venerdì 27 gennaio 2023

Sciocchezze e furbate

Quando si sente qualcuno, specie se in posizione di rilievo, affermare una sciocchezza sesquipedale è buona regola non seguire l’istinto di riderci sopra e dimenticarsene: anzi, vista la frequenza con cui i protagonisti del governo Meloni la sparano grossa, bisognerebbe, invece, cercar di capire se quella frase nasconde stupidità, ignoranza, genialità sorprendente, o qualche secondo fine.

È molto difficile, per esempio, non abbinare alla prima ipotesi la sparata del presunto ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che ha proclamato: «Il fondatore del pensiero di destra in Italia è stato Dante Alighieri: la destra ha cultura, deve solo affermarla». Quando Dante era vivo mancava ancora mezzo millennio abbondante alla nascita, durante la Rivoluzione francese, dei primi concetti politici di destra e sinistra. Qui non si tratta nemmeno di mancanza di quella cultura che il ministro dovrebbe incrementare. Forse sarebbe stato almeno più divertente se avesse provato a dividere i partiti di oggi tra guelfi e ghibellini, tra bianchi e neri.

Più interessante è analizzare la frase pronunciata dal teorico ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, che ha sostenuto come e qualmente l’umiliazione sia «un fattore fondamentale nella crescita della personalità». Se il reggitore del dicastero più importante per il futuro del nostro Paese fosse un ignorante potrebbe non conoscere la differenza profonda che corre tra umiltà e umiliazione, ma questo appare impossibile. Nella religione cristiana l’umiltà è la virtù di chi riconosce la propria finitezza di fronte all’incommensurabilità del Creatore. E, a tale proposito Julien Green aveva coniato un caustico aforisma: «non potendo fare di noi degli umili, Dio fa di noi degli umiliati».

Sta di fatto che, umili e umiliati hanno la medesima radice etimologica (derivano da “humus”, terra: sentirsi abbassati fino a terra), ma sono profondamente diversi perché la prima parola ha un significato positivo, mentre la seconda è decisamente negativa. Se, infatti, essere umili è la presa di coscienza dei propri limiti, essere umiliati corrisponde a una costrizione da parte di altri. La lingua latina, attenta e precisa anche nelle sfumature etimologiche, infatti, definisce questi due stati in maniera diversa: “umiltà” è “humilitas”, mentre “umiliazione” corrisponde a “offensio”, o “notatio”, o “indignitas”.

Visto che Valditara, oltre che ministro, è anche ordinario di Diritto privato e pubblico romano all’Università di Torino, è da escludere che non conosca queste sfumature che, con il passare dei secoli, l’italiano ha affievolito fin quasi a farle superficialmente scomparire. Quindi l’ipotesi di ignoranza è da escludere.

Ancor più difficile da accettare è l’idea di una possibile genialità. L’umiliazione, infatti, è l'emozione che si prova quando si sente che il proprio status è considerevolmente ridotto rispetto a quello di altri, per proprie gravi mancanze, vere o presunte che siano: è un’emozione che non può non portare alla mortificazione che ugualmente definisce uno stato di penosa vergogna perché corrisponde alla cancellazione della propria considerazione di sé, del proprio orgoglio. E c’è davvero ben poco di geniale nell’ipotizzare che la reazione a un’umiliazione possa discostarsi troppo da un moto di violenza verso sé stessi, o verso chi questa umiliazione ha inflitto. Storia e cronaca lo dimostrano abbondantemente.

Resta l’ultima ipotesi, quella da considerare più attentamente anche perché è la più pericolosa: il secondo fine nascosto, che è probabilmente il distinguo più evidente tra la politica intesa come emancipazione generale della polis e quella che, invece, cerca maggiore potere per sé o per il proprio gruppo, anche cercando di rendere non soltanto apparentemente normale, ma addirittura utile l’umiliazione che, nel passaggio dalla mortificazione singola e quella collettiva, si evolve in uno strumento politico di straordinaria efficacia e crudeltà. Per dare un esempio, la mente corre a come sono stati trattati gli ebrei nel corso dei secoli, ma la storia è ricchissima di esempi in cui il concetto che la durezza sia il metodo più efficace per correggere gli altrui comportamenti è facilmente trascolorato in un sistema che è servito soltanto a punire, o sterminare, senza presupporre neppure lontanamente alcun tipo di miglioramento.

