venerdì 1 settembre 2023

Parole da riscoprire: piazza

In poche cose come nel linguaggio della politica ci si accorge di come cambiano – o, meglio, vengono cambiati – i significati delle parole. Prendiamo come esempio il sostantivo piazza che non molti decenni fa era considerato un luogo di ritrovo naturale e che oggi, invece, assume un senso di minaccia, o che addirittura richiede giustificazioni. I meno giovani ricorderanno certamente che cortei e manifestazioni erano parte integrante della vita sociale di ogni Paese democratico e si rendono conto che oggi tutto è cambiato.

Ivan Pedretti, segretario generale della Cgil pensionati afferma minaccioso: «Il governo vuole usare le pensioni come bancomat, ma stavolta scendiamo in piazza». E Maurizio Landini, il leader della Cigl, pur sempre molto deciso nell’esprimere il proprio sentire, si sente quasi in dovere di difendersi quando, davanti all’affermazione della destra «Protesta ancora prima di sapere quale sarà la nostra proposta di legge finanziaria», giustifica la decisione di proclamare sciopero e manifestazione per il 7 ottobre dicendo che «noi non è soltanto che protestiamo, ma abbiamo delle nostre proposte e vogliamo farle conoscere».

Conviene analizzare questo cambiamento semantico del significato di piazza. Nata nell’antica Grecia come “agorà” (da “aghéiro”: raccolgo, raduno), la piazza principale della “polis” è fondamentale nelle prime democrazie dirette per consentire alla popolazione di radunarsi, discutere e poi votare. Anche a Roma, pur se si vota di meno, la piazza serve per dare vita ai comizi, cioè ad assemblee pubbliche di patrizi e plebei assieme, le cui competenze vanno sempre più scemando. Agli albori del Medioevo, in Italia, la piazza diventa luogo di riunioni, spettacoli, prediche, cerimonie, processioni, esecuzioni, ma anche di attività commerciali e di comunicazioni pubbliche. Soltanto raramente di discussioni; praticamente mai di votazioni.

Poi, con la rivoluzione francese, la piazza torna ad animarsi, ma comincia ad assumere le caratteristiche moderne che prescindono dai concetti politici di destra e sinistra, ma si radicano nelle forme di governo: in quelle autoritarie le piazze si riempiono soltanto nel caso la folla sia plaudente; nelle democrazie quasi esclusivamente per dimostrare un dissenso nei confronti dell’operato del governo in carica. Implicitamente questo fa arrivare alla conclusione che se le piazze non si riempiono per accogliere forme di protesta, questo vuol dire che la democrazia sta attraversando un momento di crisi e non è casuale che dappertutto l’assenza di proteste di massa coincida con un drastico calo delle percentuali dei votanti nelle varie consultazioni elettorali.

La sempre più diffusa crisi delle democrazie rappresentative, infatti, non dipende tanto da un logoramento di sistemi e regole della convivenza civile, ma proprio da una sempre più marcata carenza di partecipazione che rende enormemente più facile imporre, per chi ha il potere in mano, i propri valori, o le proprie mire economiche e sociali. E, dopo anni e anni di esperienza, si può ben dire che le cosiddette “piazze virtuali” non sono soltanto dei pallidi succedanei delle antiche riunioni di massa, ma sono delle vere e proprie truffe.

Nelle piazze, infatti, ci si conosceva, ci si parlava, si discuteva, ci si rendeva conto di non essere soli, ma di far parte di una comunità che aveva delle dimensioni che spesso erano davvero ragguardevoli. E di queste dimensioni si rendevano conto anche coloro che occupavano la stanza dei bottoni e che, soprattutto in presenza di sistemi elettorali proporzionali, erano molto sensibili alla possibile perdita di qualche punto percentuale nel computo dei voti e, quindi, un po’ più disposti a ragionare sulle necessità manifestate da fette di cittadini che ci mettevano la faccia e non restavano praticamente anonimi dietro gli schermi di computer, tablet e telefonini.

Viene quasi il sospetto che l’uso dei social sia visto con grande favore, se non addirittura sponsorizzato, soprattutto da coloro che desiderano non essere seccati; non tanto dalle opposizioni parlamentari, cristallizzate nelle loro dimensioni per un lustro, ma soprattutto dalle resistenze popolari.

Ed è vacua la ripetuta giustificazione che è stata la tecnologia a rovinare in tanti aspetti la nostra società: la tecnologia dovrebbe aiutare, non rovinare e comunque sta agli esseri umani la decisione del se e del come utilizzare le novità che il progresso ci mette a disposizione. I colpevoli restiamo sempre noi, sia nell’usare scriteriatamente i mezzi che abbiamo a disposizione, sia nel far finta di non accorgerci che lo stanno facendo altri.

Ma una speranza c’è perché le piazze sono ancora là e sta a noi il compito – anzi, il dovere – di non lasciarle desolantemente vuote, ma di riempirle quando sentiamo che c’è qualche ingiustizia da rifiutare. E questo va fatto insieme, vedendo e sentendo fisicamente che non si è soli e non soltanto immaginandolo con la lettura di qualche frasetta, o addirittura di semplici like, sullo schermo di uno dei tantissimi mezzi di comunicazione che spesso ci siamo illusi che potessero sostituire il complesso della nostra umanità.

1 commento:

  1. Caro Giampaolo, come sempre è difficile darti torto. La tua analisi è preziosa per fare risvegliare le coscienze e o comportamenti...

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