Il
giorno della memoria è fissato il 28 gennaio, data in cui l’esercito
sovietico è entrato nel campo di sterminio di Auschwitz, ormai libero
dai nazisti già fuggiti, e ha avuto il primo, drammatico contatto
diretto con la Shoah. Ma poi nei Lager si è continuato a morire ancora, o
perché in quelli dove ancora sventolava la croce uncinata i volonterosi
carnefici di Hitler continuavano a infierire sui prigionieri, o in
quanto, nei Lager già liberati, uomini, donne e bambini non riuscivano a
recuperare dopo essere stati indeboliti da malattie e denutrizione.
È stato questo, ma in un Lager
ancora in mano ai nazisti, il destino di Zora Perello (nella foto),
triestina, nata da padre calabrese e madre slovena, morta a Ravensbrück
il 21 febbraio del 1945, esattamente 75 anni fa, quando non aveva ancora
compiuto 23 anni. Antifascista fin da giovanissima, si oppose alle
discriminazioni fasciste contro gli sloveni e, arrestata per la sua
attività politica a 18 anni mentre era a scuola al liceo classico, restò
in prigione fino all’ 8 settembre 1943. Arrestata di nuovo dalla
Gestapo e torturata da nazisti e fascisti, è stata deportata a
Ravensbrück da dove non è mai più uscita.
Di questa storia, una delle tante
ormai dimenticate dai più, in questa sede non si può, per ragioni di
spazio, dare un resoconto completo che, invece, meriterebbe di essere
letto nel libro “Zora – Una storia della Resistenza”, scritto da Lida
Turk, programmista della sede Rai slovena del Friuli Venezia Giulia
scomparsa nel 2015, e pubblicato dapprima in sloveno e poi in italiano
per i tipi della ZTT - Editoriale Stampa Triestina. Ma dalla vicenda di
Zora si possono comunque trarre necessari insegnamenti.
Il primo è che troppo spesso
dimentichiamo parti apparentemente piccole, ma in realtà fondamentali,
della storia e lo facciamo, o per colpevole distrazione, o per ancor più
colpevole vergogna. Molto spesso, infatti, più o meno inconsciamente
finiamo per relegare nell’oblio i fatti di cui più ci vergogniamo, o che
comunque che vanno a intaccare la purezza del racconto della storia che
ci siamo costruiti. La vicenda di Zora, per esempio, non solo non è
conosciuta, ma è addirittura rifiutata da coloro che ancora oggi vanno
in giro tracciando svastiche e scritte antisemite e intolleranti in
genere.
Perché il problema non è quello di
arrivare a un’impossibile condivisione della storia, ma quello di
rinunciare a pretendere di trasformare la storia in un’unica storia,
creando così degli stereotipi il cui problema non è tanto quello di
derivare da una storia falsa, ma da una storia incompleta. Se noi
operiamo in questa maniera, finiamo per tentare di semplificare una
realtà inevitabilmente complessa, di vedere il mondo attraverso un unico
punto di vista che quasi sempre non ci siamo neppure costruiti da soli,
ma che abbiamo ereditato da insegnamenti altrui.
E quando ci troviamo tra le mani una
pur piccola dose di potere crediamo – come ha scritto Chimamanda Ngozi
Adichie – di avere «la possibilità non solo di raccontare la storia di
un’altra persona, ma di farla diventare la storia definitiva di quella
persona». E, quindi, addirittura di cancellare quella storia come troppi
hanno fatto per Zora Perello.
