venerdì 21 febbraio 2020

Zora e la storia a metà

Il giorno della memoria è fissato il 28 gennaio, data in cui l’esercito sovietico è entrato nel campo di sterminio di Auschwitz, ormai libero dai nazisti già fuggiti, e ha avuto il primo, drammatico contatto diretto con la Shoah. Ma poi nei Lager si è continuato a morire ancora, o perché in quelli dove ancora sventolava la croce uncinata i volonterosi carnefici di Hitler continuavano a infierire sui prigionieri, o in quanto, nei Lager già liberati, uomini, donne e bambini non riuscivano a recuperare dopo essere stati indeboliti da malattie e denutrizione.
 
È stato questo, ma in un Lager ancora in mano ai nazisti, il destino di Zora Perello (nella foto), triestina, nata da padre calabrese e madre slovena, morta a Ravensbrück il 21 febbraio del 1945, esattamente 75 anni fa, quando non aveva ancora compiuto 23 anni. Antifascista fin da giovanissima, si oppose alle discriminazioni fasciste contro gli sloveni e, arrestata per la sua attività politica a 18 anni mentre era a scuola al liceo classico, restò in prigione fino all’ 8 settembre 1943. Arrestata di nuovo dalla Gestapo e torturata da nazisti e fascisti, è stata deportata a Ravensbrück da dove non è mai più uscita.

Di questa storia, una delle tante ormai dimenticate dai più, in questa sede non si può, per ragioni di spazio, dare un resoconto completo che, invece, meriterebbe di essere letto nel libro “Zora – Una storia della Resistenza”, scritto da Lida Turk, programmista della sede Rai slovena del Friuli Venezia Giulia scomparsa nel 2015, e pubblicato dapprima in sloveno e poi in italiano per i tipi della ZTT - Editoriale Stampa Triestina. Ma dalla vicenda di Zora si possono comunque trarre necessari insegnamenti.

Il primo è che troppo spesso dimentichiamo parti apparentemente piccole, ma in realtà fondamentali, della storia e lo facciamo, o per colpevole distrazione, o per ancor più colpevole vergogna. Molto spesso, infatti, più o meno inconsciamente finiamo per relegare nell’oblio i fatti di cui più ci vergogniamo, o che comunque che vanno a intaccare la purezza del racconto della storia che ci siamo costruiti. La vicenda di Zora, per esempio, non solo non è conosciuta, ma è addirittura rifiutata da coloro che ancora oggi vanno in giro tracciando svastiche e scritte antisemite e intolleranti in genere.

Perché il problema non è quello di arrivare a un’impossibile condivisione della storia, ma quello di rinunciare a pretendere di trasformare la storia in un’unica storia, creando così degli stereotipi il cui problema non è tanto quello di derivare da una storia falsa, ma da una storia incompleta. Se noi operiamo in questa maniera, finiamo per tentare di semplificare una realtà inevitabilmente complessa, di vedere il mondo attraverso un unico punto di vista che quasi sempre non ci siamo neppure costruiti da soli, ma che abbiamo ereditato da insegnamenti altrui.

E quando ci troviamo tra le mani una pur piccola dose di potere crediamo – come ha scritto Chimamanda Ngozi Adichie – di avere «la possibilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di farla diventare la storia definitiva di quella persona». E, quindi, addirittura di cancellare quella storia come troppi hanno fatto per Zora Perello.

Giustamente il circolo del PD dell'altipiano triestino tenta di opporsi a queste manipolazioni ricordando «la  crudele stagione delle foibe e gli anni sofferti dell’esodo» il cui racconto è usato dalla destra soltanto per tentare di criminalizzare la lotta dei popoli europei contro il naifascismo e i suoi crimini tentando di «incidere sulla coscienza storica dell’intero Paese» senza alcun rispetto per la memoria di chi ha sofferto e rilancia l’impegno di convivenza in un momento in cui c'è «una recrudescenza senza precedenti di azioni anti-semite e di apologia del fascismo». E, infatti, tutti devono avere piena coscienza che vorrebbero cancellare l'orrore della Shoah e dei Lager mescolandolo con l'atrocità delle foibe, come se due orrori potesseero elidersi a vicenda, mentre, invece, finiscono per sommarsi proprio come in matematica dove la somma di due numeri negativi dà un risultato che è ancora più negativo dei due addendi separati.

