sabato 23 settembre 2023

Il prezzo della libertà

Diciamoci la verità: non avremmo mai pensato che si potesse arrivare a tanto, ma, una volta che ci hanno fatto conoscere questa loro nuova porcheria, non possiamo stupircene perché rientra benissimo nel loro modo di vedere il mondo. Mi sto riferendo al decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale in cui si precisa che un migrante potrà evitare di essere rinchiuso in un CPR a condizione che versi quasi cinquemila euro – per l’esattezza 4.938 – come «garanzia finanziaria a carico dello straniero durante lo svolgimento della procedura per l'accertamento del diritto di accedere al territorio dello Stato». L’importo è stato fissato – è specificato nel decreto – per garantire allo straniero, «per il periodo massimo di trattenimento, pari a quattro settimane (ventotto giorni), la disponibilità di un alloggio adeguato, sul territorio nazionale; della somma occorrente al rimpatrio; di mezzi di sussistenza minimi necessari, a persona».

Al di là del fatto che nel recentissimo Decreto legge deciso dal Consiglio dei ministri meloniano si specifica che il trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri sarà alzato al limite massimo consentito dalle attuali normative europee: 6 mesi, prorogabili per ulteriori 12, per un totale di 18 mesi, la decisione del truce ministro Piantedosi fa balzare immediatamente agli occhi la mentalità di chi lo ha voluto: Salvini e, di conseguenza, la Meloni.

La prima evidenza è quella che, ponendosi su posizioni diametralmente opposte rispetto alle parole e ai gesti di Papa Francesco, il rappresentante in Terra di quel Dio che la Meloni dice di voler difendere, la presidente del Consiglio fa di tutto per rendere difficile, se non impossibile, la fuga di chi vuole scappare da guerre, dittature sanguinarie, crisi climatiche, carestie e malattie curabili da noi, ma non in quei posti.

La seconda riguarda il fatto che ben poco la Meloni fa, anche se urla il contrario, per intraprendere una «guerra agli scafisti in tutto il globo terracqueo». Molto più semplice è prendersela con i più deboli, con quelli che già rischiano la vita propria e quella dei propri cari allo scopo di conquistare almeno la speranza. E continuare a dare soldi, navi e armi a quei regimi sotto i quali a prosperare sono proprio quegli scafisti che – com’è ben illustrato in “Io capitano” di Matteo Garrone – ormai non si assumono più nemmeno il rischio di mettersi in mare.

Il terzo aspetto mette in luce sia la tentazione di monetizzare tutto, di fissare un prezzo per la libertà, sia il disprezzo per la nostra Costituzione che sicuramente – dovessero disgraziatamente riuscire ad aumentare la loro maggioranza – vorrebbero cambiare. Chiedere a poveri cristi, già depredati dai mercanti di esseri umani per terra e per mare, di tirare fuori poco meno di 5.000 euro vuol dire parificarsi proprio a quegli scafisti che si dice di voler sconfiggere. E poco cambia per chi – già in povertà – si sente raggiungere da una telefonata di minacciosa richiesta di altri soldi, sentire la promessa che prima o dopo, se il migrante si sarà comportato bene, quella somma sarà restituita.

Non meno gravi sono le considerazioni costituzionali: chiedere una simile cifra ai ragazzi, agli uomini e alle donne che vediamo vagare nelle nostre strade significa stabilire che anche tra i poveri ci debbano essere delle discriminazioni: chi riesce ad avere dei soldi può salvarsi da una detenzione imposta anche senza la minima corrispondenza con un qualche reato, mentre quelli più poveri devono rassegnarsi a veder chiudere i cancelli dopo il loro ingresso perché colpevoli di essere poveri senza scampo.

Eppure la Costituzione, nell’articolo 3, specifica che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono…».

A questo punto a Salvini e camerati, che sicuramente diranno che i migranti non sono cittadini italiani, bisognerebbe ricordare l’articolo 10 in cui è scritto: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».

Certamente la destra ha la maggioranza nel Parlamento, ma dovrebbe essere doveroso cercar di far vedere che questa maggioranza può verificarsi soltanto con questo sistema elettorale e soprattutto con l’abbandono delle urne. Stare zitti ci fa diventare complici e, quindi, colpevoli.

Provate a pensare a quanti esseri umani in più sarebbero stati uccisi nei Lager nazisti se l’accoglienza praticata da tanti Paesi non ci fosse stata, o se fosse stata subordinata alla disponibilità economica dei perseguitati.

