com’è il presente. Quindi si tratta di un’affermazione di principio del tutto irrilevante nella vita di tutti i giorni e anche nel fare scienza perché la descrizione di un sistema, non appena questo diventa un po’ complicato, deve essere fatta in termini probabilistici».

– Insomma, i concetti di Laplace sono più utili per fare filosofia che per fare scienza...

«Esattamente. Fondamentalmente, dal punto di vista matematico, io sono un probabilista. Tutto il mio lavoro si basa sull’uso, a volte molto sofisticato, delle probabilità perché, per poter fare scienza, quando sono molti i sistemi che interagiscono fra di loro, è assolutamente necessario utilizzare i concetti probabilistici».

– Quindi il libero arbitrio, da questo punto di vista, è salvo?

«Quella del libero arbitrio mi sembra una questione filosofica. Se guardo una persona nel passato non necessariamente vedo la sua libertà, ma solo che ha fatto una determinata cosa. Se era libero o no, chi può dirlo?».

– Può dipendere da molte cose...

«Anche senza parlare di determinismo, noi abbiamo tanti di quei condizionamenti sociali, più o meno inconsci, che il problema del libero arbitrio va visto in altra maniera. Uno è talmente condizionato da dove è nato, dalla propria educazione, dalla storia che vive, dalle esperienze che ha fatto, che, in fondo, di vero libero arbitrio ne rimane relativamente poco. Si potrebbe pensare che serve per utilizzare al massimo le occasioni che uno ha, ma anche questa la volontà è condizionata da tutta una serie di fattori esterni».

– L’anno scorso Marcello Cini, che l’ha preceduta nel Premio Nonino a un maestro italiano, mi aveva ripetuto che secondo lui la scienza non è neutrale. Per non esporla esclusivamente i voleri dei poteri economici e politici deve essere una scienza democratica. O bisogna limitarsi a sperare che le individualità scientifica di spicco abbiamo contemporaneamente anche uno spiccato senso etico e sociale?

«Secondo me è importante dare ai cittadini le capacità di poter capire quello che sta succedendo intorno a loro. Ci sono delle scelte tecnologiche che sono piene di significato politico e se i cittadini non hanno alcuna capacità scientifica, queste decisioni dipendono da interessi particolari. In una democrazia completa è molto importante che i cittadini possano capire cosa accade sopra le loro teste».

– La certezza che la scienza possa postulare un progresso infinito si è ormai sbriciolata. E anche le cosiddette scienze sociali sembrano aver accettato la certezza di non riuscire a progredire indefinitamente e, quindi, di non poter superare certe ingiustizie. Questo deve portare a una specie di pessimistica rassegnazione, o a una costruttiva arrabbiatura?

«Progredire, specialmente dal punto di vista sociale, vuol dire fare dei paragoni fra sistemi diversi che, alla fine, sono incommensurabili. Io spero che la scienza porti non a un progresso infinito, ma a cercare una sempre maggiore comprensione. Poi sul fatto che il progresso della società possa avere dei momenti di stagnazione, o di regresso, questo è certamente possibile».

– Lei dice che la gente deve sapere per poi valutare e decidere. In Italia il sapere scientifico è molto trascurato, forse anche perché manca una vera divulgazione scientifica, genere letterario in coda sia per le vendite, sia probabilmente anche per la qualità rispetto a quella di altri paesi...

«Sicuramente manca la divulgazione scientifica, ma molto dipende anche dal fatto che i programmi dei licei e delle medie sono fatte con i piedi. Vengono presentate una fisica e una matematica completamente astratte, che non servono per capire il mondo che ti sta accanto. Se uno studente di liceo si domanda come funziona un frigorifero, non lo sa ed è portato a credere che tutta la tecnologia sia una cosa lontana, quasi che molte macchine funzionino per virtù magiche».

– In pratica si tratta di programmi che non affascinano, ma addirittura allontanano?

«Non solo non affascinano, ma non danno nemmeno gli strumenti per comprendere quello che abbiamo accanto. Andrea Prova ha scritto un bellissimo libro “Perché accade quel che accade” in cui tenta, con linguaggio abbastanza semplice, di spiegare una serie di fenomeni della vita di tutti i giorni utilizzando concetti fisici. Secondo me la fisica e la matematica al liceo dovrebbero insegnare che il mondo che vediamo è comprendibile e che certe cose, anche se non tutte, hanno spiegazioni semplici, che tutti possono capire».

