giovedì 30 aprile 2020

Le parole del virus: Ansia

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
---

Si sente ripetere ogni giorno che si deve imparare a convivere con il Covid-19. E si pensa che, tutto sommato, non sia troppo difficile: basta innestare gli automatismi della mascherina, dei guanti, del “distanziamento sociale” e si è a posto. Ma quasi subito ci si rende conto che non si potrà sfuggire a un’altra convivenza decisamente più complicata: quella con noi stessi, o, almeno, con quelle parti di noi che ci possono mettere in crisi. E questa consapevolezza viene a galla non appena si constata che la resistenza al contagio non dipende soltanto da noi, ma anche, a meno di non rinchiudersi sine die in una catacomba, dal comportamento degli altri.

Ed è qui che affiora l’ansia. Perché c’è poco da fare: fino a quando non sarà confermata l’efficacia di un vaccino e non sarà inoculato a tutti, il Covid-19 sarà sempre accompagnato dall’ansia, uno stato d’animo un po’ più grave dello stress e meno angosciante della paura, ma che comunque finisce per mettere in difficoltà visto che arriva a ondate successive facendo seguire a momenti di qualche ottimismo altri di acuta preoccupazione.

Lo vediamo adesso, nell’imminenza della cosiddetta Fase 2 a livello nazionale che, per certi versi, è già cominciata nella nostra regione. Mentre si liberalizzano alcuni movimenti personali, si riaprono un buon numero di realtà produttive e di negozi, arriva una serie di docce fredde: la Germania, dopo una prima riapertura, ha visto ricrescere velocemente il numero dei contagi; la Francia ha sospeso la già prevista e imminente ripresa delle scuole e ha dichiarato concluso il campionato di calcio. In Italia, intanto, mentre numerose categorie protestano perché nelle riaperture «si è osato troppo poco», il Comitato tecnico scientifico che affianca il governo per l’emergenza del coronavirus snocciola una serie di dati raggelanti: se poi queste cifre sono ulteriormente approfondite al vaglio del tasso di letalità della malattia, il quadro diventa anche soltanto psicologicamente insostenibile.

Aprendo tutto, come se il virus fosse scomparso d’incanto, il numero di persone che finirebbero in terapia intensiva da qui a fine anno sarebbe insostenibile: oltre 430 mila con un picco di 151mila l’8 giugno. La sola chiusura delle scuole, mantenendo il resto attivo, farebbe scendere il picco a 110 mila (l’8 agosto), con un totale per tutto il 2020 di 397 mila casi da rianimazione. Se si riaprissero soltanto le scuole, poi, il picco di letti di terapia intensiva occupati sarebbe di 7.600, con oltre 48 mila casi fino a fine anno.

Siamo forse finiti in un antro di disperazione dal quale non si può uscire? Assolutamente no. Intanto perché la realizzazione di un vaccino non è soltanto una vaga speranza, ma, visti i progressi già raggiunti da una scienza che collabora in tutte le parti del mondo, sembra potersi concretizzare in tempi non brevissimi, ma comunque da record. Poi in quanto la gradualità e l’attenzione con cui si procede alla “normalizzazione” dovrebbe garantire di restare ben lontani da quei pericoli. E, infine, perché con le nostre ansie abbiamo imparato a convivere già da molto tempo. E non mi riferisco soltanto a quelle che ci fanno compagnia da quando siamo venuti al mondo, ma anche a quelle legate alla situazione attuale.

L’elenco non è breve. La prima ansia è legata alla paura del contagio che rimane, ma diventa parte di noi e si rivela più uno scudo davanti alla malattia che una minaccia alla nostra stabilità psicologica. E poi il meccanismo che fa seguire al sorgere di una paura la sua metabolizzazione si ripete. Pensate a quante paure sono diventate quasi abitudinarie e, quindi, non più in grado di rovinarci le giornate: il timore che un vaccino non venga mai scoperto; che non si realizzi un’immunizzazione per quelli già colpiti dal male in forma non letale; che in autunno si scateni la temuta recrudescenza; che siano gli altri ad avvicinarsi troppo a noi; che quando tutto tornerà normale a non essere più quello che definiamo “normali” saremo noi che intanto avremo perduto le nostre abitudini; che quando si riapriranno bar, ristoranti, scuole, teatri e cinema, troppa gente ci si precipiti mandando a quel paese la prevenzione; che quando si riapriranno bar, ristoranti, scuole, teatri e cinema, non ci vada nessuno mandando a quel paese l’economia; che la lontananza coatta possa infrangere, se non amicizie consolidate, almeno piacevoli compagnie, o anche amori appena nati; che il paesaggio delle città deserte scavi dentro di noi un’insofferenza alle città affollate. E potrei continuare.

Il fatto è che quando usciremo da questa esperienza, saremo un’inedita comunità che per una certa parte, ben maggiore di quella esistente fino a qualche mese fa, sarà costituita da tante solitudini che non renderanno certamente più facile affrontare l’ansia più sottile, ma anche quella più radicata e, cioè, che siamo assolutamente consci che non potremo più essere quello che siamo stati, ma non abbiamo ancora idea di quello che potremo diventare, se non che comunque saremo diversi.

Ma anche per questa ansia possediamo già un’arma di difesa ricordata pochi giorni fa con forza pure dal filosofo e sociologo Jürgen Habermas, che ultimamente è stata usata molto meno del necessario con nefaste conseguenze sociali ed etiche: la solidarietà nei confronti degli altri esseri umani che, se diffusa come dovrebbe sempre essere, garantisce che rivolge i suoi benefici frutti anche nei nostri confronti.

Perché le solitudini non sono mai condanne definitive e le porte che le rinchiudono possono essere sempre aperte, ma usando sulla stessa serratura contemporaneamente due chiavi: dal di dentro e dal di fuori. E quando la porta si apre l’ansia non evapora nel nulla, ma, insieme con altri, diventa decisamente sopportabile.


Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Anziano, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Guerra, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.


Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

mercoledì 29 aprile 2020

Le parole del virus: Guerra

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
---

All’inizio della serie “Le parole del virus” mai avrei pensato di inserirvi anche il vocabolo “guerra”, perché con la pandemia non c’entra davvero nulla. L’hanno detto in tanti, eppure abbiamo continuato a sentir usare, senza alcun motivo, questa metafora semplificativa che vorrebbe essere drammatizzante, ma che anche in questo senso è superflua visto che quello che ha provocato il Covid-19 è già sommamente drammatico di per sé. A tale proposito basterebbe ricordare quello che il 18 aprile è stato rilevato dal commissario all’emergenza, Domenico Arcuri: «Tra l’11 giugno 1940 e il 1° maggio 1945 a Milano sono morti sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale duemila civili in 5 anni; in due mesi in Lombardia per il coronavirus sono morti, a tutt’oggi, 11.851 civili, 5 volte di più».