Per capirci meglio merita richiamarsi a una prefazione scritta da Fernando Savater su un libro di Maurice Joly che immagina un dialogo tra Machiavelli e Montesquieu che avviene nell’Aldilà intorno al 1860, proprio negli anni in cui Marx sta elaborando la sua dottrina sociale. Ovviamente il fiorentino incarna la passione per il potere, mentre il barone francese rappresenta la tensione egualitaria e antiassolutista del secolo dei Lumi. In breve, ne esce la convinzione che le leggi dell’economia abbiano occultato, più che rivelato, gli autentici meccanismi del potere politico. Machiavelli sostiene che il potere debba tenere in soggezione i sottoposti per garantirsi una stabilità con la forza, o con l’umiliazione, mentre Montesquieu ribatte che le istituzioni politiche devono essere frutto non della forza, ma delle virtù; e aggiunge che il principe non può comportarsi impunemente con i suoi sudditi in modo indegno o brutale perché, trattando gli uomini come bestie, li si renderà tali e l’ordine sociale, qualsiasi esso sia, non resisterà all’attacco di una ferocia generalizzata che nasce come risposta a dichiarate operazioni di distruzione della dignità altrui.

Il dialogo poi prosegue proprio nel dibattere se sia lecito, o meno, giustificare le proprie azioni di falsificazione della realtà, e quindi di umiliazione altrui, per mantenere vivo un qualsiasi sistema sociale, anche quello apparentemente più virtuoso. E non per nulla Savater intitola il suo saggio La distruzione democratica della democrazia”.

Insomma: davanti a una frase palesemente falsa non bisogna sorridere e dimenticarsene. Anzi: è necessario impegnarsi ancora di più in quanto con ogni probabilità frasi di questo tipo non sono uno stimolo all’emancipazione, ma un tentativo di ulteriore sottomissione; un desiderio di trasformare nuovamente i cittadini in sudditi.

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lunedì 23 gennaio 2023

Non è un brutto momento

Se fosse possibile stilare una classifica tra le espressioni più pronunciate in questo periodo, quasi sicuramente vincerebbe per distacco la frase «È un brutto momento». Ebbene, ogni volta che la sentiamo ripetere dovremmo avere la costanza di dire al nostro interlocutore che si tratta di una frase sbagliata. Non perché sia erroneo l’aggettivo, bensì il sostantivo. Infatti non si tratta di un brutto momento, ma almeno di un brutto periodo, se non di un brutto decennio, o ventennio, o addirittura di un’unità di misura temporale ancora decisamente più lunga.

Anzi, il tempo buio e burrascoso è talmente lungo da indurre allo scoramento. La pandemia del Covid e la guerra in Ucraina sono entrambe ben lontane dalla conclusione visto che la prima continua a proporre bilanci di un centinaio di morti ogni giorno soltanto in Italia, mentre la seconda non rinuncia a falciare quotidianamente decine di civili, mentre gli eserciti puntano a rafforzare le loro capacità mortifere e distruttive nell’attesa che passi il freddo dell’inverno. Non bastasse questo, da tutto il mondo continuano ad arrivare notizie di stragi tra i migranti, o tra quelli che protestano contro regimi teocratici, liberticidi e discriminanti per genere, di femminicidi, di truffe, ruberie, disonestà di ogni tipo, di morti per freddo, fame e malattie, mentre continuano ad aumentare le ricchezze di pochi privilegiati in un acuirsi delle disuguaglianze che alla fine, com’è sempre successo, non potrà non dare vita – anzi morte – a ribellioni di sopravvivenza. Senza contare che la politica continua fornire incredibili virtuosismi da faccia di bronzo come quando un ministro degli esteri riesce a dire, senza scoppiare a ridere o mettersi a piangere, che Al Sisi collaborerà per arrivare alla verità sulla morte di Giulio Regeni.

