sabato 2 marzo 2024

Un allarmante déjà-vu

È passata una settimana dai fatti di Pisa e il senso di déjà-vu è ancora fortissimo e non accenna ad andarsene. Vedere ragazzini delle superiori – disarmati e a volto scoperto – che vogliono soltanto esprimere le proprie idee, proprio come garantisce la Costituzione, spinti in un vicolo e presi a manganellate dai poliziotti mi ha lasciato un senso di profondo disagio poi ulteriormente acuito dall’atteggiamento di quei politici che si sono affannati a difendere le forze dell’ordine, come se in questa locuzione che ho sempre ritenuto inadeguata, fosse più importante la prima parola rispetto alla seconda. Anche accampando scuse ridicole, come quella del ministro Piantedosi che parla di «cariche di alleggerimento» per «garantire l’incolumità degli operatori di polizia».

Il déjà-vu mi riporta al luglio del 2001, al G8 di Genova, alla ferocia repressiva di troppi tutori dell’ordine; alla loro difesa, da parte di politici dell’epoca, sempre a prescindere; alla costruzione di prove false per sostenere questa difesa; al fatto che nelle stanze dei bottoni di allora e di oggi non c’erano le stesse persone, ma sicuramente c’erano le medesime ideologie e alla convinzione che oggi, come allora, siamo sull’orlo di un burrone e che un nostro disinteresse può rendere molto più probabile lo sprofondamento in un baratro.

Un déjà-vu, dicevo. Un ricordo incancellabile che in quei giorni del luglio 2001 ho fissato in un commento sulla prima pagina del Messaggero Veneto e che oggi vi ripropongo pari pari per vedere se anche in voi il paragone tra oggi e quasi 23 anni fa provoca un acuto senso di allarme.

Ecco il testo.

“Nell’interminabile fila di gente spaventata che avanza a mani alzate, sorvegliata a vista da uomini in blu con casco, celata e manganello in mano, c’è una signora anziana che cammina spaurita, piangendo, e dice «Per favore, per favore», c’è un papà che tiene in braccio un bambino che singhiozza disperato e lo fa respirare attraverso un panno bagnato. Poco più in là ci sono un ragazzo e una ragazza seduti a terra, in un’aiuola, abbracciati per darsi reciproco coraggio, fermi: passa un uomo delle forze dell’ordine e il manganello scatta quasi automaticamente a colpire la testa di uno dei due. Un’altra testa, quella di un giovane, è schiacciata sotto uno scarpone di un poliziotto, un’altra, di un ragazzo che già si contorce sull’asfalto, è centrata da un calcio di un carabiniere, una quarta, di una signora dai capelli grigi è imbrattata di sangue. Il filmato choc, trasmesso senza commento dal Tg1, ha lasciato il segno in tantissime persone, strappando lacrime facendo ricordare tante scene di un passato tragico che non vuole sparire. E si dice che altre ore di filmati simili, o ancor più crudi, aspettino di essere mandati in onda soltanto davanti alle giurie, o ai magistrati delle inchieste appena aperte.

Ci sono anche – ovviamente – i momenti degli attacchi dei black block e degli altri manifestanti violenti. Ma quelli sono i violenti per definizione; non li si può parificare nei metri di giudizio alle forze di polizia che hanno ben altri doveri e altre responsabilità: anche quelli di difendere se stessi, ma soprattutto quello di difendere la democrazia e i cittadini che le danno sostentamento ideale. Altrimenti si farebbe di tutta l’erba un fascio. E non è una battuta.

Il risultato è che in questi giorni abbiamo sentito dire più volte – e non soltanto dai protagonisti di Genova, feriti e arrestati – che oggi lo sguardo nei confronti delle forze dell’ordine è cambiato e che il sentimento dominante è quello di un desolato stupore: «Prima – più o meno è questo il senso di quello che si è detto – guardavo con fiducia poliziotti e carabinieri perché ero convinto che avrebbero difeso me e gli altri cittadini; oggi non ho più fiducia perché temo non ci sia più una discriminazione tra colpevoli e innocenti: si colpisce soprattutto per intimidire più che per difendere, o anche per punire».