 

 

venerdì 1 settembre 2023

Parole da riscoprire: piazza

In poche cose come nel linguaggio della politica ci si accorge di come cambiano – o, meglio, vengono cambiati – i significati delle parole. Prendiamo come esempio il sostantivo piazza che non molti decenni fa era considerato un luogo di ritrovo naturale e che oggi, invece, assume un senso di minaccia, o che addirittura richiede giustificazioni. I meno giovani ricorderanno certamente che cortei e manifestazioni erano parte integrante della vita sociale di ogni Paese democratico e si rendono conto che oggi tutto è cambiato.

Ivan Pedretti, segretario generale della Cgil pensionati afferma minaccioso: «Il governo vuole usare le pensioni come bancomat, ma stavolta scendiamo in piazza». E Maurizio Landini, il leader della Cigl, pur sempre molto deciso nell’esprimere il proprio sentire, si sente quasi in dovere di difendersi quando, davanti all’affermazione della destra «Protesta ancora prima di sapere quale sarà la nostra proposta di legge finanziaria», giustifica la decisione di proclamare sciopero e manifestazione per il 7 ottobre dicendo che «noi non è soltanto che protestiamo, ma abbiamo delle nostre proposte e vogliamo farle conoscere».

Conviene analizzare questo cambiamento semantico del significato di piazza. Nata nell’antica Grecia come “agorà” (da “aghéiro”: raccolgo, raduno), la piazza principale della “polis” è fondamentale nelle prime democrazie dirette per consentire alla popolazione di radunarsi, discutere e poi votare. Anche a Roma, pur se si vota di meno, la piazza serve per dare vita ai comizi, cioè ad assemblee pubbliche di patrizi e plebei assieme, le cui competenze vanno sempre più scemando. Agli albori del Medioevo, in Italia, la piazza diventa luogo di riunioni, spettacoli, prediche, cerimonie, processioni, esecuzioni, ma anche di attività commerciali e di comunicazioni pubbliche. Soltanto raramente di discussioni; praticamente mai di votazioni.

Poi, con la rivoluzione francese, la piazza torna ad animarsi, ma comincia ad assumere le caratteristiche moderne che prescindono dai concetti politici di destra e sinistra, ma si radicano nelle forme di governo: in quelle autoritarie le piazze si riempiono soltanto nel caso la folla sia plaudente; nelle democrazie quasi esclusivamente per dimostrare un dissenso nei confronti dell’operato del governo in carica. Implicitamente questo fa arrivare alla conclusione che se le piazze non si riempiono per accogliere forme di protesta, questo vuol dire che la democrazia sta attraversando un momento di crisi e non è casuale che dappertutto l’assenza di proteste di massa coincida con un drastico calo delle percentuali dei votanti nelle varie consultazioni elettorali.

La sempre più diffusa crisi delle democrazie rappresentative, infatti, non dipende tanto da un logoramento di sistemi e regole della convivenza civile, ma proprio da una sempre più marcata carenza di partecipazione che rende enormemente più facile imporre, per chi ha il potere in mano, i propri valori, o le proprie mire economiche e sociali. E, dopo anni e anni di esperienza, si può ben dire che le cosiddette “piazze virtuali” non sono soltanto dei pallidi succedanei delle antiche riunioni di massa, ma sono delle vere e proprie truffe.

Nelle piazze, infatti, ci si conosceva, ci si parlava, si discuteva, ci si rendeva conto di non essere soli, ma di far parte di una comunità che aveva delle dimensioni che spesso erano davvero ragguardevoli. E di queste dimensioni si rendevano conto anche coloro che occupavano la stanza dei bottoni e che, soprattutto in presenza di sistemi elettorali proporzionali, erano molto sensibili alla possibile perdita di qualche punto percentuale nel computo dei voti e, quindi, un po’ più disposti a ragionare sulle necessità manifestate da fette di cittadini che ci mettevano la faccia e non restavano praticamente anonimi dietro gli schermi di computer, tablet e telefonini.

Viene quasi il sospetto che l’uso dei social sia visto con grande favore, se non addirittura sponsorizzato, soprattutto da coloro che desiderano non essere seccati; non tanto dalle opposizioni parlamentari, cristallizzate nelle loro dimensioni per un lustro, ma soprattutto dalle resistenze popolari.

Ed è vacua la ripetuta giustificazione che è stata la tecnologia a rovinare in tanti aspetti la nostra società: la tecnologia dovrebbe aiutare, non rovinare e comunque sta agli esseri umani la decisione del se e del come utilizzare le novità che il progresso ci mette a disposizione. I colpevoli restiamo sempre noi, sia nell’usare scriteriatamente i mezzi che abbiamo a disposizione, sia nel far finta di non accorgerci che lo stanno facendo altri.