I motivi per i quali è impossibile paragonare la pande¬mia che stiamo vivendo a una guerra sono molteplici. In un conflitto si conosce non soltanto il nemi¬co, ma si possono arguire anche le strategie più adatte per combatter-lo, mentre noi non conosciamo ancora a fondo il virus e tanto meno i rimedi possi¬bili. La guerra, il male asso¬luto ripudiato dalla nostra Costituzione, è provocata esclusivamente dagli uomini e, nel suo complesso, è addirittura più distruttiva del coronavirus, non soltanto per la quantità di persone a cui toglie la vita, ma anche per la distesa di macerie che lascia al posto dei centri abitati. Anche del coronavirus si dice che se n’è andato lasciando una distesa di macerie, ma intanto non se n’è andato ancora e poi quelle che oggi sono chiamate macerie potrebbero essere rimesse in piedi se ci fossero aiuti economici congrui, veloci ed efficaci.

Se poi andiamo alla limitazione delle nostre libertà personali, è vero che dobbiamo restare a casa, ma in guerra si doveva correre nei rifugi, altrimenti si rischiava di restare sepolti dalle case stesse. E se ci si lamenta delle file per entrare nei supermercati, bisognerebbe ricordare che una delle caratteristiche di ogni conflitto è la fame causata anche dalla scomparsa della maggior parte dei generi alimentari dalle scansie dei negozi che oggi, invece, sono ancora colme di merce.

Ma se queste sono le differenze di quella che gli affezionati alle iperboli definiscono “la guerra combattuta”, a me interessa molto di più guardare al dopo, ammesso che di “dopo” si possa parlare pensando di collocarlo in tempi vicini. Intanto perché, a differenza di un conflitto armato contro nemici umani, in questo caso nessuno potrà mai firmare una pace, ma nemmeno un armistizio con quel Covid-19 che non ha alcuna intenzione di scendere a patti con noi, anche perché di intenzioni coscienti non può proprio averne. Ma soprattutto in quanto, esclusa qualsiasi possibilità di dichiarare la resa, non sapremo mai con esattezza quando e se riusciremo a dire: «La guerra è finita e l’abbiamo vinta».

Non siamo ancora in grado di sapere se e quando un vaccino sarà realizzato, né se chi ha già contratto la malattia ne resta immunizzato, e neppure una miriade di altre cose che alla fine saranno essenziali per collocare il Covid-19 nell’armadio della storia dove vengono accumulati i ricordi più brutti.

Se proprio dobbiamo tenere in piedi dei paragoni guerreschi, allora potremmo rifarci piuttosto a una situazione di guerriglia che continuerà ben oltre la cosiddetta Fase 2 e che farà durare a lungo anche la Fase 3, fino a quando un vaccino efficace non sarà trovato, sperimentato, prodotto massicciamente e inoculato a tutti, come una volta si faceva contro il vaiolo, più recentemente contro la poliomielite e come si continua a fare contro tutta una serie di malattie con dei vaccini che incredibilmente riescono a trovare oppositori che, evidentemente, prima d’ora non avevano mai vissuto un’epidemia capace di provocare tante vittime, o di lasciare sui corpi lesioni in grado di rovinare una vita.

Fino al vaccino sarà necessario convivere con il coronavirus, sarà necessario difendersi da lui e dai suoi agguati con quei pochi mezzi che per ora abbiamo a disposizione: il “distanziamento sociale”, decisamente brutto sia nell’espressione, sia nella sostanza, le mascherine che finalmente, visto che sono necessarie, hanno un prezzo imposto che mette al riparo loro e noi dalle grinfie degli approfittatori, i guanti monouso che ancora scarseggiano e i disinfettanti che, invece, sono scomparsi nella fascia di prezzo bassa e medio-bassa, mentre sono ancora tranquillamente reperibili in quella alta.

Mi rendo benissimo conto che quello che ho appena dipinto non è un quadro piacevole; anzi, è decisamente bruttino. Ma – ulteriore differenza con la guerra – in una pandemia una propaganda che renda più rosee le notizie serve davvero a poco, visto che non ci sono truppe delle quali è necessario tenere alto il morale.

Come a ben poco serve innescare gelosie reciproche perché certe libertà arrivano prima delle altre: in ogni guerriglia la sorveglianza è più importante di quelli che siamo soliti chiamare “armamenti”. E la sorveglianza e l’autodisciplina, pur con gli ammaestramenti di chi ne sa più di noi e con il filtro di coloro che hanno la responsabilità di governo e devono tener conto anche nelle esigenze economiche , toccano soltanto a noi; a ognuno di noi.


Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Anziano, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.


Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

martedì 28 aprile 2020

Le parole del virus: Scuola

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
---

Tra le tante realtà che, quando finirà l’epoca del Covid-19, non potranno più essere uguali a quello che erano fino a prima della pandemia, c’è sicuramente la scuola. E non soltanto perché mezzo anno scolastico se n’è andato tra timori, dubbi, tentativi di ridurre al minimo le perdite, ma in quanto davanti al futuro dell’istruzione si è spalancato un bivio e non siamo ancora sicuri di saper scegliere la strada migliore, o se si potrà imboccare un’altra via che sappia unire i pregi e limitare i difetti delle due alternative che abbiamo sotto gli occhi, o se sarà necessario trovare strade ancora mai battute.

Se, infatti, all’università gli studi hanno, tranne poche eccezioni, spiccate caratteristiche di individualità, dalle elementari alle superiori è fondamentale per la crescita, sia il rapporto tra studenti e docenti, sia la convivenza all’interno delle classi: da entrambe le relazioni, infatti, derivano esperienze e insegnamenti che saranno poi fondamentali nell’indirizzare la vita adulta di tutti.

Il coronavirus, con l’obbligo di evitare assembramenti per scongiurare i contagi, ha fatto chiudere improvvisamente le aule, ha imposto una lunga vacanza non prevista dal calendario e, infine, ha fatto virare l’insegnamento dal contatto diretto a quello per via telematica. Di minore importanza mi sembrano gli esami che saranno, o non saranno fatti, in quanto quello è soltanto il momento della valutazione di quanto uno studente sa esprimere, non sempre di quanto si è davvero arricchito culturalmente, sia nella conoscenza, sia, soprattutto nel ragionamento.

