venerdì 31 marzo 2017

Se ci fate caso…

Se ci fate caso, titoli e testi di quotidiani e periodici, di telegiornali e giornali radio, indicano concordemente che in questo periodo a indirizzare e a dominare la politica italiana sono soprattutto tre personaggi: Matteo Renzi, Beppe Grillo e Silvio Berlusconi.

E, sempre se ci fate caso, vi accorgerete che questi tre personaggi hanno in comune almeno tre caratteristiche. Per prima cosa sono in possesso di un ego straripante e, come secondo punto, sono abituati a comandare non soltanto non tollerando di essere contraddetti, ma neppure accettando di dare vita a dibattiti davvero pluralisti e democratici.

Però, se queste due prime caratteristiche possono essere contestate dai loro rispettivi fedelissimi, il terzo punto in comune non può essere messo in discussione: nessuno di loro tre è stato eletto e, quindi, ovviamente, non è in Parlamento. Eppure comandano.

Matteo Renzi non è più presidente del Consiglio, né segretario del PD, eppure è lui a voler condurre le danze sia per quanto riguarda la legge elettorale, sia per la manovra economica, sia per i rapporti con l’Europa, sia ancora per la durata della legislatura.

Beppe Grillo si è inventato un partito, non si è mai lasciato mettere in discussione, ma ha continuamente messo in discussione gli altri, fino ad arrivare a invalidare le primarie di Genova perché la candidata vincente non gli piace, ma senza spiegarne il motivo. «Dovete fidarvi di me», ha detto.

Silvio Berlusconi è addirittura ineleggibile per le sue condanne passate in giudicato. Eppure vuole ancora comandare il centrodestra ponendosi in contraltare - e almeno questo va a suo merito - al trucido Matteo Salvini.

Quindi una domanda sorge spontanea: una democrazia può essere davvero considerata tale se ai suoi vertici, o almeno nei posti di comando, vivono stabilmente tre personaggi che con la rappresentanza hanno ben poco a che fare? Perché, almeno a mio modo di vedere, una democrazia senza rappresentanza non è democrazia in quanto viene a mancare completamente il rapporto tra base e vertice, tra gli elettori e coloro che dovrebbero rappresentarli nei momenti dei ragionamenti, delle scelte e delle decisioni.

E a tutti loro tre, infatti, della rappresentanza interessa poco o nulla, mentre sono fortemente legati a un altro concetto: quello di governabilità che è una caratteristica né necessariamente democratica, visto che il massimo della governabilità si raggiunge in una dittatura monocratica, né necessariamente determinante per poter riformare quello che deve essere riformato. Non ci credete? Ebbene, ricordate che incredibilmente è stato con governi democristiani (Rumor e Andreotti) che l’Italia si è dotata di leggi sul divorzio e sull’aborto e che lo Statuto dei lavoratori è nato con un governo non di sinistra (di nuovo Rumor) ed è stato distrutto da un governo che pretendeva di definirsi di sinistra (Renzi) e che godeva di ampia governabilità.

Con questo cosa voglio dire? Che in questo periodo sono questi tre personaggi a trattare tra loro su come dovranno essere le nuove leggi elettorali per la Camera e il Senato. E, attenzione: la legge elettorale non ha minore importanza della Costituzione perché, se la Carta fondamentale traccia la strada democratica di ogni Paese, la legge elettorale è il veicolo che permette, o meno, di seguirla.

Li abbiamo visti proporre, o accettare, se pensavano che potesse far loro comodo, spropositati premi di maggioranza, capolista bloccati, se non addirittura intere liste prefissate dai partiti, candidature plurime con successive scelte libere: tutti espedienti non per aumentare il tasso di democrazia, ma per sottrarne una consistente fetta ai cittadini, al demos, replicando su scala nazionale quanto è già stato realizzato all’interno dei partiti. 

Temo che ancora una volta, dopo l’impegno profuso per salvare la Costituzione, saranno i cittadini a dover scendere in campo direttamente per salvare la democrazia.