Ma una speranza c’è perché le piazze sono ancora là e sta a noi il compito – anzi, il dovere – di non lasciarle desolantemente vuote, ma di riempirle quando sentiamo che c’è qualche ingiustizia da rifiutare. E questo va fatto insieme, vedendo e sentendo fisicamente che non si è soli e non soltanto immaginandolo con la lettura di qualche frasetta, o addirittura di semplici like, sullo schermo di uno dei tantissimi mezzi di comunicazione che spesso ci siamo illusi che potessero sostituire il complesso della nostra umanità.

martedì 4 luglio 2023

La sregolatezza delle regole

In “Aspettando Godot” Samuel Becket fa dire a Estragone: «Si nasce tutti pazzi. Alcuni lo restano». A prima vista può apparire un rovesciamento della realtà, ma, invece, questo assunto può essere del tutto logico. La pazzia, infatti, può derivare da problemi congeniti, o, dopo, da malattie, o eventi traumatici che mettono a repentaglio, o addirittura mandano in frantumi, quella che è chiamata normalità che, pur non essendo assolutamente uguale in tutto il mondo, è sempre la prima cosa che viene insegnata dappertutto fin dalla nascita.

La cosiddetta normalità è l’insieme delle regole che ogni comunità si dà per indurre a un certo tipo di convivenza e, quindi, la follia può essere pensata anche come la determinazione a non seguire le norme comunemente accettate. Poi, se questa insofferenza alle regole comuni non dà fastidio a nessuno e magari produce illuminazioni capaci di cambiare in meglio il mondo, l’autore può addirittura essere celebrato con l’appellativo di “genio e sregolatezza”.

Un caso emblematico è rappresentato da Albert Einstein che ha avuto il coraggio di considerare non del tutto esatta la legge newtoniana della gravitazione universale e ha elaborato la teoria della relatività che sembra astrusa e lontana da chiunque non pratichi la fisica teorica, ma che in realtà è ormai ben presente in gran parte della nostra vita quotidiana.

Quindi la follia può essere una malattia, ma anche una diversità. Non sono uno psichiatra e, quindi, non mi azzardo a entrare nel campo delle patologie individuali. Mi interessa, invece, tentar di capire meglio i meccanismi che portano a quella che ormai sempre più spesso si sente definire “società impazzita” e per fare questo è inevitabile partire da un’analisi di come le regole delle comunità sono definite, tramandate e, alla fine, rispettate, oppure ripudiate.

A rimarcare la differenza nella valutazione, a livello individuale e collettivo, di quella che può essere definita subdola follia, può essere d’aiuto una frase scritta da Friedrich Nietzsche in “Di là del bene e del male”: «La follia è molto rara negli individui, ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola».

Anche qui gli esempi si sprecano. Prendiamo quelli più clamorosi: per i cattolici la vita è sacra, tanto da considerare abominevole l’aborto anche nei casi in cui si darebbe vita a esseri senza alcuna possibilità di sopravvivenza; eppure in vari periodi storici (Crociate e Inquisizione, tanto per citare due casi) e anche nel presente (gli attentati mortali contro i centri per l’aborto) si è considerato l’omicidio del tutto legittimo, se non addirittura meritorio. E la stessa cosa è accaduta – e accade ancora – per i musulmani. Intere nazioni, poi, hanno accettato come normalità quello che fino a pochi mesi prima era considerata un’assurdità criminale: potrebbe essere sufficiente citare la Germania nazista, ma in tutte le dittature, pur con sfumature e metodi diversi, è successa la stessa cosa.

Detto che in nessuna parte del mondo c’è mai stata una totale uniformità di comportamento e di valori, non può non balzare agli occhi che le follie collettive sono praticamente sempre state di tipo attivo, nel senso che hanno visto applicare violenze da un gruppo contro altri gruppi. Oggi, invece, le pazzie sono di forma passiva, quasi che il presente permetta di parlare di malattie mentali collettive, di vere e proprie epidemie i cui sintomi sono non soltanto la perdita di parametri e di regole comuni, ma anche una forma di debolezza e pigrizia: effetti gravi perché allargano la non partecipazione e, quindi, causano non solo il blocco dell’evoluzione sociale intesa come sommatoria di capacità e saperi diversi, ma eliminano anche gran parte della concorrenza permettendo ai meno dotati di issarsi fino a posti apicali e di rafforzare la loro immeritata posizione.