Il secondo insegnamento è quello che, quando finalmente riusciamo ad avere rispetto della storia, non possiamo non renderci conto che, come ha cantato Francesco De Gregori, «la storia siamo noi; nessuno si senta escluso». Siamo noi, tutti noi, per essere chiari che siamo responsabili degli orrori che hanno insanguinato e che continuano a insanguinare il mondo. Siamo stati noi, intesi come popolazione che magari si ritiene benpensante, che tra il 1920 e il 1922 ha permesso che Mussolini prendesse il potere perché sicuramente spettava a qualcun altro di opporsi alle sue prepotenze, o perché dove vuoi che vadano? Chi mai potrebbe dare credito a quei violenti vestiti di nero? Come ha scritto Albert Camus ne “L’uomo in rivolta”, «l’uomo non è del tutto colpevole, poiché non ha cominciato la storia; né del tutto innocente, perché la continua».

E non pensiamo che la storia, come è accaduto a Zora, si possa fare soltanto nei momenti più drammatici, magari con il sacrificio della vita. La storia la si fa sempre e, anzi, la si può fare meglio quando le possibilità di manovra e di correzione sono ancora ampie; quando la democrazia non è ancora soffocata dalle voglie di dispotismo; quando potremmo ancora cercare e scegliere il meglio senza rassegnarci a votare soltanto il meno peggio.

È possibile che a settantacinque anni da quel sacrificio siamo ancora costretti a dover scegliere tra gli egocentrismi megalomani di Matteo Renzi, l’interessata crudeltà di Matteo Salvini, l’ignoranza assoluta di Luigi Di Maio, il fascismo sempre meno dissimulato di Giorgia Meloni, l’incapacità di scegliere con decisione un ideale sociale da parte del PD che, almeno, è l’unico schieramento politico che non ha accettato di scomparire dietro al nome di un suo leader, o, ancora, una sinistra teoricamente più identificata, ma sempre pronta a dividersi ulteriormente, o – e questo è ancora più doloroso – a scappare sotto altre egide?

Se dobbiamo scegliere il male minore non ho il minimo dubbio su quale simbolo tracciare la mia croce, ma è possibile che dobbiamo rassegnarci a questa situazione? È mai accettabile che non si possa creare qualcosa che davvero sia in grado di ridonarci qualche speranza?

Probabilmente l’unica strada è proprio quella di tornare a parlare chiaramente, come Zora ha fatto anche in epoche terribili, delle idee in cui crediamo. E, tanto per cominciare, dire che non si può votare sì a un referendum che si svolgerà tra poco più di un mese e del quale nessuno parla perché tutti sanno che, se la legge non sarà abrogata, per ottenere un irrisorio risparmio e un po' di propaganda, ne sarà indebolita la democrazia e fortemente compromessa la rappresentanza. E non se ne parla perché i 5stelle lo sostengono perché è stata una loro bandiera e gli altri non si oppongono in quanto temono di non essere sufficientemente populisti e, quindi, non in sintonia con quella che ritengono essere la moda che informa in questo periodo una consistente parte dell'elettorato.

La storia si fa anche e soprattutto in questa maniera: combattendo per le proprie idee anche se si sa che in parte con poche speranze di vincere al primo colpo. Ma anche nel 2016 tutto era cominciato così.

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sabato 15 febbraio 2020

Regole e lontananze

So molto bene che la politica è l’arte della mediazione e che la prima regola – soprattutto in un sistema elettorale proporzionale e con la necessità di creare governi di coalizione – è l’obbligo di usare mielati giri di parole anche per dire le cose più indigeribili nei confronti di un avversario politico che, però, di lì a qualche giorno potrebbe diventare un alleato contro altri nuovi avversari momentaneamente più sgraditi, o inutili, per arrivare all’obbiettivo che ci si è prefissi.

So anche benissimo che – seconda regola fondamentale – sarebbe sicuramente sbagliato stigmatizzare in maniera troppo decisa i comportamenti di chiunque non si trovi proprio all’estremità opposta del nostro sentire etico e politico. E anche in questo caso la politica italiana ha insegnato che in quell’ambiente non esistono regole che non siano sovvertibili da enormi eccezioni: i più anziani ricorderanno il caso del democristiano Silvio Milazzo che nel 1958, contro il candidato ufficiale del suo partito, fu eletto presidente della Regione siciliana con i voti del PCI e del MSI che entrarono anche nella sua giunta «in nome – dissero i segretari regionali dei due partiti – dei superiori interessi dei siciliani».