Giustamente il circolo del PD
dell'altipiano triestino tenta di opporsi a queste manipolazioni
ricordando «la crudele stagione delle foibe e gli anni sofferti
dell’esodo» il cui racconto è usato dalla destra soltanto per tentare di
criminalizzare la lotta dei popoli europei contro il naifascismo e i
suoi crimini tentando di «incidere sulla coscienza storica dell’intero
Paese» senza alcun rispetto per la memoria di chi ha sofferto e rilancia
l’impegno di convivenza in un momento in cui c'è «una recrudescenza
senza precedenti di azioni anti-semite e di apologia del fascismo». E,
infatti, tutti devono avere piena coscienza che vorrebbero cancellare
l'orrore della Shoah e dei Lager mescolandolo con l'atrocità delle
foibe, come se due orrori potesseero elidersi a vicenda, mentre, invece,
finiscono per sommarsi proprio come in matematica dove la somma di due
numeri negativi dà un risultato che è ancora più negativo dei due
addendi separati.
Il secondo insegnamento è quello
che, quando finalmente riusciamo ad avere rispetto della storia, non
possiamo non renderci conto che, come ha cantato Francesco De Gregori,
«la storia siamo noi; nessuno si senta escluso». Siamo noi, tutti noi,
per essere chiari che siamo responsabili degli orrori che hanno
insanguinato e che continuano a insanguinare il mondo. Siamo stati noi,
intesi come popolazione che magari si ritiene benpensante, che tra il
1920 e il 1922 ha permesso che Mussolini prendesse il potere perché
sicuramente spettava a qualcun altro di opporsi alle sue prepotenze, o
perché dove vuoi che vadano? Chi mai potrebbe dare credito a quei
violenti vestiti di nero? Come ha scritto Albert Camus ne “L’uomo in
rivolta”, «l’uomo non è del tutto colpevole, poiché non ha cominciato la
storia; né del tutto innocente, perché la continua».
E non pensiamo che la storia, come è
accaduto a Zora, si possa fare soltanto nei momenti più drammatici,
magari con il sacrificio della vita. La storia la si fa sempre e, anzi,
la si può fare meglio quando le possibilità di manovra e di correzione
sono ancora ampie; quando la democrazia non è ancora soffocata dalle
voglie di dispotismo; quando potremmo ancora cercare e scegliere il
meglio senza rassegnarci a votare soltanto il meno peggio.
È possibile che a settantacinque
anni da quel sacrificio siamo ancora costretti a dover scegliere tra gli
egocentrismi megalomani di Matteo Renzi, l’interessata crudeltà di
Matteo Salvini, l’ignoranza assoluta di Luigi Di Maio, il fascismo
sempre meno dissimulato di Giorgia Meloni, l’incapacità di scegliere con
decisione un ideale sociale da parte del PD che, almeno, è l’unico
schieramento politico che non ha accettato di scomparire dietro al nome
di un suo leader, o, ancora, una sinistra teoricamente più identificata,
ma sempre pronta a dividersi ulteriormente, o – e questo è ancora più
doloroso – a scappare sotto altre egide?
Se dobbiamo scegliere il male minore
non ho il minimo dubbio su quale simbolo tracciare la mia croce, ma è
possibile che dobbiamo rassegnarci a questa situazione? È mai
accettabile che non si possa creare qualcosa che davvero sia in grado di
ridonarci qualche speranza?
Probabilmente l’unica strada è
proprio quella di tornare a parlare chiaramente, come Zora ha fatto
anche in epoche terribili, delle idee in cui crediamo. E, tanto per
cominciare, dire che non si può votare sì a un referendum che si
svolgerà tra poco più di un mese e del quale nessuno parla perché tutti
sanno che, se la legge non sarà abrogata, per ottenere un irrisorio
risparmio e un po' di propaganda, ne sarà indebolita la democrazia e
fortemente compromessa la rappresentanza. E non se ne parla perché i
5stelle lo sostengono perché è stata una loro bandiera e gli altri non
si oppongono in quanto temono di non essere sufficientemente populisti
e, quindi, non in sintonia con quella che ritengono essere la moda che
informa in questo periodo una consistente parte dell'elettorato.
La storia si fa anche e soprattutto
in questa maniera: combattendo per le proprie idee anche se si sa che in
parte con poche speranze di vincere al primo colpo. Ma anche nel 2016
tutto era cominciato così.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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