– Tra i problemi italiani, uno di quelli più sentiti è la mancanza di fondi destinati alla ricerca e, quindi, l’inevitabile fuga di cervelli. E la cosa sta peggiorando...

«La cosa sta certamente peggiorando perché gli investimenti nelle università e nella ricerca non riescono a stare dietro all’inflazione, mentre c’è assoluto bisogno di assumere del personale giovane: anche le persone che lavorano nella ricerca invecchiano di un anno ogni anno e non ci sono giovani che li sostituiscano».

– Anche perché nella ricerca il precariato è difficilmente sostenibile...

«Il fatto è che in Italia la gente rimane precaria fino a 35 anni, o anche di più, e così quelli più brillanti se ne vanno all’estero. In Francia di norma la gente viene assunta fino ai 31-32 anni: ci sono delle disposizioni in proposito. Inoltre la finanziaria 2005 ha bloccato per tre anni le assunzioni negli enti di ricerca».

– Una specie di autocastrazione di Stato?

«È uno stupido condannarsi a regredire perché – dicono – anche se ci sono i soldi non li potete usare. Infatti gli enti di ricerca sono costretti a fare concorsi per scegliere le persone, ma poi non possono assumerle in forma permanente e cercano di dare loro un posto provvisorio in attesa di poterlo tramutare in definitivo. È una follia assoluta. La spesa è la stessa, ma si impedisce di utilizzare i fondi nel modo più razionale».

– Molto spesso gli scienziati si sono tenuti un po’ ai margini della vita sociale vera e propria, anche perché totalmente assorbiti dalle loro ricerche. Adesso sono molti di più quelli che si impegnano nel prendere posizione davanti a certe realtà. Per esempio, moltissimi scienziati, tra cui anche lei, si sono dichiarati contrari alla guerra. Questo cambio di atteggiamento deriva da una maggiore coscienza, o dall’avvertire un maggiore pericolo?

«Forse da tutte e due. Ma più che di maggiore pericolo, parlerei di maggior degrado. Per esempio, prima non accadeva che l’Italia non rispettasse la Costituzione. C’era la guerra del Vietnam, ma non si è mai pensato di mandare italiani in Vietnam. Adesso, invece, sia con governi di sinistra sia con governi di destra, si mandano tranquillamente soldati italiani in zone di guerra. Penso che da questo punto di vista la situazione si sia degradata. Poi le persone che lavorano nel campo scientifico non soltanto hanno probabilmente acquisito una maggiore consapevolezza, ma tendono anche ad avere, per formazione, uno sguardo più obiettivo sulla realtà e generalmente possono parlare a voce alta senza paura di rappresaglie».

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martedì 5 ottobre 2021

Due mondi o due epoche

Elezioni A guardare i risultati delle elezioni a livello nazionale paragonandoli con quelli che sono usciti dalle urne regionali, viene il dubbio che i responsi riguardino due mondi, o due epoche diverse.

In Italia spicca una debacle assoluta della Lega salviniana, la quasi totale scomparsa, tranne che in Calabria, di Forza Italia e una buona affermazione di Fratelli d’Italia che, però, non è assolutamente all’altezza delle aspettative suggerite alla Meloni dai sondaggi.

Nel Friuli Venezia Giulia, invece, c’è stato un largo dominio dei partiti di destra, con una tenuta, ma non certamente una clamorosa riscossa, da parte del PD, con punte a Trieste dove la serietà e l’impegno di Francesco Russo gli ha permesso, pur in forte svantaggio, di arrivare al ballottaggio con Di Piazza, e a San Vito al Tagliamento dove la tradizione di sinistra è evidentemente ancora abbastanza radicata.

Unico tratto in comune tra nazione e regione, la quasi totale scomparsa dei 5stelle che ormai è difficile chiamare grillini visto che il loro inventore, Beppe Grillo, non amando l’odore della sconfitta, si è decisamente allontanato dalla sua creatura.

La domanda, inevitabile per un elettore di centrosinistra nostrano, è: ma cosa abbiamo fatto di male per avere un centrosinistra così debole?