L’uso dei computer e della rete è stato indubbiamente provvidenziale, ma fin da subito ha messo in luce difficoltà, sia materiali, sia concettuali. Intanto, per quelle di tipo materiale, almeno per il momento ci sono degli impedimenti spesso legati al censo: non tutti, infatti, hanno la possibilità di dotarsi di computer sufficientemente potenti per collegarsi da casa in maniera soddisfacente con l’insegnante e il resto della classe. Poi ci sono problemi infrastrutturali visto che in molte zone d’Italia, soprattutto in quelle già condannate da altre situazioni allo spopolamento, la copertura di rete è di scarsissima qualità, se non addirittura assente. E se per superare il primo ostacolo è necessaria una pur ingente spesa, per cancellare il secondo occorrono lavori che, oltre a tanto denaro, richiedono anche tempi non brevi.

Ma ancor più difficili da dimenticare sono i rischi che sono legati alla mancanza di contatti diretti tra studenti e tra studenti e professori. L’educazione, infatti, non è legata soltanto ai libri di testo e alle spiegazioni che della materia sono date dalla cattedra; una parte fondamentale, invece, deriva proprio da tutte quelle parole, quegli episodi, quegli atteggiamenti non direttamente legati ai programmi di studio, ma che riempiono le ore in cui si sta a scuola e che si incidono nella mente e nell’animo di ogni studente con maggiore forza e velocità delle nozioni propriamente dette.

Nella scuola, insomma, si apprendono molte regole di comportamento e di convivenza che arrivano al nostro cervello non soltanto attraverso le parole, sentite o stampate che siano, ma anche dal vedere certi atteggiamenti, taluni gesti, dall’osservare le silenziose furbizie che passano e quelle che invece sono individuate; dal capire che all’interno di una comunità, sia pur ristretta, possono svilupparsi infiniti tipi di rapporti e situazioni che, poi, per la maggior parte, si vedranno ripetere durante l’intera vita, con esempi di generosità e di egoismo, di onestà e di sotterfugio.

Ma soprattutto è la scuola che ha il fondamentale compito di insegnare a imparare perché poi bisognerà essere pronti a imparare ben oltre la conquista di un diploma, o di una laurea: lo si dovrà fare per tutta la vita e non soltanto in tema di materie specifiche, visto che è a scuola che si comincia a ragionare sui concetti di comprensione e di giustizia che finiscono per coinvolgere tutti; che si capisce la differenza tra autorevolezza e autorità e che si sviluppa quella sensibilità che fa comprendere che in determinate circostanze la democrazia possa anche coesistere con le gerarchie; che si comprende il concetto di “diritti” e che si può cominciare a battersi per ottenerli, prima, e per difenderli, poi.

Nessuno fortunatamente pensa che tutto questo possa essere mantenuto affidandosi a internet e, quindi, per conservare gli imprescindibili rapporti umani, si prevede di tornare al più presto possibile nelle classi. Ma anche qui i problemi non mancano. Fin quando, infatti, non arriverà un vaccino efficace, sarà necessario praticare quello che, con termine orrendo e che odora di ossimoro, è chiamato “distanziamento sociale”. Ma per realizzarlo sarà necessario ridurre drasticamente il numero di studenti per classe e questo sarà possibile soltanto moltiplicando le classi e i professori con ovvie e ingenti spese sia per la costruzione di nuove scuole e nuove aule, sia per dare lo stipendio ai nuovi insegnanti.

Non ci sono strade semplici insomma. E ancora una volta – sembra un’ossessione, ma è la realtà – il pensiero corre al fatto che se le tasse fossero pagate da tutti e l’erario incassasse 120 miliardi di euro in più ogni anno, questi problemi sarebbero risolti senza chiedere sacrifici impossibili.

E la scuola questi sacrifici non può non richiederli perché è proprio dalla scuola che dipende il futuro – oltre che il presente – di ogni comunità.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Anziano, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.


Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

lunedì 27 aprile 2020

Le parole del virus: Zelo

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
---

Come abbiamo già visto, non sono poche le parole che, a seconda del contesto in cui sono inserite, acquistano significati diversi, se non addirittura divergenti. “Zelo”, per esempio, può avere una valenza positiva quando lo si usa per riferirsi a un «fervido, operoso impegno che si spiega e si dimostra in un’attività, o per la realizzazione di un fine». Ma, più fedelmente alla sua radice etimologica che affonda nel greco antico in cui “zélos” significa “spirito di emulazione”, ha anche una connotazione negativa, o quantomeno limitativa, visto che va a indicare «chi si impegna per pura ambizione, o tornaconto personale, o uscendo indebitamente dal limite delle proprie mansioni e competenze, intromettendosi in questioni e faccende che non lo riguardano».

Nell’epoca del Covid-19 lo zelo è apparso in tutte e due le sue forme; e con rimarchevole forza in entrambe le varianti di significato.

Nel primo senso, quello decisamente positivo, lo zelo ha certamente animato in maniera ammirevole medici, infermieri, volontari e tutti coloro che si sono dati da fare per limitare in qualche modo i danni la prima fase della pandemia, quella che, senza la loro opera, avrebbe potuto tramutarsi in un’ecatombe ancora peggiore di quello che comunque è stata.

Nella seconda eventualità, quella negativa, c’è il sospetto molto forte che quel tipo di zelo abbia animato e stia spingendo, soprattutto a livello politico, in una specie di corsa a chi riesce ad apparire più bravo, una corsa resa possibile anche da un assurdo accavallarsi di leggi, decreti, regolamenti e attribuzioni che danno vita a istruzioni spesso divergenti, nascendo dai conflitti di competenze tra il governo centrale e le giunte regionali, a dimostrazione che il decentramento è cosa buona e giusta per molti aspetti della vita delle amministrazioni locali, ma che, in certi casi non si dovrebbe mai prescindere da un’unitarietà decisionale che, se manca, rischia di mettere a rischio la vita stessa dei cittadini.

Il caso del coronavirus e dell’inizio della cosiddetta “Fase 2” è addirittura emblematico. Sono settimane che si sente discutere su come deve avvenire questo delicato passaggio dalla chiusura praticamente totale dei rapporti interpersonali a una qualche liberalizzazione che preveda anche la graduale riapertura di altre realtà produttive e distributive al di là di quelle definite di prima necessità che non hanno mai chiuso.