Sono sicuramente di minore drammaticità apparente, ma foriere di ulteriori disastri, magari soltanto a scala nazionale, tutta una serie di fatti che accadono quotidianamente sotto i nostri occhi e ai quali spesso non facciamo più nemmeno caso.

Prendiamo, per esempio, il fatto che si riparli con preoccupazione di libertà di stampa che oggi torna in discussione grazie all’appiglio regalato da usi impropri di intercettazioni telefoniche che sono imprescindibili nel loro uso giudiziario, ma sono esecrabili quando servono per realizzare articoli di gossip che non hanno giustificazioni e addentellati né con la cronaca nera, né con la trasparenza politica e sociale.

Eppure di segnali d’allarme recentemente ce ne sono stati già tanti. Avete notato l’incredibile esodo di una quantità di firme di grande peso, soprattutto nella fustigazione della politica, che hanno abbandonato l’Espresso, storica testata che da poco ha cambiato proprietà? E vi siete accorti che la maggior parte dei quotidiani on line ha cancellato lo spazio che era dedicato ai blog, cosa ben diversa dalle lettere al direttore e che presentavano il forte rischio di non poter essere controllati prima della pubblicazione?

E non è cosa momentanea neppure quella che comunemente è chiamata la crisi del PD, ma che dovrebbe farci pensare, invece, alla crisi della sinistra. Perché tutti parlano di sconfitte elettorali, ma ben pochi puntano il dito sulla scomparsa dei valori di riferimento di quella che era la sinistra che sapeva riscuotere notevole credito nelle classi più disagiate e in quelle più sensibili ai concetti di democrazia, giustizia, uguaglianza e importanza non soltanto economica del lavoro. Com’è possibile, del resto che oggi cerchi di accreditarsi come vero capo della sinistra un signore che, da presidente del Consiglio, ha controfirmato i cosiddetti “decreti sicurezza” di Salvini e che ha scelto di farsi fotografare con sorriso trionfante accanto al capo della Lega subito dopo l’approvazione di dispositivi di legge assolutamente immorali, antietici e corresponsabili della morte di migliaia di poveri disgraziati che hanno sfidato Mediterraneo e scafisti pur di poter sperare di sfuggire a guerre, terrorismi, carestie, epidemie, tirannie.

Una crisi della sinistra che continua a pensare che per vincere sia più importante trovare l’alleanza giusta che portare avanti le proprie idee; che continua ad alimentare grandi discussioni sulle piccole cose che dividono e non sulle grandi che uniscono; che non riesce a dare un messaggio univoco agli elettori che non capiscono, perché nessuno glielo dice, che destra e sinistra non hanno visioni sociali diverse, ma antitetiche. Una sinistra che ha consentito di far avvicinare sempre di più il sistema elettorale a quelle soluzioni maggioritarie che sono utilissime soltanto per quei gruppi che privilegiano la comodità dell’obbedienza rispetto alla fatica del pensiero e dell’obiezione.

Si dice che questa maledetta notte, prima o dopo, dovrà pur finire. È vero, ma bisogna aiutare a farla concludere e la temperie attuale richiede più resistenza pacifica che opposizione parlamentare perché in Parlamento i numeri hanno importanza fondamentale e per anni non cambieranno, mentre l’orientamento dei cittadini e la loro pressione possono anche mutare più velocemente rispetto a scelte magari dettate da delusioni e arrabbiature.

Occorre una resistenza che può anche cominciare rispondendo, ogni volta che si sente dire «È un brutto momento», che questa frase è sbagliata perché è sicuramente brutto, ma purtroppo non è soltanto un momento capace di coglierci di sorpresa.

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