martedì 15 marzo 2022

Coerenza nella vergogna

San Daniele Quanto a coerenza non c’è proprio nulla da dire: il signor Pietro Valent, sindaco di San Daniele, aveva comportamenti vergognosi e democraticamente inaccettabili prima e continua ad averli ancora adesso. Non riusciva a concepire il significato della parola vergogna prima, e continua a non concepirlo ancora adesso.

Verso metà gennaio, approfittando della sua posizione a capo della giunta comunale, aveva rabbiosamente deciso di revocare il patrocinio, il partenariato e aveva chiesto «l’immediata rimozione dello Stemma comunale» da tutto il materiale digitale dell’Associazione per la Costituzione che da anni organizza un “Festival Costituzione” al quale hanno partecipato i maggiori costituzionalisti del nostro Paese, oltre a tantissimi altri personaggi di primo piano che sono venuti a San Daniele?

La colpa dell’Associazione? È presto detto: aveva emesso un comunicato nel quale, proprio pensando alla Carta fondamentale della nostra Repubblica, metteva in debito rilievo il fatto che Silvio Berlusconi non avrebbe dovuto candidarsi alla Presidenza della Repubblica perché in realtà, come affermavano anche tanti costituzionalisti, la candidatura di un simile personaggio sarebbe stata «un’offesa alla dignità della repubblica e a milioni di cittadini italiani».

Adesso il signor Valent scrive che «siamo a comunicarvi che coerentemente con la predetta revoca risulta non concedibile l’uso della sala antica della Biblioteca Guarneriana per le date da voi richieste. Si comunica, inoltre, che anche la richiesta di uso immobile comunale come sede di associazione non è al momento accoglibile per le medesime motivazioni con le quali abbiamo comunicato la revoca del patrocinio e partenariato». Nel comunicato è evidentemente saltata qualche parolina, ma il senso è chiaro. Poi, ineffabilmente ipocrita, conclude con «Cordiali saluti».

Insomma, pur nei drammatici giorni in cui si segue con ansia crescente la strage che sta insanguinando l’Ucraina, per lui resta in primo piano la sua cupidigia di servilismo nei confronti di Berlusconi. E, quindi, Valent si impegna a tentare di rendere difficile lo svolgimento del Festival dedicato alla Costituzione, parola che, evidentemente, gli causa un’orticaria simile a quella che provocava a Berlusconi e, non contento, dà anche lo sfratto all’Associazione dalla sua sede.

Paolo Mocchi, presidente dell’Associazione, risponde ancora una volta con la consueta signorilità e si limita a comunicare a tutti che comunque «ci vediamo il 27, 28, 29 maggio». Ovviamente non annuncia ancora le sedi in cui il festival si svolgerà, ma c’è sicuramente tempo, anche perché dalla stessa San Daniele, ma anche e soprattutto da molti altri comuni sono immediatamente giunte tante offerte di ospitalità.

Io non riesco a essere signorile come Paolo e, quindi, esprimo alcuni auspici. Per prima cosa che nella scelta dei locali per gli eventi del festival si tenga conto che quest’anno saranno sicuramente ancora di più coloro che vorranno testimoniare la loro indignazione contro un personaggio da dimenticare.

Il secondo che finalmente si ritrovi la strada delle manifestazioni pubbliche di protesta per subissare di fischi un personaggio che dovrebbe rappresentare e tutelare la libertà di pensiero di tutti i cittadini di San Daniele, mentre invece pensa a difendere soltanto il suo signore – ammesso che sappia quello che sta succedendo e che lo apprezzi – e se stesso.

Il terzo è che quando i sandanielesi torneranno a votare si ricordino di questa schifezza immonda e antidemocratica, da vero e proprio podestà. Ho grande rispetto per la democrazia e, quindi, non intendo assolutamente incitare a non votare a destra, ma non ho alcun rispetto per gli autoritarismi e quindi li invito a non votare mai più per il signor Valent. Poi sia la destra a decidere se sceglierlo ancora come proprio rappresentante.

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venerdì 11 marzo 2022

La guerra non è mai soltanto altrui

000Qualche giorno fa ho tentato di elaborare un ragionamento sulla liceità della fornitura di armi a un Paese aggredito da un altro, appoggiandomi agli articoli 10 e 11 della nostra Costituzione e arrivando alla conclusione che, se riconosciamo a tutti gli esseri umani, di qualunque nazionalità essi siano, gli stessi diritti di cui dovremmo godere noi italiani, e se noi ripudiamo la guerra come mezzo di offesa, ma la ammettiamo come legittima difesa davanti a un’aggressione e a un’invasione, allora anche gli altri hanno gli stessi diritti e sta a noi, ove possibile, dare loro i mezzi per renderli reali.

