Paolo Gentiloni è
diverso da Matteo Renzi? Sicuramente sì. Il governo Gentiloni è diverso
dal governo Renzi? Sicuramente no. E non soltanto perché lo
schieramento dei ministri è praticamente identico, salvo pochi scambi e
pochissime novità. È sul piano politico che il paragone diventa
importante ed è proprio qui che le speranze che da questo governo possa
uscire qualcosa di buono si infrangono. Poi ci possono essere piccole
motivazioni personali, o di bottega, di assenza di leggi elettorali, o
di convenienza internazionale che possono spingere a far concludere la
legislatura alla sua scadenza naturale. Ma nella sostanza non si vede
come si possa sostenere che questo governo potrà fare il bene degli
italiani. E per capirlo bastano due sguardi.
Il primo, di tipo interno, si
appunta sulla vicenda dei voucher nella quale l’unico interesse di
questo governo – che ha tra i suoi scopi principali quello di non
contraddire eccessivamente il governo precedente, cioè, in pratica, se
stesso – è quello di non far celebrare un altro referendum che potrebbe
sottolineare ancora una volta la profonda differenza filosofica, sociale
e politica che esiste tra il Paese e i suoi rappresentanti. Quindi
Gentiloni e i suoi vorrebbero procedere con qualche ritocco sperando di
disinnescare la mina referendaria, ma con il decreto di cui si parla la
sostanza cambierebbe davvero di poco, fermandosi a stabilire vincoli più
stetti, ma senza andare a incidere sulla sostanza che è quella di
lavoratori sfruttati in piena sintonia con le deregulation messe in
campo con il Jobs Act. E su questo si comincerà subito a vedere cosa
intendono fare i fuoriusciti dal PD che già nel loro nuovo nome
cominciano richiamandosi all’articolo 1 della Costituzione, ossia al
diritto al lavoro, inteso come mezzo di dignità e non di sfruttamento.
Apparentemente meno vicino alla vita
di ogni giorno, ma ancor più determinate nella formulazione di un
giudizio negativo, è lo sguardo di tipo esterno. Trovandosi con
personaggi come Mariano Rajoy, elemento di punta del centrodestra
europeo, Angela Merkel, altra fiera avversaria del centrosinistra e
paladina della cosiddetta austerità, e Francois Hollande che il
centrosinistra francese ha ripudiato con decisione e senza rimpianti,
Paolo Gentiloni ha sottoscritto quella che pare una decisione che i
quattro vogliono imporre a tutti gli altri 23 rimasti nell’Unione: una
cosiddetta Europa a più velocità nella quale, tra l’altro, non si
capisce perché il poker di partenza dovrebbe avere tutte posizioni di
preminenza.
Ma il fatto è che, sottoscrivendo
questo patto, hanno deturpato un sogno. Verrebbe da dire che lo hanno
distrutto, ma il sogno – quello di un’Europa davvero unita – ha
sicuramente più forza di loro quattro messi assieme e, alla fine,
tornerà fuori e vincerà.
Lo hanno fatto dicendo che la
realizzazione del sogno di creare un’unica nazione è troppo difficile,
come se tutto questo si scoprisse soltanto oggi, a sessant’anni di
distanza da quando una firma ha reso ipotizzabile una cosa ancora molto
più difficile da immaginare a quei tempi: una pace perpetua tra sei
aderenti di cui almeno tre (Germania, Francia e Italia) fino a poco più
di dieci anni prima non avevano fatto altro che sacrificare, a brevi
intervalli, tantissimi loro cittadini in guerre sanguinose dettate da
sogni nazionalistici, o personalistici, di potere, o di arricchimento.
Lo hanno fatto senza neppure accorgersi che è la stessa pace che viene da loro messa in
discussione, sia perché il solo elemento che si tenterà davvero di
mettere in comune non sarà né la legislazione, né la fiscalità, ma
soltanto l’esercito; sia in quanto lo stabilire diversità economiche, e
quindi di possibilità di sviluppo tra i vari Stati aderenti finirà per
allontanare sempre di più, con un’inarrestabile forza centrifuga, le
nazioni l’una dall’altra.