So perfettamente, però, che non mi sono mai iscritto a un partito politico, né mai ho voluto accettare candidature di sorta proprio perché sono totalmente incapace di seguire le due regole che ho appena esposto. Quindi, mi sento assolutamente libero di dire che se Matteo Salvini mi è del tutto alieno per quel sovranismo e quel razzismo che sono lontanissimi dal mio sentire, anche Matteo Renzi mi è totalmente indigeribile, visto che, a distanza di tre anni dal referendum che avrebbe potuto stravolgere la Costituzione e che lui ha voluto trasformare – perdendolo – in un referendum su se stesso, il suo modo di essere non è minimamente cambiato visto che ogni sua mossa apparentemente politica è, in realtà, soprattutto personale. E questo, a qualsiasi livello, dalle comunali in su, per me è indigeribile.

Il leader di Italia viva – nome strano, forse nostalgico di un periodo che sembra soltanto un ricordo – sta dimostrando ancora una volta che l’unico suo interesse è la gestione del potere e, come il 14 febbraio del 2014 ha portato alle dimissioni Enrico Letta dopo il famigerato «Enrico, stai sereno», ieri – forse San Valentino lo ispira – ha voluto attaccare non tanto Conte, ma quel governo che Renzi stesso ha voluto far nascere evidentemente non tanto con lo scopo di tenere lontano da Palazzo Chigi Salvini e la sua smania di “pieni poteri”, ma con la mira di porre le basi per riuscire ancora una volta a far valere la sua determinante, pur se scarsa, forza di voti parlamentari al fine di arrivare di nuovo lui stesso al vertice del governo, o, almeno per farci arrivare qualcuno che, per gratitudine o costrizione, finisca per fare quello che desidera lui.

Può apparire strano che, in una graduatoria di lontananza, io possa mettere sullo stesso piano Salvini e Renzi, nella foto assieme in una serata a Porta a porta, mentre della Meloni mi sembra addirittura superfluo parlare e dei 5stelle mi appare ormai inutile. Ma se di Salvini e dei suoi non riesco a sopportare la puzza di fascismo, di Renzi mi è del tutto indigesta la spregiudicatezza con cui agisce e cambia strada – parlare per lui di ideali mi sembra estremamente difficile – non appena gli sembra più redditizio farlo. Ricordiamo l’agguato al compagno di partito Enrico Letta; l’eliminazione, dopo essere riuscito a diventarne segretario, del concetto di sinistra in un partito che alla sinistra in gran parte si richiamava; la spinta a creare un governo con i 5stelle per poi, dopo essere uscire dal PD, restare formalmente in maggioranza, ma minarlo nelle fondamenta non appena la sue spinte non sono state accettate. E questi non sono gli unici episodi che raccontano di come quest’uomo sia riuscito ad avvelenare la politica italiana, a ridurre ulteriormente in macerie la sinistra e a rendere molto più complicato e precario il divenire del nostro Paese.

Dopo aver annunciato la richiesta di sfiducia per il ministro Bonafede, ha fatto esultare l’intero schieramento sovranista – che sostiene stia già dialogando con Salvini – dichiarando a “Dritto e Rovescio”, trasmissione di punta della destra: «Ci sono diverse possibilità: mettersi a lavorare, o che si apra la crisi e ci sia ancora un altro Governo, o il voto. L’importante è che, dopo il voto, qualcuno vinca e governi 5 anni». Con il suo appoggio, ovviamente, fino a quando quel qualcuno farà esattamente quello che dice lui. Se non accadrà, reciterà ancora, assumendo la faccia di colui che vuol far credere di essere sul punto di essere cacciato, mentre in realtà, è lui a voler cacciare chi non appoggia i suoi desideri.

E il destino della democrazia italiana e del popolo che a questa si aggrappa? Del tutto secondario.

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martedì 11 febbraio 2020

Tolleranza e intolleranti

La questione, tornata prepotentemente di attualità con il moltiplicarsi delle azioni razziste contro ebrei, neri, diversi in genere, era già stata messa perfettamente a fuoco nel 1945 da Karl Popper nel suo “La società aperta e i suoi nemici”: «La tolleranza illimitata – scriveva – porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo la tolleranza illimitata anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo preparati a difendere una società tollerante dall’assalto dell’intollerante, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con loro».
E allora le domande successive sono spontanee e inevitabili: il sistema democratico può consentire che, al proprio interno, si sviluppi un attacco al sistema democratico? E se lo stato di diritto non consentisse ai propri nemici di esercitare la critica più radicale, resterebbe uno stato di diritto? Sembra quasi che la condanna a morte delle democrazie sia già scritta: o muoiono perché cancellate da un autoritarismo, o cessano di esistere in quanto subiscono una mutazione che le stravolge profondamente. Del resto, l’intolleranza contro gli intolleranti tende a censurare, la censura nasconde le ragioni altrui e, quindi, fa crescere l’intolleranza stessa e innesca un circolo vizioso molto difficile da interrompere e che troppo comodamente saremmo tentati di liquidare definendolo un paradosso.