La prima risposta è immediata, evidente e incontrovertibile: la colpa è nostra. Ci siamo limitati ad andare a votare – e nemmeno tutti – quando siamo stati chiamati alle urne e per il resto ci siamo dimenticati di reagire davanti a ogni errore, o a ogni mancanza, o per assoluto disinteresse, o, ancor peggio, per un’errata interpretazione del concetto di delega che in una democrazia rappresentativa è doverosa per demandare alcune scelte ai competenti e agli esperti che teoricamente dovremmo scegliere con il voto, ma che non può assolutamente comprendere anche la delega di responsabilità che non può che essere personale e riferirsi anche alle scelte sbagliate.

La seconda può presupporre l’esistenza di una destra talmente forte da cancellare ogni buona cosa che odori, pur vagamente di sinistra. Questa ipotesi può essere consolatoria e suggestiva, ma in realtà la destra di questa regione e delle sue varie articolazioni territoriali, ha soltanto saputo moderare i deliri sovranisti, no-vax e no-green pass di Salvini e della Meloni. Per il resto ha saputo nascondere, sotto la coperta di un’accettabile gestione dell’emergenza del Covid, un’ulteriore spinta verso la sanità privata anche se la stessa pandemia ha dimostrato ad abundantiam che i danni in termini di vite umane sarebbero stati decisamente minori se la sanità pubblica non fosse stata così ferocemente depredata nei decenni precedenti. Ha poi scaricato sulle leggi salviniane ogni disumanità nei confronti dei migranti e ha saputo nascondere, non soltanto a Udine, sotto spessi manti di asfalto steso a coprire buche di strade e marciapiedi, anche l’assoluta mancanza di progettualità per un futuro capace di proporre miglioramenti sociali, amministrativi e culturali.

La terza risposta è probabilmente quella che più si avvicina alla realtà, o che, almeno, compone la maggior parte del mosaico che rappresenta le scelte regionali: il centrosinistra, con il PD in testa, non ha saputo, o non ha voluto, parlare agli elettori. E non soltanto questa non è la prima volta, ma sembra ormai diventata una deprecabile tradizione.

Questo non accade perché questa parte politica non ha nulla da dire in campo sociale, economico, culturale, legislativo – bene o male Enrico Letta che pure non è un fuoriclasse della comunicazione ha saputo dare molte indicazioni evidentemente ben accettate nel resto d’Italia – ma soprattutto in quanto il partito appare del tutto chiuso in se stesso, sempre deciso a bloccare le liste per non permettere agli elettori di esprimere preferenze reali, capace di discutere anche animatamente, ma soltanto al suo interno, impiegando nelle dispute interne una parte non trascurabile delle proprie energie che invece sarebbero più preziose per combattere gli avversari esterni. E questo fatto riguarda tutti i partiti di sinistra, più impegnati a mettere in rilievo le piccole cose che li dividono che le grandi che li uniscono.

Tutto questo evidentemente non solo non dà buoni frutti, ma tende ad allontanare tutti coloro che pur sarebbero vicini a un centrosinistra che dovrebbe essere capace di unire i principi della sinistra laica con quelli del cristianesimo sociale.

Nel 2022 ci saranno elezioni di non piccola importanza, tra cui quelle comunali di Gorizia e di Monfalcone. Nel 2023 ci saranno quelle regionali e le comunali di Udine. Il centrosinistra di questa regione ha intenzione di reagire velocemente, oppure preferisce rassegnarsi a perdere ancora, ma soprattutto a condannare alla sconfitta i suoi possibili elettori?

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domenica 3 ottobre 2021

Veniali e mortali

Mimmo LucanoLa frase tipica con cui si tenta di darsi un contegno di equanimità davanti a un giudizio che non si condivide è: «Ovviamente attendo di leggere il dispositivo della sentenza, ma…», come se questa frase concedesse un lasciapassare assoluto a qualsiasi critica non soltanto al giudizio, ma anche ai giudici che lo hanno emesso. Ecco: davanti alla sentenza di primo grado che ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni e due mesi di carcere, quasi raddoppiando le richieste del pubblico ministero, questa frase mi sembra del tutto inutile e non soltanto perché per chi non ha fatto studi giuridici spesso i dispositivi delle sentenze hanno un grado di comprensibilità simile a quello di un antico documento in sanscrito, ma soprattutto in quanto ci sono alcuni elementi di critica che mi sembrano oggettivi e incontestabili.