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lunedì 20 marzo 2017

Non contro, ma pro

Come ho sempre fatto, anche questa volta, il 30 aprile, andrò a votare alle primarie del Pd per la scelta del segretario. Perché annunciare pubblicamente questa mia decisione personale, apparentemente di nessuna importanza e di cui ho già parlato da molto tempo alle persone che mi sono vicine? Semplice: in quanto vorrei che fossero tanti a condividere questa mia decisione.

Per prima cosa, se l'ho fatto sempre, perché questa volta la scelta appare diversa e, quindi, degna di menzione? Perché, mentre nelle altre occasioni, pur non essendo iscritto al Pd, avrei poi avuto alte probabilità di votare per quel partito, questa volta le possibilità, a voler essere ottimisti, sono praticamente inavvertibili. E ritengo necessario che possano aumentare, sia per me, sia per molti altri. E tento di spiegare perché.
 

Intanto va ricordato che per lo statuto del Pd, bizzarramente, alla scelta del segretario può partecipare chiunque, anche un non iscritto. E, infatti, alle ultime primarie, vinte trionfalmente da Renzi, ho visto pazientemente incolonnate in sala Ajace, a Udine, moltissime persone notoriamente berlusconiane, o, comunque, sicuramente collocate a destra. Questa volta vorrei che fossero presenti moltissime persone di sinistra, anche se, dopo la gestione Renzi del partito e del governo, e con le più recenti sbandate che possono essere identificate con i voti a favore di Minzolini, o con la decisione di De Luca di sanare 70 mila case abusive, il solo avvicinarsi a quel simbolo può diventare fastidioso.

Ma, attenzione. Ho già detto in altre occasioni che vedevo il PD come un vecchio castello medievale, imponente con le sue alte e larghe mura e con il suo solido mastio, che è stato assediato a lungo dalle forze del centrodestra e che, a un certo punto, è stato conquistato dai nemici perché qualche traditore ha aperto il portone e ha abbassato il ponte levatoio. 

Ora il castello è in mano agli avversari e non si può far finta che non esista perché la sua massa critica e la sua posizione strategica sullo scacchiere politico sono imprescindibili se si vuol riuscire a riportare l’Italia su quella che io ritengo sia la giusta via. Adesso l’unica possibilità è quella di attaccarlo dal di fuori, ma contando anche sull’aiuto di quelli che sono rimasti a combattere al suo interno.

Francamente non so se hanno fatto bene, o se meglio sarebbe stato che fossero usciti per rendere più vasta fin da subito la schiera di chi vuole ridare al Pd la sua anima originaria, ma sono certo che meritano rispetto e aiuto da coloro che sono fuori e che sono già stati schierati sullo stesso fronte quantomeno il 4 dicembre quando il tentativo renziano di stravolgere la nostra Costituzione è stato rintuzzato.

Credo non ci siano dubbi di sorta sul fatto che sia necessario un centro di attrazione gravitazionalmente forte a sinistra; e infatti il centrosinistra ha vinto, sia a livello politico, sia a livello amministrativo, soltanto quanto questo centro di attrazione c’era ed è stato in grado di convincere gli le altre forze cugine ad aggregarsi. Ora, o gli ideali del PD tornano a coincidere con quelli del centrosinistra, oppure sarà necessario costruire un nuovo polo di attrazione e ci vorranno sicuramente degli anni durante i quali saremmo in balia, o della destra che ha ideali diametralmente opposti, o dei grillini che personalmente mi spaventano non tanto perché inesperti e presupponenti, ma soprattutto in quanto si lasciano prendere in giro e a sberle dal capo senza reagire, quasi sorridendo. E lo spavento deriva dal fatto che la storia è purtroppo ricca di momenti come questi in cui il capo ha detto «Fidatevi di me» e gli altri hanno annuito, momenti che hanno preceduto la scomparsa – quasi sempre temporanea, ma sempre troppo lunga – della democrazia in molti Paesi del mondo.