Se, poi, alle considerazioni di Popper a guerra appena finita, aggiungiamo quella potente accelerazione impressa da internet e dall’assoluta mancanza, non soltanto di censura, ma addirittura di quel semplice controllo antitruffa non previsto dalle legislazioni attualmente in vigore nelle nazioni democratiche, ci si rende conto che la situazione sta diventando di una gravità terribile. La campagna d’odio portata avanti da Salvini è un esempio di come l’intolleranza può diventare efficace propaganda; l’alleanza più che possibile – a Udine è già realtà – tra Lega, Fratelli d’Italia e partiti che si rifanno esplicitamente al fascismo è già diventata terrificante realtà politica.

L’argomento è difficile e scivoloso, ma davanti all’incitamento all’odio e al fatto che questo sprone sta dando frutti sempre più frequenti, visibili e pericolosi, muoversi diventa un dovere e credo che sia possibile farlo senza abbassarsi agli infimi livelli di coloro che tracciano ancora croci uncinate, urlano vergognosi slogan fascisti, o si scagliano fisicamente contro coloro che magari sono anche italiani, ma hanno pelle, lingua, religione, abitudini di vario tipo diverse da quell’assurdo prototipo che esiste nella testa di coloro che emettono flatulenze intellettuali sul tipo di «Prima gli italiani», o i settentrionali, o altre sempre più piccole e comode parcellizzazioni.

Credo siano soprattutto due le strade da seguire, in special modo ora che i testimoni diretti sono quasi del tutto scomparsi e confondere la storia può apparire più semplice.
 

La prima via è quella di bandire e far bandire il sentimento di insensibilità, noncuranza, voglia di voltare il capo dall’altra parte davanti alle brutture che appaiono quotidianamente davanti ai nostri occhi. Non per nulla Liliana Segre ha voluto che fosse la terribile parola “INDIFFERENZA” a dominare, a caratteri enormi, il Binario 21, quello da cui partivano i treni piombati diretti verso i campi di sterminio, che è diventato il vero Memoriale della Shoah di Milano.

La seconda via è quella di ricordare che accanto ai diritti esistono anche i doveri che dai primi non sono separabili, perché soltanto da un loro equilibrio può nascere e poi continuare a esistere la convivenza civile che, al suo massimo grado, diventa democrazia. Nella nostra Costituzione, per esempio, l’articolo 21 recita: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi». È la legge, insomma, a essere chiamata ad armonizzare i diritti con quei doveri che sono stabiliti proprio per difendere i diritti; a difendere i principi di uguaglianza e di non discriminazione, anche attraverso la limitazione di alcune libertà, laddove il loro esercizio illimitato costituisca una minaccia per i diritti altrui e, quindi, per i valori democratici su cui lo Stato di diritto si fonda e per i cittadini che a quello Stato danno vita.

È questo lo strumento che può e deve spezzare quel circolo vizioso che, da possibile, purtroppo ci appare sempre più concreto. È questo, assieme alla diffusione della conoscenza e della cultura, il modo per agire attivamente in modo da prevenire il diffondersi dell’odio e dell’indifferenza, da annichilire vecchie e nuove forme di discriminazione.

Perché è questa la priorità di ogni sistema democratico. Altrimenti prende corpo l’ammonimento scritto da Primo Levi: «È accaduto una volta; dunque può ripetersi».

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lunedì 10 febbraio 2020

Quei monconi di svastica

A San Daniele hanno appiccicato un cuore di carta di colore rosso fuoco sopra una svastica nera tracciata con un pennarello grosso sul muro esterno della casa in cui ha abitato da bambina Arianna Szörenyi, deportata a undici anni nei Lager nazisti e poi fortunatamente tornata in Italia con la sorella – due vive su nove deportati della famiglia – a raccontare a tutti l’irracontabile orrore della Shoah. Poche ore dopo il comune di San Daniele ha deciso di cancellare tutto, togliendo il cuore e ridipingendo il muro di bianco.

È una storia emblematica di come le simbologie possano essere importanti, ma possano anche rivelarsi fuorvianti se si va di fretta, se non le si analizza con la dovuta attenzione. Un cuore posto sopra una svastica, per esempio, è un simbolo bellissimo, ma anche pericolosissimo. Bellissimo perché vuole affermare che il bene prevale sul male e che può farlo senza abbassarsi al livello di chi il male lo pratica con convinzione. Pericolosissimo, in quanto, oltre a farci illudere che inevitabilmente l’amore sia destinato a vincerla sull’odio, ci fa commuovere e il velo di graditissime lacrime che ci inumidiscono il ciglio ci rende un po’ più arduo vedere che la realtà è ben diversa dall’illusione.