Sono settimane che si sentono gli scienziati predicare prudenza perché se il coronavirus ha rallentato il ritmo di contagio non è perché si sia indebolito nella sua virulenza, o per la scoperta di qualche farmaco miracoloso, ma soltanto in quanto il cosiddetto “distanziamento sociale” ha dato i frutti sperati e, cioè ha reso molto più difficile il passaggio del Covid-19 da una persona a un’altra. Se tutto questo cessasse, visto anche l’altissimo numero di portatori asintomatici, si rischierebbe una recrudescenza con risultati forse addirittura più drammatici della prima ondata dell’epidemia.

Sono settimane che si sentono gli industriali agitare il reale rischio che un’ulteriore inattività forzata rischi di mettere definitivamente a terra molte più aziende, provochi un numero dilagante di disoccupazioni e finisca per rendere ancora più disastrosa la situazione del bilancio dello Stato, cosa che richiederà nuovi, pesanti sacrifici.

Sono settimane che si assiste a dibattiti infiammati tra chi pensa di più alla prudenza necessaria per non perdere altre vite umane e chi, invece, dà la precedenza alle motivazioni economiche. Dibattiti molto spesso aspri che sono proseguiti anche nel Consiglio dei ministri di ieri in cui coloro che parteggiavano per prolungare l’attenzione si sono scontrati con quelli che volevano la liberalizzazione, rappresentati dalla ministra Bellanova, fedelissima ripetitrice delle parole di Renzi, ai quali non bastava che la riapertura fosse graduale, ma la volevano quasi tutta e comunque subito.

Alla fine, dopo lunghissime discussioni, si è arrivati a un compromesso che fissa al 4 maggio l’apertura della Fase 2 e che prevede alcuni gradi di progressive aperture. Tutto definito? Assolutamente no perché Veneto, Friuli Venezia Giulia e Liguria hanno deciso – ognuna con modalità un po’ diverse tra loro – di anticipare l’apertura a oggi stesso perché – dicono i presidenti delle giunte regionali (il termine governatore è altisonante, ma non esiste da nessuna parte, se non nelle loro autodefinizioni e sulle pagine dei giornali che raccolgono le loro parole) – le loro regioni sono le più brave, quelle che meglio hanno saputo contenere il contagio.

Al di là del fatto che, a parità di disposizioni fino a ieri in vigore, le differenze in termini di contagi, ricoveri e decessi vanno ascritte alla maturità del comportamento sociale dei cittadini e alle differenze di possibilità di operare nei vari ospedali e da parte dei vari medici, oltre che all’inadeguatezza di non pochi amministratori di RSA e case di riposo, quanto al futuro, quali garanzie ci saranno che questo parziale “liberi tutti” non liberi anche il Covid-19? Anche tenendo conto che, almeno nella nostra regione, si era sentito ripetere più e più volte che mai si sarebbero emanate disposizioni meno severe di quelle previste a livello nazionale.

Poi, si tratterà certamente di una combinazione, ma vi è capitato, forse, di notare che tutte e tre le regioni che vogliono seguire una propria strada più veloce per uscire dall’epoca del virus sono amministrate da maggioranze che sono opposte a quella che regge il governo del Paese?

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Anziano, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

domenica 26 aprile 2020

Le parole del virus: Indignarsi

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
---

Non sono poche le parole che, con il passare dei secoli, hanno mantenuto apparentemente identico il proprio significato, ma hanno visto andare in una specie di altalena il valore del sentimento che vogliono esprimere. Prendete, per esempio, il verbo “indignarsi” che, con i cambiamenti sociali ha mutato il significato profondo che è dato al sostantivo “indignazione”.

Aristotele, per esempio, considerava l’indignazione quel sentimento che si provava davanti a in¬frazioni alle regole da parte di persone in basso nella gerar¬chia sociale. E, infatti, la chiamava “nemesis”, con lo stesso nome dell’arcigna dea greca che distribuiva la giustizia, a indicare che il vocabolo si riferiva a una punizione quasi compensativa dopo un periodo ingiustificatamente fortunato. Nel Seicento, invece, Hobbes la definiva come «l’ira per un grande danno ar¬recato a un altro» causato ingiustamente e in modo intenziona¬le. È stato con lui che l’indignazione ha cominciato ad appartenere non più soltanto al potere, ma soprattutto agli individui che il potere schiaccia.

Oggi si ritiene – o forse si spera – che l’indignazione sia un’emozione capace di giocare un ruolo chiave nella vita pubblica. Dico «si spera» perché troppe volte si è pensato che l’indignazione sarebbe stata troppo forte per non esplodere a livello generale. Eppure non è quasi mai stato così. E la delusione è sempre stata cocente.

Nel Sessantotto l’indignazione era palpabile, si inalava con ogni respiro, dava corpo a idee e a fatti. Poi, pian piano, tutto si è illanguidito, tranne certi fatti che sarebbe stato meglio non fossero mai apparsi. Con l’arrivo del reaganismo, del thatcherismo, del berlusconismo, l’indignazione è apparsa come un vocabolo desueto. Tanto che nel 1998 il travolgente successo del piccolo pamphlet liberatorio e corrosivo “Indignatevi!”, di Stéphane Hessel, partigiano, allora novantatreenne ancora combattivo, ha colto quasi tutti di sorpresa.

Eppure non avrebbe dovuto sorprendere nessuno in quanto era esattamente come vedersi offrire a prezzi bassissimi un raro oggetto di antiquariato, davvero autentico: chi avrebbe rinunciato a quell’occasione? E buona parte degli acquirenti erano proprio quelli che avevano smesso da tempo di entrare in quei negozi di riferimenti etici e sociali che sono i seggi elettorali dove non trovavano più alcun simbolo che indicasse il proprio valore di riferimento.

Hessel si chiedeva dove fossero i valori tramandati dalla Resistenza; dove la voglia di giustizia e di uguaglianza; dove la società del progresso per tutti? Oggi le domande non sono affatto cambiate a dimostrare che di nuovo è calata una nebbia che si è un po’ diradata soltanto grazie alle canagliate razziste di Salvini, ma si è ancora ben lontani dalla speranza che l’indignazione raggiunga quella temperatura critica necessaria a far cambiare in meglio la società.