Quindi spero che tanti, pur se dovranno regalare un paio di euro al Pd, vadano comunque a votare alle primarie, o per Orlando, o per Emiliano. E questa mia sollecitazione, anche se la mia simpatia e consonanza politica con Renzi sono uguali a zero, non va contro Renzi, ma a favore del Pd e, soprattutto, della sinistra. Con un Pd che ritrovi almeno in parte le sue origini tutta la sinistra potrà riprendere a sperare fin da subito.

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giovedì 16 marzo 2017

La sorpresa sorprendente

Non fosse per il fatto che distrazione e smemoratezza sono diventate caratteristiche distintive della nostra società, risulterebbero quasi incredibili la sorpresa, e il conseguente risalto mediatico, causati da un paio di frasi pronunciate da Papa Francesco durante l’udienza generale in piazza San Pietro.

Dopo aver detto di rivolgere «un pensiero speciale» ai lavoratori di Sky che sono in ambasce davanti a un cosiddetto “progetto di ristrutturazione” che, tra l’altro, prevede oltre 200 licenziamenti, il Pontefice, dopo aver affermato che è necessario «fare di tutto perché ogni uomo e ogni donna possa lavorare e così guardare in faccia gli altri con dignità», ha denunciato con forza che «chi per manovre economiche, per fare negoziati non del tutto chiari chiude fabbriche, chiude imprendimenti lavorativi e toglie il lavoro agli uomini, fa un peccato gravissimo».

La sorpresa e il risalto sono a loro volta sorprendenti sia perché non è la prima volta che Papa Bergoglio tocca questi temi con i medesimi toni di accorato sdegno, sia in quanto, già da prima che Leone XIII lo ricordasse esplicitamente nell’enciclica “Rerum novarum” del 1891, da sempre, tra i «peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio per la loro straordinaria malizia» ci sono «opprimere i poveri» e «defraudare della giusta mercede i lavoratori».

Quindi non è che tutt’a un tratto la dottrina sociale della Chiesa sia cambiata sotto la spinta di un gesuita socialmente sensibile, ma soltanto che quella dottrina è stata finalmente recuperata e nuovamente messa in evidenza perché, dopo decenni in cui non se ne sentiva più parlare nei catechismi scolastici o parrocchiali, nessuno possa più accampare la scusa della “ignorantia legis” che comunque, anche in questo caso, “excusatio non est”.

Tragicamente divertenti sono gli effetti di queste frasi sulla gran parte del mondo politico italiano che questa volta non si affretta minimamente a commentare entusiasticamente, a scopi elettoralistici, le parole che arrivano dal Vaticano.

Non fosse per il ricorrente impegno a favore di banche e grossi imprenditori e a scapito di cittadini e lavoratori, e per la promulgazione del cosiddetto Job’s Act, si potrebbe quasi ipotizzare che finalmente la politica italiana stia affrancandosi dall’accusa di essere “confessionale” per diventare davvero “laica”, ma non preoccupatevi: l’atteggiamento nei confronti delle famiglie anche parzialmente non tradizionali, o quello nei confronti del “fine vita”, rassicura sul fatto che i sedicenti cattolici dichiaratamente osservanti e praticanti, ma anche i sedicenti “atei devoti” non hanno perduto il collegamento con una parte importante e porporata del potere di oltre Tevere.

È che, nonostante tutta la devozione possibile, mettere in pratica l’articolo 1 della nostra Costituzione è cosa che va oltre le loro forze perché comporterebbe una ridistribuzione delle ricchezze e per loro, se la ridistribuzione non va nella direzione gradita, la cosa sarebbe davvero contro natura.