Ovviamente non mi riferisco a una possibile lettura politica della sentenza perché una simile critica sarebbe esposta a una controcritica uguale e contraria e, in quanto, insieme con l’altrettanto trita accusa di “giustizia a orologeria”, l’ho sempre ritenuta del tutto inutile, se non a contribuire a far crollare la fiducia nel sistema giudiziario delle democrazie, con gli inevitabili corollari che buona parte della popolazione finirebbe per auspicare l’avvento di una cosiddetta “giustizia” in cui le sentenze seguono sempre i voleri del capo al potere e la nascita di realtà sul tipo dei Lager o dei Gulag, o all’altrettanto improbabile “giustizia” basata su sondaggi di opinioni eseguiti tra gente che sa poco, o nulla dei fatti, e che portano a realtà simili ai linciaggi, fisici o morali che siano.

Le mie critiche si appuntano su due realtà. La prima riguarda il fatto sostanziale che probabilmente nulla sarebbe mai successo se non fossero stati in vigore dei dispositivi di legge sull’immigrazione clandestina voluti da Salvini, Meloni e loro seguaci, non per limitare i clandestini, ma per combattere l’immigrazione tout court. Non ci fossero state queste leggi disumane che addirittura volevano punire chi salvava una vita dall’annegamento, nulla sarebbe successo. Intanto perché tutto il procedimento contro l’allora sindaco di Riace nasce proprio da quelle leggi, anche se poi proprio da quelle accuse è stato assolto perché «il fatto non sussiste», mentre per altre è stato inevitabilmente condannato. E poi perché molto probabilmente, se non ci fossero state quelle leggi criminali, Mimmo Lucano non avrebbe sentito la necessità etica di infrangere quelle e altre leggi di tipo amministrativo per tentare di salvare alcune vite, non dalla morte per annegamento, ma dall’abbandono a una vita fatta di stenti, emarginazione e, con buone probabilità, destinata ad andare a ingrossare la malavita; in forma attiva, da delinquenti, o passiva, da schiavi.

La seconda realtà riguarda il fatto che – sembra incredibile – nella cattolicissima Italia si sia persa la capacità di distinguere tra il concetto di “peccato mortale” e di “peccato veniale”, che, per chi ci crede, può comportare la non piccola diversità di destinazione tra l’inferno e il purgatorio. Che Mimmo Lucano abbia infranto leggi amministrative e regolamenti burocratici falsificando alcuni atti e documenti non lo nega nessuno, come è inevitabile la critica che la disobbedienza civile deve essere accompagnata – anche se per un sindaco può essere molto più difficile che per un parlamentare, o anche per un privato cittadino – dalla dichiarazione palese che questo atteggiamento di protesta esiste proprio per opporsi a una legge ritenuta ingiusta. Ma francamente appaiono incomprensibili i 13 anni e due mesi comminati per una serie di reati amministrativi, oltretutto senza che nelle tasche del condannato sia rimasto impigliato neppure un centesimo, mentre per una tentata strage ne sono stati inflitti 12 e per altri omicidi realizzati le pene siano scese addirittura a 5 anni, o anche meno.

Quelli che sono felici che Mimmo Lucano sia stato condannato affermano che così deve essere perché le “tariffe” della giustizia sono quelle, ma dimenticano che proprio nella quantificazione delle pene i giudici possono esprimere al massimo la loro discrezionalità e se non lo fanno dimostrano quantomeno di aver perduto, appunto, la cognizione dei significati di “veniale” e “mortale” e finiscono per far ricordare una frase di François Mauriac che scrisse: «Quel che v’è di più orrendo al mondo è la giustizia separata dalla carità».

Se l’applicazione delle pene dovesse essere sempre rigida i giudici potrebbero essere sostituiti da dei computer. A qualcuno potrebbe sembrare una cosa auspicabile perché potrebbe garantire una costanza nel metro di giudizio, ma vorrei ricordare che ogni computer deve essere programmato e in quel caso saremmo in balia del programmatore.

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