La perdita di fiducia nelle forze dell’ordine è un pessimo segnale per una società civile e sembra che nessuno di coloro che governano stia dando il minimo peso a questa realtà. Tutti gli sforzi sono indirizzati a difendere il proprio operato e nel giustificare agenti e carabinieri a prescindere da cosa abbiano fatto. Il ministro degli interni e i suoi vicini, se proprio vogliono concedere qualcosa alla crescente marea di protesta che arriva anche da molte capitali estere, parlano di responsabilità individuali, pronti a scaricare su alcuni le colpe che, invece, sono di molti, perché il comportamento è stato praticamente identico in troppi posti per non pensare a un ordine eseguito.

Si risponde, insomma, che a un’ingiustizia si è risposto con un’altra possibile ingiustizia e con questo si fa capire che il conto dovrebbe essere chiuso. Ma questo è un errore indegno di una società civile perché due ingiustizie non si elidono mai a vicenda, ma si assommano esattamente come in matematica dove la somma di due numeri negativi fornisce un risultato che è, ovviamente, ancora più negativo dei due addendi separati. 

Ma, al di là delle valutazioni di ordine politico, la cosa che rende più inquieti è la considerazione che questi che abbiamo visto in azione a Genova sono gli stessi poliziotti, gli stessi carabinieri, gli stessi finanzieri, le stesse guardie carcerarie di tre mesi fa. E, quindi, com’è possibile che l’atteggiamento delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini che protestano pacificamente sia cambiato in maniera così radicale. Com’è possibile che quegli stessi uomini che cento giorni fa guardavamo con fiducia, a Genova abbiano infierito su persone a terra, abbiano picchiato esseri che chiaramente non c’entravano con i black block o con altre frange estremistiche e violente, che siano andati indiscriminatamente ben oltre a quelli che, con tutta la più buona volontà non possono essere neppure chiamati i limiti dell’eccesso di legittima difesa?

Ora, delle due l’una: o parte di questa gente in divisa è sempre stata ben disposta a un certo grado di violenza e in questi ultimissimi decenni è stata costretta a reprimere i propri istinti per disciplina, oppure questa violenza è stata comandata, voluta, instillata in questi ultimi tempi.

Impossibile scegliere uno dei due corni del dilemma, ma, tutto sommato, è anche inutile perché alla fin fine il risultato è sempre lo stesso: se l’atteggiamento è cambiato facendo ricordare a molti le atmosfere delle dimostrazioni dei primi anni Settanta, questo è accaduto perché le direttive sono cambiate.

Alcuni esulteranno nel pensare a forze dell’ordine ben disciplinate e pronte a seguire gli ordini superiori. Altri ­– e io sono tra quelli – si preoccuperanno perché se la democrazia (un virus che tenta di infiltrarsi in ogni anfratto) non è riuscito a farsi completamente largo nelle forze dell’ordine, vuol dire che quella nostra è una democrazia ancora un po’ gracile. Non si tratta di un inno alla disobbedienza, ma della considerazione che nessun uomo, in nessuna circostanza, può mandare il proprio cervello all’ammasso togliendosi la responsabilità di fissare secondo la propria coscienza il limite tra il giusto e l’ingiusto, rifiutandosi di distinguere coloro da cui ci si deve difendere anche con la violenza da quelli che, invece, non soltanto non sono una minaccia per la democrazia, ma, anzi ne sono il nutrimento per il contributo di idee che vi portano e che sono dissonanti da quelle di chi detiene – pro tempore – il potere.

Troppe volte nella storia del ventesimo secolo abbiamo visto sul banco degli accusati persone che si difendevano rispondendo vacuamente: «Non ho fatto altro che eseguire gli ordini». Dimenticando che in democrazia la parola più importante resta sempre il «No»”.