D’altro canto, sarebbe illogico il contrario visto che la nostra stessa Repubblica, con la sua Costituzione, è nata da una Resistenza concretizzatasi contro un invasore di territori, come l’esercito nazista, e un invasore di diritti, come il fascismo. E anche in Ucraina c’è questa doppia invasione, anche se, in questo caso, territori e diritti sono invasi e calpestati sempre dallo stesso soggetto: da Putin e dalle sue forze.

Ma ci sono anche altre considerazioni che, a mio parere, giustificano l’attuale atteggiamento di quello che per comodità, più che per convinzione, continuiamo a chiamare “l’Occidente”.

La prima riguarda l’impossibilità del pacifismo equidistante, soprattutto perché equidistante non può essere: nel momento in cui, in uno scontro disequilibrato, non si prende posizione per nessuno dei due contendenti, inevitabilmente si finisce per favorire colui che già in partenza è il più forte.

La seconda riguarda la tesi che Zelensky, invece di incitare i propri connazionali a resistere, dovrebbe puntare a farli arrendere per risparmiare loro l’orrore crescente della guerra. Questa è una tesi sulla quale a livello filosofico si potrebbe anche discutere, ma che nella realtà ha poco senso in quanto la scelta se rinunciare, senza opporsi, alla propria libertà e indipendenza non può che spettare a coloro che alla libertà e indipendenza dovrebbero rinunciare.

Terzo punto: le conseguenze economiche che la prosecuzione della guerra renderà, per tutto il mondo, ancora più pesanti di quelle che già ci sono oggi. È evidente che l’argomento riveste una notevole importanza in quanto una crisi economica – lo sappiamo benissimo – va a incidere più pesantemente sulla vita dei poveri che dei ricchi, erodendo le disponibilità economiche specialmente attraverso la crescita dell’inflazione, ma anche, se non soprattutto, con la cancellazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Però anche in questo le considerazioni economiche non possono prescindere dai sentimenti di chi la guerra la sta subendo. Immanuel Kant ha scritto: «Tutto ha un prezzo, o una dignità. Ha un prezzo ciò al cui posto può essere messo anche qualcos’altro, di equivalente. Per contro ciò che si innalza al di sopra di ogni prezzo, e per ciò non comporta equivalenti, ha una dignità». E la scelta se applicare a se stessi un prezzo, o una dignità, non può che spettare a chi si trova nell’urgenza diretta di decidere se rischiare, o meno, la propria vita.

Ancora meno supporti etici possono avere altre giustificazioni che tenderebbero a limitare i diritti a determinate categorie di persone: per capirci, a determinare l’esistenza, o meno, dei diritti di una persona non può essere la distanza da noi, né l’età, né la religione, né il credo politico e neppure altre discriminazioni, perché un diritto è tale se riguarda tutte le persone; altrimenti diventa soltanto un privilegio di alcuni, pochi o tanti che siano.

Sono sicuramente concetti non semplici da accettare e che possono dare il via a infinite discussioni, ma già una cosa è estremamente chiara: parlare di pace in tempo di pace è estremamente più facile che parlarne in tempo di guerra. E che parlarne lontano dal conflitto è più semplice che se ci si sente coinvolti.

E probabilmente è proprio qui la chiave per sperare in un futuro di pace e non di guerra: bisogna rendersi conto che parlare, ragionare e discutere resta sempre obbligatorio, ma non deve diventare mai un alibi per non operare e che la fatica delle dissuasioni diplomatiche o sanzionatorie va accettata e fatta ben prima della criticità che porta allo scoppio di un conflitto. In realtà, insomma, è dimostrata ancora una volta di più l’assurdità del “Si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace, prepara la guerra) dello scrittore latino Vegezio. In realtà bisognerebbe rendersi conto sempre che “Si vis pacem, para pacem” (se vuoi la pace, prepara la pace).