Pensateci: in questi ultimi decenni vere e proprie droghe letali hanno continuato a essere iniettate a dosi crescenti non solo nella nostra nazione. La propaganda ha permesso di far apparire normali alle menti torpide il disprezzo della legge; la contraffazione della storia; l’adulterazione della democrazia rappresentativa; la derisione del senso di responsabilità; l’illusione che tutti possano diventare ricchi e risolvere i loro problemi semplicemente partecipando a trasmissioni televisive; la parificazione dell’etica con la legalità  nei casi in cui si sia già riusciti a piegare la legalità ai propri voleri; la negazione delle differenze ideali tra destra e sinistra; la trasformazione dei cittadini in consumatori; la profanazione del vocabolario che finisce per far cambiare senso a parole come libertà, conservazione, riforme, democrazia, mercato; la metodicità con la quale pensiero critico, dissenso, libertà e anarchia sono avvicinati al terrorismo, se non addirittura identificati con esso; la distruzione di diritti fondamentali già conquistati; la mortificazione e la progressiva delegittimazione delle istituzioni; l’indifferenza, se non il piacere, con cui si guarda all’allontanamento sempre più diffuso dalla politica, anche nella sua forma meno impegnativa: il voto. E quasi nessuno reagisce.

E così abbiamo assistito a eventi che soltanto qualche decennio fa sarebbero apparsi come il parto di menti eccessivamente fantasiose. Putin che invade l’Ucraina e che è convinto di evitare ritorsioni soltanto imponendo di chiamare “operazione speciale” quella che in realtà è una vera e propria guerra. Berlusconi che riesce a comandare alla sua parte del Parlamento di confermare con un voto in aula che Karima El Mahroug, meglio conosciuta come “Ruby Rubacuori”, assidua partecipante alle “cene eleganti” di Arcore, era la nipote di Mubarak, mentre tutti sapevano che si trattava di una bugia assoluta. Oggi stanno cercando di convincere gli italiani che gli innegabili difetti della democrazia rappresentativa, ingigantiti scientemente proprio da chi non la sopporta, possono essere eliminati soltanto con un sistema maggioritario che porti al potere di una sola persona, o di un unico gruppo, per ottenere quella che chiamano governabilità, parola che, anche se a prima vista può non sembrare, da sempre ha fatto rima con autoritarismo, o, addirittura, con dittatura.

La propaganda, insomma, è diventata una scienza talmente approfondita ed efficace che il concetto di sregolatezza è passato dagli esseri umani alle stesse regole.

Ma se questa è una malattia mentale, come si può tentare di curarla? Quale può essere la terapia? Non è facile individuarla, ma probabilmente bisognerebbe agire prioritariamente sulla prima regola della propaganda che ci ha portato in questa drammatica situazione e cioè al fatto che sempre, in ogni frangente i cittadini sono indotti a pensare soltanto al presente, dimenticando il passato e trascurando il futuro perché è proprio l’assenza della memoria e della progettazione a restringere drammaticamente il campo nel quale il pensiero critico potrebbe esprimersi. E poi mettendo bene in chiaro che la distruzione sempre più vasta di ogni associazionismo e di ogni senso di solidarietà civile non valorizza assolutamente l’individuo, ma anzi ne polverizza ulteriormente l’autonomia che spesso, per rafforzarsi, ha proprio bisogno di sentire la consonanza con altri.

Insomma, la sregolatezza applicata alle regole dovrebbe ritrovare la sua posizione naturale: quella all’interno di ogni essere umano, non come pretesa follia, ma come inevitabile frutto della nostra natura: il cercar di conoscere per poi ragionare e scegliere.

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martedì 13 giugno 2023

Il rispetto e il lutto

Il silenzioso rispetto per una persona che ha cessato di vivere non sempre corrisponde al lutto che normalmente si prova per un parente, un amico, un qualcuno che è stato un punto di riferimento. Un lutto nazionale, poi, è ancora più raro perché vorrebbe dire che un’intera nazione si sente affranta per la morte del personaggio per il quale il lutto nazionale viene dichiarato.

Non per nulla la concessione dei funerali di Stato è regolata da un’apposita legge, mentre la dichiarazione del lutto nazionale, dovendo essere valutata attentamente nel suo significato più profondo, è demandata alla presidenza del Consiglio.

Ma quando questa prassi è stata stabilita nessuno si azzardava a pensare che anche questo sarebbe diventato oggetto di propaganda politica. Invece, dopo che mai negli ultimi trent’anni il lutto nazionale è stato dichiarato per un ex presidente del Consiglio che non fosse stato anche Presidente della Repubblica, Giorgia Meloni ha deciso di concedere questo onore a Silvio Berlusconi, uomo politico più che discusso e anche condannato in via definitiva per frode fiscale.