Non so se quella di sovrastare la svastica con un cuore sia stata una scelta ragionata, oltre che assolutamente benemerita, ma la decisione di non coprire completamente l’orrendo simbolo del nazismo e di lasciarne apparire ancora i quattro monconi, ha anch’essa un alto significato simbolico perché ci ricorda che i buoni sentimenti sono fondamentali e sono alla base di tutto, ma anche che da soli non possono bastare: per cancellare anche quei monconi occorrono ancora molte altre cose: cultura, solidarietà sociale, apparati legislativi e volontà di metterli in pratica.

Quando il padri costituenti, hanno scritto la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione – «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» – non pensavano certamente che sarebbe venuto al mondo un idiota che pensasse di poter fondare letteralmente un nuovo Partito nazionale fascista: ovviamente pensavano, con quel «sotto qualsiasi forma», a ogni possibile azione volta a porre le basi per la rinascita di un’organizzazione politica che, pur sotto nome diverso, avesse le stesse basi autoritarie, antidemocratiche e discriminatorie che hanno dominato l’Italia per un orribile ventennio. E oggi ci appare un po’ strano leggere di sentenze nelle quali si stabilisce che il saluto romano è legittimo, che è lecito festeggiare con canti, labari e lugubri cortei il compleanno di Mussolini, mentre sventolano bandiere della Repubblica sociale italiana, quella nazista ancor più che fascista. E anche vedere che alle elezioni si presentano partiti ben attenti a non usare la parola “fascio” o derivati nel proprio nome, ma esplicitamente orgogliosi di proclamarsi eredi di una dittatura schifosa. E constatare che ci sono altri partiti che, se conviene, a questi si alleano.


Anche per questo avrei preferito che quel cuore che vuole cancellare la svastica fosse rimasto visibile un po’ più a lungo. Molte volte – e spero che questa non si aggiunga a tante altre – cancellare è sinonimo di dimenticare. E dimenticare non soltanto non si deve, ma davvero non si può. Perché il fascismo è stato le leggi razziste del ’38, presupposto alla deportazione nei campi di sterminio di uomini e donne, bambini e anziani; è stato le spedizioni di aggressione coloniale con il primato mondiale del primo uso di gas venefici in guerra; l’ingresso in guerra a fianco dell’orrore nazista; l’uccisione di Matteotti, dei fratelli Rosselli, di Amendola e di tanti dissidenti; l’invio al confino di molti che si opponevano perché si rifiutavano di smettere di pensare; è stato la soppressione della libertà di stampa, l’eliminazione della maggior parte dei diritti civili, la dissuasione violenta nei confronti del libero pensiero. Perché il fascismo è stata la negazione dell’umanità mentre la Resistenza, di quella stessa umanità, è stata la più alta affermazione laica.

Si avvicina il 25 aprile ed è il caso di ricordare ancora una volta, proprio sotto la spinta dei vigliacchi di San Daniele, che la Liberazione non è mai stata, né mai sarà una festa “di” tutti perché non tutti hanno accettato quella che è stata una lotta “per” tutti. Si dirà che in quel giorno bisogna cercare la riconciliazione nazionale. D’accordo! Ma una volontà di pacificazione non può vivere sulla mascalzonaggine; può smussare certi spigoli, ma non può colmare abissi.

Già si sentono le voci che diranno che in quel giorno non bisogna fare politica. Ma essere antifascisti è fare politica; credere nella democrazia è fare politica; non mediare su certi principi è fare politica; ricordare che l’articolo 1 della Costituzione nata dalla Resistenza pone il lavoro a fondamento di tutto è fare politica; ribadire che la preminenza spetta sempre ai bisogni degli uomini e non a quelli dei bilanci è fare politica; celebrare il 25 aprile con i ragazzi, affinché tutte le generazioni siano consapevoli della nostra storia e diventino, prima che sia troppo tardi, sensibili e attente a ogni pur minimo, ma progressivo degrado etico e democratico è fare politica; perché dire che l’indifferenza e il non prendere posizione, sono già complicità è fare politica.

E si dirà anche che fischiare chi tenta di sminuire il valore della Resistenza sarebbe un’inopportuna maleducazione istituzionale. Vero! Ma un’istituzione è ancora tale se fa di tutto per non esserlo? Anche un fischio può essere politica, se prefigura la ricerca del bene della polis.

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