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venerdì 4 marzo 2022

Il dilemma delle armi

Ucr Poche cose come la guerra possono mettere in crisi le nostre coscienze facendo scattare una specie di corto circuito nei nostri cervelli e nei nostri cuori. E questo accade anche quando i conflitti sembrano non riguardarci direttamente, perché dentro di noi sappiamo che ogni ingiustizia non può non riguardare ogni essere umano. E, infatti, molti di noi sono entrati in crisi con le “missioni di pace” che talvolta non sono rimaste tali. Così come oggi non ci si può non interrogare davanti alla decisione di mandare armi all’Ucraina, aggredita e invasa dalle truppe di Putin.

Così ci troviamo tra due pensieri, in apparenza diametralmente opposti, che ci mettono in crisi. Da una parte c’è il «L’Italia non intende voltarsi dall’altra parte» di Mario Draghi che vuole giustificare l’invio di armi che soltanto l’ipocrita bizantinismo della nostra politica può tentare di dividere tra “letali” e “non letali”. Dall’altra, invece, risuona la frase di Gino Strada: «Non esiste alcuna guerra giusta. L’unica cosa da fare è abolire la guerra», che implicitamente condanna anche ogni uso delle armi e, quindi, pure il loro invio a qualsiasi parte belligerante.

Cioè, davanti a una guerra è lecito accettare, senza muovere un dito, che il più forte soggioghi il più debole? Oppure è lecito ergersi a giudici e tentare di aiutare chi riteniamo sia dalla parte del giusto?

Nella ricerca, probabilmente senza speranza, di poter scegliere con chiarezza quale strada intraprendere davanti a un bivio così drammatico, forse può venirci in aiuto il faro della nostra Costituzione con due dei suoi articoli. Nell’articolo 11 dice, tra l’altro: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Nel 10 sostiene che «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica».

Se da una parte, insomma, si ripudia la guerra come strumento di offesa, contemporaneamente la si considera lecita come legittima difesa davanti a un’aggressione. Dall’altra parte si punta a dare a ogni essere umano, anche se vive fuori dal nostro Paese, gli stessi diritti che spettano agli italiani. Se, quindi, si può argomentare che ogni italiano ha il diritto di difendersi da un’ingiusta aggressione, questa condizione deve essere assicurata, nei modi possibili, a chiunque sia aggredito.

Sono d’accordo che ogni ragionamento indotto può essere controbattuto con forza ed efficacia, ma già il fatto di ragionare sulla contraddizione di queste convinzioni può far capire che non è accettabile che il dibattito non ci sia, o che prenda vita soltanto a frittata già fatta, a guerra già scoppiata.

Il tema della guerra, delle ingiustizie, dell’abitudine a delegare alla forza la risoluzione delle controverse dovrebbero essere materia di ragionamento e dibattito in ogni giornata della nostra vita, proprio per prevenire i disastri che troppo spesso vediamo scatenarsi proprio sui più deboli, sugli innocenti, sugli inermi, tanto che ormai mediamente su cento morti in guerra più di novanta sono le vittime civili e i bambini.

Invece siamo diventati abilissimi nel far finta di niente, nel voltarci dall’altra parte quando si verificano fatti che andrebbero condannati esplicitamente e senza mezze misure da qualunque parte accadano e che, invece, vengono lasciati passare senza reazioni, tanto da far credere a chi commette soprusi, o di essere nel lecito, o di essere tanto potente da poter non darsi pena di cosa sia lecito e cosa sia riprovevole. Da noi ci sono stati addirittura due personaggi politici di primo piano – Berlusconi e Salvini – che hanno tessuto di Putin lodi sperticate. Ma non sono stati gli unici.

E, così, è stato nel brodo di cultura di questo crescente senso di impunità che è cresciuta la convinzione che possa essere la guerra a placare i propri appetiti, che siano territoriali, linguistici, religiosi, economici. Comunque di valore infimo rispetto a una sola vita umana.

Oggi parliamo della Russia di Putin, ma è difficile non pensare all’Afghanistan dei talebani, all’Egitto di al-Sisi, alla Siria di Assad, alla Turchia di Erdogan e ad altri infiniti casi sparsi nel mondo; non soltanto di guerre canoniche, ma anche di soprusi generalizzati contro i propri stessi cittadini.

Quindi, come indica anche la nostra Costituzione, è assolutamente giusto e doveroso fare il possibile per ripudiare la guerra. Tenendo ben presente che se, per colpa nostra, lasciamo che ogni purulenta schifezza possa crescere fino ad esplodere in un conflitto, allora sarà ben difficile far finta di niente, tentare di far credere che non sia anche colpa nostra, voltandosi dall’altra parte.

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