Anche nel tempo del Covid-19, nel quale la crisi dovrebbe rendere più sensibili, l’indignazione fa fatica a farsi strada in un mondo in cui si pensa quasi sempre prima a se stessi che agli altri, mentre l’indignazione è un sentimento che divampa per le ingiustizie che subiscono gli altri; se le subiamo noi, si parla di rabbia.

Una qualche reazione, ma tardiva e non troppo forte, se non tra i parenti, si è avuta per le troppe morti, in totale solitudine, di anziani nelle case di riposo e nelle RSA. Anziani che soltanto oggi si dice di voler difendere trattandoli come minus habens e accarezzando l’idea di impedire loro di muoversi. Strutture che evidentemente erano per buona parte inadatte già a sopportare situazioni che avrebbero potuto verificarsi anche con realtà molto meno mortifere del coronavirus.

Un’indignazione molto più radicale avrebbe dovuto provocare quello che è successo e sta accadendo ancora negli ospedali, dove mancavano letti per la terapia intensiva, ma anche i più elementari presidi individuali di difesa per medici e infermieri che hanno pagato con un numero assurdo di morti. E ancora oggi molti dei malati che non sono contagiati dal coronavirus devono essere curati con minore attenzione per motivazioni che non sono assolutamente facili da comprendere e ancor meno da accettare. E intanto fa sobbalzare, ma non troppo il moltiplicarsi di ispettori che si camuffano per non rischiare ritorsioni mentre affermano che i controlli seri nei luoghi di lavoro sono ancora un desiderio più che la realtà.

Del tutto inadeguata, ma ci abbiamo da sempre fatto il callo, è l’indignazione contro coloro che, non pagando le tasse, sottraggono alla comunità circa 120 miliardi di euro l’anno, una cifra che avrebbe messo a posto moltissime cose che non vanno in Italia. E fa restare di stucco la scarsa indignazione, sia davanti a quelli che hanno gonfiato a dismisura i prezzi delle mascherine, dei guanti e dei disinfettanti, sia per quelli che intercettano i medicinali per farne lievitare il prezzo, sia nei confronti di coloro che hanno approfittato del momento per delocalizzare altre imprese.

Indispone tanti, ma indigna troppo poco il fatto che buona parte del mondo politico, pur con intensità diverse, continui a dare, anche in momenti di crisi, la precedenza alla propaganda rispetto alla realtà e che intanto gli speculatori continuino a fare il loro gioco approfittando anche dei problemi creati da una pandemia che nel mondo ormai ha causato più di 200 mila vittime.

Meno grave, ma non per questo meno indisponente è anche la pubblicità che della situazione innescata dal coronavirus è stata provocata. Se all’inizio si poteva sorridere con indulgenza davanti a bambini che disegnavano arcobaleni con la scritta «Andrà tutto bene», questa scritta era diventata indisponente solo dopo pochi giorni dopo quando erano già centinaia i morti ai quali evidentemente non sarebbe più potuto andare tutto bene. E vedere oggi litanie di spot che esprimono il concetto che usciremo a testa alta da questa situazione dovrebbe indignare profondamente. A testa alta perché? Perché quelli che muoiono lo fanno con dignità? O perché il sacrificio di medici, infermieri, volontari può ripulire la coscienza di tutti anche dei colpevoli? O perché quelli che soffrono di più non hanno ancora riempito le piazze per protesta? Oppure per cos’altro? Non certamente perché non abbiamo saputo eleggere le persone che avrebbero dovuto evitare che il nostro Paese attraversasse quella maledetta notte che ci accompagna ormai da troppi anni.

Resta il fatto che l’indignazione è il primo passo per un vero risveglio delle coscienze e che lo spirito di Hessel dovrebbe ricordarcelo con fermezza in ogni momento di ogni giorno.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Anziano, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

sabato 25 aprile 2020

Le parole del virus: Opinione

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
---

La frase «La matematica non è un’opinione» è una delle più usate tra quelle ricorrenti nel linguaggio comune e fu pronunciata (a dire il vero la sua versione originale parlava di “aritmetica” e non di “matematica”) nel 1879 da Bernardino Grimaldi, ministro delle finanze del secondo governo Cairoli, appena caduto, per spiegare perché non avrebbe accettato un reincarico, visto che lui, esponente della Sinistra Storica, riteneva assolutamente ingiusta la “tassa sul macinato” che colpiva soprattutto le classi meno abbienti, e che sarebbe stato doveroso sostituirla, visto che quell’introito era fondamentale per l’erario, con un’altra imposta che andasse a toccare soprattutto coloro che, pur con una nuova imposizione, non avrebbero corso il rischio di morire di fame.

Poi questa frase non riuscì a fermare la “tassa sul macinato” e, ovviamente, non influì minimamente sulla matematica, ma mise in chiaro a tutti che la parola opinione, non è assolutamente un fatto, ma soltanto la libera espressione di un proprio pensiero. E, anche, che non tutte le opinioni, essendo pensieri, sono lecite, proprio come anche le ideologie, che sono pensieri, non sono lecite se finiscono per mettere a repentaglio la vita di qualcuno.

A prima vista potrebbe sembrare strano che delle parole possano addirittura riuscire a uccidere, ma è sicuramente così, soprattutto in periodi di grave crisi, come quella provocata dal dilagare del Covid-19, soprattutto se le opinioni propagandano idee sbagliate e se inducono a comportamenti che favoriscono il contagio.

Le opinioni sono, quindi, pericolose e devono essere bandite? Certamente no, ma è del tutto necessario far sapere anche agli ascoltatori e ai lettori non particolarmente smaliziati che quella che stanno ascoltando è, appunto, un’opinione e non una certezza e che, quindi, non è assolutamente il caso di seguirne i possibili dettami senza considerare che può essere sbagliata e che, quindi, può portare alla rovina.

Nel campo della scienza un metodo abbastanza sicuro per separare il grano dalla gramigna, i fatti dalle opinioni, consiste nell’ascoltare attentamente quello che viene dichiarato: di solito i fatti scientifici vengono presentati con dovizia di pezze d’appoggio sperimentabili e, immancabilmente, con la specificazione che «così ci portano a concludere gli studi, gli esperimenti di laboratorio e le analisi statistiche, ma se qualche novità dovesse apparire, saremo pronti a modificare le nostre conclusioni». Per le opinioni questo non viene detto perché per realizzarle non servono studi, laboratori, statistiche e nemmeno controprove.