Una scelta quanto meno discutibile, ma più che comprensibile per una maggioranza che aveva avuto la faccia tosta di votare nelle aule parlamentari l’evidentemente falsa attestazione che “Ruby Rubacuori” era davvero la nipote di Mubarak.

Del resto, fregandosene di almeno metà degli italiani che per Berlusconi non hanno avuto la minima consonanza politica ed etica, questa maggioranza lo ha sempre visto come “padre della patria”. Una patria evidentemente molto diversa dalla mia e di altri milioni di italiani.

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domenica 28 maggio 2023

Il monopolio della violenza

Assaporate, per favore, questa frase: «Lo Stato ha il monopolio della violenza, può e deve usarla». L’ha pronunciata Italo Bocchino (che sollievo non dover più accostare l’appellativo “onorevole” al suo nome), attuale direttore del Secolo d’Italia, una volta quotidiano del Movimento Sociale Italiano e oggi, solo on line, di Fratelli d’Italia. Pur avendo suscitato scarse reazioni sugli organi di stampa, è stata pronunciata nella trasmissione “Piazza pulita”, su La7, mentre si stava discutendo su un servizio che aveva presentato dei tremendi filmati di violenze fisiche e mentali ripresi nel CPR di Gradisca in cui in questi ultimi anni almeno quattro prigionieri si sono tolti la vita.

 

Vi ho chiesto di assaporarla perché il sapore che una frase simile ci lascia non può che essere simile a quello che lascia in bocca una vera e propria schifezza, per non dire di peggio. Ma ora vi chiedo anche di analizzarla prestando molta attenzione alle parole usate da Bocchino. Parole che, essendo Bocchino praticamente il portavoce ufficiale della Meloni e rappresentandola quasi in ogni talk show, non possono essere state usate a caso e neppure con disattenzione. 

 

Indubitabilmente ha scelto il vocabolo “violenza” e non “forza”, sia perché le immagini appena viste erano, appunto, violente, sia in quanto, mentre la forza può essere graduata nella sua applicazione, la violenza è sempre al massimo della scala e, quindi, automaticamente si sottrae a qualsiasi tipo di giudizio che non sia di totale accettazione, o di totale rifiuto.

E altrettanto sicuramente ha usato il vocabolo “monopolio” e non la locuzione “diritto all’uso”, in quanto, secondo lui, monopolio non significa soltanto che lo Stato è l’unico soggetto a poter usare questa potestà esclusiva, ma anche che può scegliere come e quando applicarla sentendosi comunque, in ogni caso, pienamente autorizzato a farlo. Non credo proprio che sia un caso che al G8 di Genova, alla caserma Diaz, polizia e carabinieri dovessero rispondere agli ordini di Gianfranco Fini, allora segretario di Alleanza Nazionale e punto di riferimento politico di Bocchino.

Per il resto su quello che accade a Gradisca, non ha detto praticamente nulla, sforzandosi di travisare il fatto concreto che la maggior parte dei migranti reclusi in quella fattispecie di carcere non ha mai commesso reati, ma è responsabile soltanto di irregolarità amministrative e ripetendo che la nascita dei CPR è ascrivibile a Napolitano e che nel loro terribile sviluppo hanno influito pesantemente sia Renzi, sia Minniti. Che il PD debba vergognarsi di questo e che già lo abbia pagato pesantemente in termini di elettori che hanno abbandonato quel partito, o addirittura la voglia di votare è indubitabile. Ma altrettanto indubitabile è il fatto che la destra di Meloni e Salvini, ben lungi dal tentare di migliorare la condizione dei migranti, tenta di rendere più difficile la loro vita e di impedire l’azione dei soccorritori, aumentando i CPR, imponendo limiti numerici agli aiuti da portare e imponendo trasbordi via mare prima di consentire gli sbarchi di quelli salvati dall’annegamento.

Aggiungete l’imposizione di Chiara Colosimo, amica di Luigi Ciavardini, o almeno a lui vicina, condannato per la strage di Bologna, a capo della Commissione antimafia; ascoltate il ministro Francesco Lollobrigida che sostiene che il presidente Mattarella non si riferiva a lui, che pur era stato l’unico in questi ultimi mesi a evocare le parole “razza” ed “etnia”, quando ha affermato che i diritti inalienabili dell’uomo vanno applicati a ogni singola persona e non a etnie o a gruppi di vario genere; pensate a quello che sta succedendo nella Rai. E allora ditemi se non vi viene da ridere, sia pure molto amaramente, quando sentite qualcuno dire che non c’è alcun pericolo che il fascismo ritorni.

Quel qualcuno ha ragione perché, in realtà, il fascismo non se ne è mai andato davvero. 

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