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giovedì 9 marzo 2017

I sogni sono più forti

Paolo Gentiloni è diverso da Matteo Renzi? Sicuramente sì. Il governo Gentiloni è diverso dal governo Renzi? Sicuramente no. E non soltanto perché lo schieramento dei ministri è praticamente identico, salvo pochi scambi e pochissime novità. È sul piano politico che il paragone diventa importante ed è proprio qui che le speranze che da questo governo possa uscire qualcosa di buono si infrangono. Poi ci possono essere piccole motivazioni personali, o di bottega, di assenza di leggi elettorali, o di convenienza internazionale che possono spingere a far concludere la legislatura alla sua scadenza naturale. Ma nella sostanza non si vede come si possa sostenere che questo governo potrà fare il bene degli italiani. E per capirlo bastano due sguardi.
Il primo, di tipo interno, si appunta sulla vicenda dei voucher nella quale l’unico interesse di questo governo – che ha tra i suoi scopi principali quello di non contraddire eccessivamente il governo precedente, cioè, in pratica, se stesso – è quello di non far celebrare un altro referendum che potrebbe sottolineare ancora una volta la profonda differenza filosofica, sociale e politica che esiste tra il Paese e i suoi rappresentanti. Quindi Gentiloni e i suoi vorrebbero procedere con qualche ritocco sperando di disinnescare la mina referendaria, ma con il decreto di cui si parla la sostanza cambierebbe davvero di poco, fermandosi a stabilire vincoli più stetti, ma senza andare a incidere sulla sostanza che è quella di lavoratori sfruttati in piena sintonia con le deregulation messe in campo con il Jobs Act. E su questo si comincerà subito a vedere cosa intendono fare i fuoriusciti dal PD che già nel loro nuovo nome cominciano richiamandosi all’articolo 1 della Costituzione, ossia al diritto al lavoro, inteso come mezzo di dignità e non di sfruttamento.

Apparentemente meno vicino alla vita di ogni giorno, ma ancor più determinate nella formulazione di un giudizio negativo, è lo sguardo di tipo esterno. Trovandosi con personaggi come Mariano Rajoy, elemento di punta del centrodestra europeo, Angela Merkel, altra fiera avversaria del centrosinistra e paladina della cosiddetta austerità, e Francois Hollande che il centrosinistra francese ha ripudiato con decisione e senza rimpianti, Paolo Gentiloni ha sottoscritto quella che pare una decisione che i quattro vogliono imporre a tutti gli altri 23 rimasti nell’Unione: una cosiddetta Europa a più velocità nella quale, tra l’altro, non si capisce perché il poker di partenza dovrebbe avere tutte posizioni di preminenza.

Ma il fatto è che, sottoscrivendo questo patto, hanno deturpato un sogno. Verrebbe da dire che lo hanno distrutto, ma il sogno – quello di un’Europa davvero unita – ha sicuramente più forza di loro quattro messi assieme e, alla fine, tornerà fuori e vincerà.

Lo hanno fatto dicendo che la realizzazione del sogno di creare un’unica nazione è troppo difficile, come se tutto questo si scoprisse soltanto oggi, a sessant’anni di distanza da quando una firma ha reso ipotizzabile una cosa ancora molto più difficile da immaginare a quei tempi: una pace perpetua tra sei aderenti di cui almeno tre (Germania, Francia e Italia) fino a poco più di dieci anni prima non avevano fatto altro che sacrificare, a brevi intervalli, tantissimi loro cittadini in guerre sanguinose dettate da sogni nazionalistici, o personalistici, di potere, o di arricchimento.

Lo hanno fatto senza neppure accorgersi che è la stessa pace che viene da loro messa in discussione, sia perché il solo elemento che si tenterà davvero di mettere in comune non sarà né la legislazione, né la fiscalità, ma soltanto l’esercito; sia in quanto lo stabilire diversità economiche, e quindi di possibilità di sviluppo tra i vari Stati aderenti finirà per allontanare sempre di più, con un’inarrestabile forza centrifuga, le nazioni l’una dall’altra.

Lo hanno fatto senza rendersi conto – o, ancor peggio, rendendosene conto benissimo – che cancellare i sogni vuol dire togliere quelle speranze che dei sogni – se non sono incubi – sono l’unica vera essenza. E che, se si cancella la speranza, si toglie ogni spinta al miglioramento. Si stabilisce che è sufficiente galleggiare, ma senza prendere in considerazione che, nelle cose umane, se non si progredisce, si finisce inevitabilmente per retrocedere; per affondare.