Per illustrare questa situazione vorrei agganciarmi a un’intervista rilasciata da Luc Montagnier, lo scopritore dell’HIV, il virus dell’Aids, che per questo è stato insignito del Premio Nobel. Ovviamente non ho alcuna qualifica per valutare scientificamente quello che Montagnier sostiene, e non lo faccio; ma posso sicuramente analizzare il modo di esprimere le proprie idee da cui traspare nettamente il desiderio di tramutare, nelle menti altrui, un’opinione in un fatto. E un’opinione non diventa mai un fatto, se non è suffragata da prove, anche se è espressa da un Nobel.

Ai microni di "Pourquoi Docteur", trasmissione scientifica di CNews France, Montagnier ha detto un bel po’ di cose apparentemente molto importanti: che il Covid-19 è stato manipolato con l’aggiunta di piccole sequenze di HIV e che, quindi, è stato creato in laboratorio, probabilmente in Cina, probabilmente con il sostegno economico degli Stati Uniti; che dal laboratorio è uscito probabilmente per incuria e non per dolo; che molti altri sono della sua idea; che, essendo il nuovo coronavirus un prodotto artificiale, finirà per sparire in breve tempo perché la natura rifiuta e distrugge le cose non semplici, quelle realizzate dall’uomo.Al di là della sovrabbondanza dei “probabilmente”, però, colpiscono alcune altre affermazioni che vogliono far restare sul vago: è stato – dice – un lavoro di precisione, «da orologiaio», ma può essere stato fatto in un posto qualsiasi. Lo scopo non è chiaro «e io non accuso nessuno. Forse si è voluto fare un vaccino contro l’AIDS»; se l’ipotesi di un’origine di laboratorio è rifiutata da tutti gli altri scienziati «è perché c’è una volontà di nascondere questi lavori»: molti direbbero la stessa cosa, ma li hanno obbligati a ritrattare perché «subiscono fortissime pressioni che io, premio Nobel, non subisco su di me». Tutti le Nazioni sono d’accordo a nascondere qualcosa che sarebbe un terribile atto d’accusa contro chi l’ha realizzata? «Potrebbe anche essere», è la risposta.

Non mi interessa soffermarmi sulle reazioni sdegnate di migliaia di uomini di scienza che accusano Montagnier di usare una tesi che si fonda su una ricerca indiana ritirata «perché la comunità scientifica ne aveva immediatamente segnalato le falle», né voglio dare troppo spazio ad altre accuse al Nobel francese che da anni si è attirato la disapprovazione scientifica generale perché, dopo il premio, ha inanellato una serie di dichiarazioni definite «strane» come una supposta origine microbica dell’autismo, una crociata contro i vaccini, il sostegno all’omeopatia e il suggerimento a Papa Giovanni Paolo II di curare il suo Parkinson con succo di papaya.

Né mi sembra particolarmente importante, in questo momento, sapere dove e perché questo mostro microscopico sarebbe state realizzato dall’uomo. Molto più importante, invece, sarebbe una sua ritrattazione del concetto che questo virus tra breve scomparirà da solo perché la natura distrugge le creature che non sono sue. Chi ci crede finirebbe per mettersi in grave pericolo: «Perché metterci in clausura e fare tanta attenzione? Tanto tra un po’ tutto tornerà come prima».

In realtà nulla tornerà come prima, tranne l’insopprimibile tendenza a mettersi sotto i riflettori dell’attenzione generale spacciando opinioni per dati di fatto.
E, intanto, buon 25 aprile a chi lo merita. Non è una festa di tutti, né per tutti.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Anziano, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Paesaggio, Paura, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

venerdì 24 aprile 2020

Le parole del virus: Paura

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
---
Nel 1933, in piena crisi per la depressione economica, Franklin Delano Roosevelt disse ai suoi connazionali: «L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa». Al contrario, in questi giorni di piena crisi, anche economica, per il Covid-19, si avverte nettamente la paura che stia passando la paura.


Sembra un paradosso e, invece, per buona parte della popolazione è proprio così: lo si sente ripetere con accorate raccomandazioni di avere grande prudenza, dagli scienziati, dal Papa, dalla gente, da parte dei politici. A spingere nella direzione opposta, pur assicurando che saranno attentamente seguite tutte le procedure di sicurezza, è il mondo produttivo, quello del commercio, e l’altra parte dei politici, quelli che parlano quasi esclusivamente per smarcarsi a ogni costo sostenendo il contrario di quello che viene detto dagli altri.

Ora spetterà alla politica – e la cosa non è che rassicuri in maniera totale – trovare la giusta via di mezzo tra due esigenze, entrambe giustificate: non rischiare di far morire nessuno di coronavirus e non rischiare di far morire nessuno di fame, o di depressione da nuova e, per questo ancor meno sopportabile, povertà.

Nella mitologia maschilista che accompagna la storia di tutti i Paesi del mondo, il discorso della paura è stato sempre nascosto, esorcizzato, oppure palesemente disprezzato, quasi fosse un sentimento di cui vergognarsi, quasi rendesse meno uomo chi lo prova. Eppure è probabilmente proprio grazie anche alla paura che la nostra specie, meno veloce, meno forte, meno corazzata di tante altre, sia riuscita a sopravvivere con i nostri antenati, cavernicoli e palafitticoli, che univano all’innegabile coraggio, un senso di precisa coscienza dei propri limiti che, invece di paura, sarebbe più giusto chiamare saggia prudenza.
Infatti, se ci fate caso, il termine paura è del tutto carente per descrivere adeguatamente tutte le varie sfumature che si annidano sotto quest’unica parola: già noi, italiani contemporanei, siamo capaci di scendere un po’ più nel dettaglio usando termini come “timore”, “imbarazzo”, “preoccupazione”, “spavento”, “angoscia”, “terrore”, “panico”. E pensate che nella lingua della tribù dei pintupi dell’Australia occidenta¬le vengono usate almeno quindici parole diverse per descrivere un’intera gamma di sentimenti distinguibili solo attraverso le diverse si¬tuazioni in cui si verificano.

Il fatto è che, anche se viene considerata la più primitiva delle emozioni umane, la paura anche oggi può essere il nostro migliore alleato nel salvarci da pericoli mortali, ma può anche diventare una nemica terribile che arriva di soppiatto, facendo deflagrare ansie latenti e cancellando il pensiero razionale. La paura, insomma può paralizzare i muscoli, ma, ancor peggio, anche il cervello.