Lo hanno fatto senza rendersi conto –
o, ancor peggio, rendendosene conto benissimo – che cancellare i sogni
vuol dire togliere quelle speranze che dei sogni – se non sono incubi –
sono l’unica vera essenza. E che, se si cancella la speranza, si toglie
ogni spinta al miglioramento. Si stabilisce che è sufficiente
galleggiare, ma senza prendere in considerazione che, nelle cose umane,
se non si progredisce, si finisce inevitabilmente per retrocedere; per
affondare.
Questi quattro signori rappresentano
mirabilmente quell’Europa che in tanti dicono che deve essere cambiata
se si vuol far sopravvivere il sogno. È quella stessa Europa che tuona
contro chi non ha i conti perfettamente a posto e che coltiva le
disparità lesinando sugli aiuti a chi ne ha bisogno, ma che,
contemporaneamente, non ritiene di spendere una parola contro i gemelli
Kaczyinski quando, ancora in vita entrambi, volevano reintrodurre in
Polonia la pena di morte; oppure contro Orban che in Ungheria, oltre ad
alzare muri contro gli immigrati, ha tentato a più riprese di sottrarre
quote di democrazia al proprio popolo. Ma di questo anche in Italia non
dovremmo stupirci più di tanto.
Gentiloni si è soltanto accodato
tatticamente ai voleri degli altri? Non basterebbe ad assolverlo, ma non
è assolutamente così. È del suo governo, infatti, il progetto di una
cosiddetta “flat tax” – benedetto l’inglese che non fa capire ai più –
che sarebbe un’imposta sostitutiva forfettaria di 100 mila euro l’anno
sui redditi prodotti all’estero e per gli stranieri più ricchi che
intendono trasferire la loro residenza fiscale in Italia. E, come
contorno, lo sconto del 90% sulle tasse per i “cervelli” – chissà cosa
ha percepito Poletti? – che rientrano, il dimezzamento dell’imponibile
per i manager che tornano in patria e un visto speciale per gli
imprenditori che investono almeno un milione di euro in imprese del
nostro Paese.
Cioè, dopo aver tanto tuonato contro
i paradisi fiscali comunitari, come Lussemburgo, Olanda e, a suo tempo,
Regno Unito, l’Italia non si adopera per arrivare a un’unica fiscalità,
ma decide di partecipare alla gare tra chi si mette in testa di voler
essere più furbo degli altri, continuando ad aumentare reciproche
ostilità e incomprensioni.
E non soltanto simbolicamente meno
importante è anche la decisione di concedere un visto a coloro che
possono pagarselo a forza di milioni di euro, proprio mentre sta
diventando quasi concorde il giudizio che dice che gli immigrati, quelli
senza un euro, se scappano da una guerra potrebbero anche entrare, ma
coloro che, invece, a casa loro rischiano di morire di fame, di epidemie
endemiche, di torture e dittature, possono tornarsene a crepare in
patria. Senza disturbare tropo, per favore; e senza farsi nemmeno tanto
vedere per non disturbare le coscienze dei sensibili.
E tutto questo facendo anche finta
di non ricordare che tra i primi 12 articoli della Costituzione, quelli
dei “Principi fondamentali”, quelli che tutti dichiarano intoccabili, il
numero 10 recita, tra l’altro: «Lo straniero, al quale sia impedito nel
suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite
dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della
Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Utopie? Forse. Ma le utopie non sono
luoghi che non esistono: sono soltanto luoghi che non si sono ancora
raggiunti. E la storia racconta che nella maggioranza dei casi,
nonostante i tempi lunghissimi, nonostante tante battute d’arresto,
nonostante i tanti personaggi che hanno tentato di cancellarle, alla
fine in quei luoghi l’umanità finisce per arrivarci. I nostri sogni
forse serviranno a persone che devono ancora nascere, ma sono più forti
di qualunque impedimento posto da altri esseri umani.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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