Questi quattro signori rappresentano mirabilmente quell’Europa che in tanti dicono che deve essere cambiata se si vuol far sopravvivere il sogno. È quella stessa Europa che tuona contro chi non ha i conti perfettamente a posto e che coltiva le disparità lesinando sugli aiuti a chi ne ha bisogno, ma che, contemporaneamente, non ritiene di spendere una parola contro i gemelli Kaczyinski quando, ancora in vita entrambi, volevano reintrodurre in Polonia la pena di morte; oppure contro Orban che in Ungheria, oltre ad alzare muri contro gli immigrati, ha tentato a più riprese di sottrarre quote di democrazia al proprio popolo. Ma di questo anche in Italia non dovremmo stupirci più di tanto.

Gentiloni si è soltanto accodato tatticamente ai voleri degli altri? Non basterebbe ad assolverlo, ma non è assolutamente così. È del suo governo, infatti, il progetto di una cosiddetta “flat tax” – benedetto l’inglese che non fa capire ai più – che sarebbe un’imposta sostitutiva forfettaria di 100 mila euro l’anno sui redditi prodotti all’estero e per gli stranieri più ricchi che intendono trasferire la loro residenza fiscale in Italia. E, come contorno, lo sconto del 90% sulle tasse per i “cervelli” – chissà cosa ha percepito Poletti? – che rientrano, il dimezzamento dell’imponibile per i manager che tornano in patria e un visto speciale per gli imprenditori che investono almeno un milione di euro in imprese del nostro Paese.

Cioè, dopo aver tanto tuonato contro i paradisi fiscali comunitari, come Lussemburgo, Olanda e, a suo tempo, Regno Unito, l’Italia non si adopera per arrivare a un’unica fiscalità, ma decide di partecipare alla gare tra chi si mette in testa di voler essere più furbo degli altri, continuando ad aumentare reciproche ostilità e incomprensioni.

E non soltanto simbolicamente meno importante è anche la decisione di concedere un visto a coloro che possono pagarselo a forza di milioni di euro, proprio mentre sta diventando quasi concorde il giudizio che dice che gli immigrati, quelli senza un euro, se scappano da una guerra potrebbero anche entrare, ma coloro che, invece, a casa loro rischiano di morire di fame, di epidemie endemiche, di torture e dittature, possono tornarsene a crepare in patria. Senza disturbare tropo, per favore; e senza farsi nemmeno tanto vedere per non disturbare le coscienze dei sensibili.

E tutto questo facendo anche finta di non ricordare che tra i primi 12 articoli della Costituzione, quelli dei “Principi fondamentali”, quelli che tutti dichiarano intoccabili, il numero 10 recita, tra l’altro: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».

Utopie? Forse. Ma le utopie non sono luoghi che non esistono: sono soltanto luoghi che non si sono ancora raggiunti. E la storia racconta che nella maggioranza dei casi, nonostante i tempi lunghissimi, nonostante tante battute d’arresto, nonostante i tanti personaggi che hanno tentato di cancellarle, alla fine in quei luoghi l’umanità finisce per arrivarci. I nostri sogni forse serviranno a persone che devono ancora nascere, ma sono più forti di qualunque impedimento posto da altri esseri umani.

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venerdì 3 marzo 2017

Sinistra e destra ci sono ancora

Poco mi interessa discutere su chi abbia la colpa della spaccatura del PD: chi legge Eppure… sa bene quanta poca simpatia e stima io abbia per Renzi fin da quando, nel 2012, ha fatto campagna elettorale per le primarie cavalcando un concetto di rottamazione che non distingueva tra bravi e incapaci, onesti e disonesti, ma soltanto tra giovani e vecchi, amici e non amici. E altrettanto inutile mi sembra questionare sulla scissione del PD che appariva inevitabile fin da quando Bersani parlava della sua “ditta”, senza accorgersi che quella “ditta” non produceva più carne in scatola, ma nidi di rondine.