Il periodo del coronavirus ha dato a tutti la pur sgradevole possibilità di provare tangibilmente una paura reale; mentre prima non pochi, per provare il piacere del brivido, avevano cercato di surrogarla con film e libri dell’orrore. E oggi che alla paura sappiamo dare contorni reali risulta ancora più insopportabile il fatto che proprio sul concetto di paura, e non su una realtà paurosa, ma del tutto posticcia, taluni – e non serve davvero fare nomi – abbiano costruito la loro carriera politica temporaneamente di successo.

Hanno fatto credere che stiamo vivendo sotto una costante minaccia di violenze fisiche, mentre le organizzazioni internazionali fanno sapere che l’Italia, decisamente angustiata e infiltrata da organizzazioni mafiose, a livello di violenze è, a pari merito con il Lussemburgo, in testa alla classifica della sicurezza tra le nazioni europee che, a loro volta, nel loro insieme, sono in testa alla graduatoria mondiale. E l’Italia sarebbe in testa largamente da sola, se non ci fossero tutte le violenze contro le donne che deturpano e avviliscono l’immagine del nostro Paese.

Salvini e compagni hanno insistito ossessivamente, con abbondanza di propaganda e di fake news, sui rischi di un’invasione da parte di esseri umani cui attribuiscono la colpa di avere pelle, nazionalità, religione, lingua, abitudini diverse, e su questo hanno realizzato quei penitenziari per innocenti che sono i Centri di permanenza per il rimpatrio, come quello di Gradisca. Li hanno accusati di rubarci denaro, case e lavoro, mentre i fantomatici 35 euro giornalieri ovviamente non li hanno mai ricevuti. Sono stati anche cacciati dalle case di accoglienza cui sono stati tolti i contributi necessari. E, come lavoro, di solito, trovano impieghi che assomigliano molto a quelli del sottoproletariato dell’Ottocento, se non addirittura a una vera e propria schiavitù.

La forza dei razzisti ed eterofobi, però, non è data dalla bravura nel mentire per ingenerare paura e lucrare voti, ma soprattutto dalla capacità di non vergognarsene; una capacità che, per fortuna, alla maggior parte della gente è stata risparmiata, anche se sono troppi coloro che, davanti alla paura, anche se indotta artificiosamente, mettono a riposo il raziocinio e reagiscono soltanto con i medesimi istinti dei nostri più lontani progenitori.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Anziano, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Paesaggio, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

giovedì 23 aprile 2020

Le parole del virus: Linguaggio

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
---

Le notizie dei fatti, se non vi assistiamo direttamente, ci arrivano attraverso narrazioni altrui, e ogni racconto è inevitabilmente mediato e influenzato dal punto di vista e dalle inevitabili convinzioni del testimone diretto: quindi la realtà ne esce sempre un po’ mutata o, nei casi peggiori, colposamente stravolta o, addirittura, colpevolmente e deliberatamente camuffata. È insomma evidente che dello stesso avvenimento si possono avere, sia pur in buona fede, delle narrazioni molto diverse, perché la stessa cosa può essere vista sotto varie angolature che ne cambiano la prospettiva. Pensate alle infinite discussioni dopo un incidente stradale, o a quelle, ancor più immotivatamente radicalizzate, davanti a una moviola che fa discutere sull’esistenza di un gol, di un fuori gioco, o di un fallo.

Niente di grave, normalmente, ma se il linguaggio e la sua comprensione, sono importanti in ogni circostanza della vita, diventano basilari nei momenti di crisi. Ed è difficile pensare a una crisi più profonda e ramificata di quella indotta dal dilagare del Covid-19. Poiché la conoscenza dei fatti è fondamentale, sia per decidere le direttive da impartire agli altri, sia per scegliere se obbedire, o meno, a decreti e regolamenti, allora la cosa più importante è capire se, al di là della buona o cattiva fede, quello che ci viene proposto è realtà, oppure appartiene al mondo della fiction.

La cosa non è assolutamente facile, anche perché le parole isolate sono realtà virtuali, mentre soltanto quelle che appaiono in un testo e in un contesto hanno consistenza reale. In questa serie, “Le parole del virus”, per esempio, il vocabolo del titolo, da solo, resta senza quella sostanza che poi appare, invece, nel contenuto del testo. E, purtroppo, noi di solito restiamo più colpiti dalle parole, brevi e suggestive, che dalle frasi, complesse e maggiormente capaci di distrarre.

A farci attenzione, si realizza subito che il concetto di “bugia” è antichissimo, tanto che già nei Dieci comandamenti si ammonisce: «Non dire falsa testimonianza», ma soltanto con Sant’Agostino si comincia a cogliere l’aspetto linguistico di una questione che fino ad allora era stata trattata soltanto sul piano filosofico e teologico. Il santo di Ippona afferma: «Il linguaggio è stato senza dubbio istituito non perché gli uomini si ingannino reciprocamente, ma perché ciascuno porti a conoscenza degli altri i propri pensieri. È per questo che usare il linguaggio per mentire, contro il suo fine originario, è peccato». E il concetto è ripreso da altri due dottori della Chiesa, Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio che affinano ancora di più il concetto: «La lingua dovrebbe rivelare i pensieri, non nasconderli».

Lasciamo pur perdere il concetto di peccato, ma in caso di falsificazione della realtà, appare evidente la violazione del patto di reciproca fiducia che dovrebbe esistere tra chiunque ha una responsabilità, anche deontologica, e chi di lui deve fidarsi, tra eletti ed elettori, ma anche tra chi sa e chi di lui si fida, in economia, nelle scienze, nella tecnica; nel racconto, appunto.

Con l’arrivo del coronavirus abbiamo avuto prove tangibili che tutto questo camuffare la realtà è diffusissimo in tutto il mondo, sia che provochi danni, magari per interessi propri, sia che serva esclusivamente a far pensare di far bella figura. Hanno colpito tutti le enormi differenze di percentuali tra malati e sani, tra gravi e gravissimi, tra colpiti e deceduti nei vari Paesi del mondo e, forse, anche tra le varie regioni italiane.

Difficile spiegarlo? Assolutamente no: basti pensare alla profonda differenza sostanziale tra «È morto di coronavirus» ed «È morto con il coronavirus». Basta decidere che nel secondo caso la reale causa della morte va ascritta alla patologia più antica e cronica, e le percentuali cambieranno in maniera sostanziale in quanto, a parità di numeratore muterà sensibilmente il denominatore. Con il risultato, saranno diversi anche i gradi di aggressività o di letalità che attribuiamo al virus e, con loro, probabilmente l’attenzione con cui metteremo in pratica le norme di difesa per noi e per gli altri.