Ma il fatto che Lorenzo Guerini, riferendosi a chi se n’è andato, dica: «Arriverà un giorno in cui finalmente metteranno da parte l’odio per Matteo Renzi», che Debora Serracchiani ripeta quasi esattamente le stesse parole, e che l’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del PD affermi che «la storia della sinistra è più grande dei singoli leader che decidono quando andarsene tradendo gli ideali della “ditta”», mi sembra obblighi a riprendere in mano i concetti di destra e sinistra. Perché sulla scissione si potranno avere mille idee diverse, ma è innegabile il fatto che, al di là di possibili ambizioni o antipatie, quelli che se ne sono andati lo hanno fatto proprio perché non si trovavano più a casa loro; perché non si sentivano più a sinistra.

E allora tentiamo di riesumare questi concetti che molti hanno tentato di seppellire perché scomodi, se si vuol fare politica rincorrendo le convenienze del momento più che gli ideali; e che, invece, continuano a essere preziosi, come un faro nella notte per chi naviga. E tentiamo di farlo partendo dal “Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” di Norberto Bobbio, traendone un primo concetto e tentando di contestualizzarlo.

Nella sua analisi Bobbio sottolinea che il criterio più frequentemente adottato per distinguere la sinistra dalla destra è il diverso atteggiamento che gli uomini assumono di fronte all’ideale dell’uguaglianza, che è, insieme a quello della libertà e a quello della pace, uno dei fini ultimi che si propongono di raggiungere e per i quali sono disposti a battersi». E poi aggiunge che «a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra, da un lato il popolo di chi ritiene che gli uomini siano più uguali che disuguali, dall’altro il popolo di chi ritiene che siamo più disuguali che uguali».

E, proseguendo nell’analisi, sottolinea che «La ragion d’essere dei diritti sociali come il diritto all’istruzione, al lavoro, alla salute, è una ragione ugualitaria. Tutti e tre mirano a rendere meno grande la disuguaglianza tra chi ha e chi non ha, o a mettere in condizione un sempre maggior numero di persone di essere meno disuguali rispetto a individui più fortunati per nascita e condizione sociale». E, con questo, ribadisce «che se vi è un elemento caratterizzante delle dottrine e dei movimenti che si sono chiamati e sono stati riconosciuti universalmente come sinistra, questo è l’ugualitarismo, inteso, ancora una volta, non come l’utopia di una società in cui tutti gli individui siano uguali in tutto, ma come tendenza a rendere più uguali i disuguali».

Tutto chiaro? Non del tutto perché anche la destra afferma di richiamarsi a valori di uguaglianza che, se negati esplicitamente, porterebbero inevitabilmente a un naufragio elettorale. Ma il fatto è che sinistra e destra parlano di due uguaglianze profondamente diverse. Potremmo quasi dire che, mentre la destra caldeggia un’uguaglianza di partenza, la sinistra vorrebbe realizzare un’uguaglianza di arrivo.

E tento di spiegarmi usando un esempio frivolo. Le corse di cavalli sono di due tipi differenti: nelle gare classiche, i par¬tecipanti partono dalla stessa linea; in quelle ad handicap, si tenta di livellare le loro possibilità penalizzando con un peso, o con una distanza maggiore, i cavalli che hanno ottenuto risultati migliori. Nel primo caso, quello che più si attaglia ai valori della destra, si parte dall’uguaglianza, allo scopo di scoprire l’eccellenza del più dotato e accettando in partenza che i risultati siano quasi scontati; nel secondo, che è vicino ai concetti della sinistra, si comincia con una disuguaglianza compensatoria per dare a tutti la possibilità di gareggiare alla pari e favorire un arrivo che possa veder premiato anche colui che parte apparentemente svantaggiato, ma che sa far valere i propri meriti.

Contestualizziamo ricordando anche l’articolo 3 della Costituzione («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini…») e l’articolo 53 («Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività»).

Togliere la tassa sulla prima casa a tutti significa mantenere inalterate le differenze economiche tra i più poveri e quelli più ricchi; proprio come a suo tempo aveva fatto la destra di Berlusconi. Togliere la tassa sulla prima casa ai meno abbienti vuol dire, invece, dare un minimo di aiuto a coloro che sono svantaggiati per tentar di risalire. Renzi e i suoi hanno scelto la prima opzione.


Un esempio piccolo, ma significativo di come un concetto di sinistra sia stato messo in secondo piano per la ricerca del consenso.


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