Insomma, non solo le parole, messe in una frase, possono diventare bugiarde, ma anche i numeri possono essere piegati ai propri intendimenti. E se anche i numeri non riescono a dare più alcuna certezza, allora è semplicissimo passare dall’aggettivo “scientifico” all’aggettivo “dogmatico” e per molti diventa quasi naturale dare lo stesso peso a uno scienziato di fama e alla pur utilissima Wikipedia; ma anche a qualunque strillo appaia su un social.

A far capire, però, la differenza che corre tra scienza e propaganda basta quasi sempre ricordare che la scienza, dopo ogni affermazione, di solito ripete «fino a quando non ne sapremo di più», mentre la propaganda tenta sempre di gabellarci pensieri personali come realtà granitiche.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Anziano, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Memoria, Natura, Paesaggio, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Sogno, Solidarietà, Tempo, Vulnerabilità.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

mercoledì 22 aprile 2020

Le parole del virus: Resistenza

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
---

Lo sentiamo ripetere ogni giorno che bisogna resistere: alla voglia di uscire, alla spontanea tentazione di sfregarsi gli occhi, al desiderio di incontrare le persone care e quelle amiche, alla spinta abitudinaria a non osservare attentamente le distanze con il vicino della fila mentre si chiacchiera con lui durante l’attesa. Il fatto, poi, che siamo ormai vicinissimi al 25 aprile, festa della Liberazione ha fatto usare ancora di più la parola “Resistenza”; a volte con la lettera iniziale maiuscola, a volte con quella minuscola. Addirittura anche alcune pubblicità l’hanno utilizzata per propagandare il proprio prodotto.

Del resto, il Covid-19 è riuscito a influire anche sulla celebrazione della Resistenza, quella con la “R” maiuscola, perché per la prima volta dalla fine della guerra la manifestazione del 25 aprile non potrà essere celebrata con cortei, raduni, cori, bandiere perché, almeno per quest’anno, il coronavirus che non permette assembramenti. Al loro posto, però, sono già organizzati cortei e raduni virtuali, mentre articoli e discorsi hanno già cominciato a essere diffusi sul web, in radio, in televisione e sui giornali.

Probabilmente, anzi, qualcuno – per non far nomi, il sindaco di Udine – sarà grato al virus per questa sospensione perché gli risparmierà il fastidio di tollerare le bordate di fischi che gli sono state indirizzate ogni volta in cui ha dovuto tenere un’orazione ufficiale impostagli dal suo ruolo istituzionale e ha tentato di stravolgere il senso della cerimonia raccontando cose inaccettabili, come il fatto che tutti i morti meritano la stessa pietà (ed è vero, perché la morte accumuna tutti in un triste passaggio), ma anche l’identico rispetto (ed è assolutamente falso in quanto il rispetto lo si merita in vita e la vita di un fascista, o di un nazista, non è stata neppure vagamente simile a quella di un partigiano, o di uno dei tanti che, pur senza imbracciare un'arma, si sono rifiutati di collaborare).

Incredibilmente il coronavirus è stato tirato in ballo anche dal nostalgicissimo Ignazio La Russa, che ha proposto di dedicare la giornata della Liberazione a tutti coloro che sono morti di Covid-19 adoperandosi per salvare gli altri. Il suo ragionamento è troppo scoperto anche per essere soltanto furbo: quella contro il coronavirus – dice – è una guerra; noi vogliamo rivordare queste vittime come quelle di tutte le guerre; allora onoriamole tutte insieme; e nel calderone mettiamoci anche i morti di quella che ha insanguinato l’Italia dal 1943 al ’45; da entrambe le parti, s’intende – puntualizza La Russa – perché così la si finisce di distinguere gli uni dagli altri e si chiude il sipario anche sugli ideali divergenti che li hanno animati. E, poi, ciliegina finale sulla torta, basta con la divisiva “Bella ciao” che fastidiosamente è ormai diventata simbolo di libertà in tutto il mondo: sostituiamola con la guerresca “Canzone del Piave”.

Teoricamente tutto si potrebbe fare, dicono. D’accordo, per carità, ma soltanto se tutte le vittime uccise dai nazisti nei Lager, dopo essere state denunciate, catturate, seviziate dai fascisti, che comunque hanno ammazzato un bel po’ di persone anche da soli, accettassero di essere ricordate insieme a coloro che le hanno uccise, torturate o tradite. E magari ci vorrebbe un po’ di rispetto anche per le vittime del Covid-19 che, per la stragrande maggioranza probabilmente si sentirebbero profondamente offese a essere mescolate nel ricordo ai nazifascisti.

So benissimo che più d’uno mi accuserà di aver fatto, con questo scritto, politica. È vero: è assolutamente così. Ed è giusto che sia così perché essere antifascisti è fare politica; credere nella democrazia è fare politica; non mediare su certi principi è fare politica; ricordare che l’articolo 1 della Costituzione nata dalla Resistenza pone il lavoro a fondamento di tutto è fare politica; ribadire che la preminenza spetta sempre ai bisogni degli uomini e non a quelli dei bilanci è fare politica; celebrare il 25 aprile con i ragazzi, affinché tutte le generazioni siano consapevoli della nostra storia e diventino sensibili e attente, prima che sia troppo tardi, a ogni pur minimo, ma progressivo degrado etico e democratico è fare politica; perché dire che l’indifferenza, il non prendere posizione, sono già complicità è fare politica. Senza tutto questo, celebrare la Liberazione non avrebbe il minimo senso.

Vorrei, però, mettere a fuoco ancora un paio di punti di contatto tra la Resistenza e l’oggi. Combattere è sempre eroico, ma quasi naturale perché spesso è la stessa lotta a venirti a cercare per costringerti a difenderti. Il problema, oggi come allora, è il dopo, quando arriva la soddisfazione della vittoria con la tentazione di fermarsi per dimenticare le brutte cose passare, quando ci si sente ormai al sicuro, si abbassa la guardia e si pensa di poter godere dei frutti del successo. Ed è proprio allora che il virus può riprendere forza e provocare altre catastrofi. Sia che il virus si chiami Covid-19, sia che si chiami fascismo.


Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Anziano, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Memoria, Natura, Paesaggio, Quarantena, Regole, Scelta, Scienza, Sogno, Solidarietà, Tempo, Vulnerabilità.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/