domenica 31 dicembre 2017

Ideali e strategie

A colpire l’attenzione non è tanto un titolo di Repubblica – “Anno 2018, l’Italia senza un leader” – quanto il fatto che questo titolo sembra nascondere un rammarico che poi è confermato dal cappello dell’articolo che riferisce di un sondaggio Demos e che dice: «Secondo gli italiani, il 2018 sarà un anno senza luce. E senza luci. Perché l'orizzonte appare grigio e non si scorgono figure in grado di illuminarlo. Al contrario. Perché gli unici soggetti significativi emergono sugli altri per la loro capacità di oscurare».
 
Ebbene, per quanto mi riguarda, proprio questo titolo mi induce, sia pur molto timidamente, a intravvedere qualche barlume di speranza e a far venire a galla quello che posso considerare il mio massimo desiderio politico per il 2018, cioè quello che finalmente si inverta la tendenza generale e che si finisca di parlare di leader per tornare a parlare di partiti e di ideali, se non proprio di ideologie. Perché, se davvero si vuole sperare in un futuro migliore per tutti, quella di cercare a tutti i costi un leader e di concedergli di una fiducia totale, è l’unica strada che certamente non si deve seguire. Lo ha dimostrato ad abundantiam la storia e continua a dimostrarlo ampiamente anche la cronaca. E se una volta il leaderismo solitamente portava a una dittatura, oggi la stessa disgrazia induce, senza eccezioni, a un impoverimento politico e, conseguentemente, sociale.

Potrebbe già bastare una semplice considerazione di base a dimostrare il fallimento già segnato di una realtà in cui tutto il potere è nelle mani di un uomo solo: se nessuno è in grado di controbattere ciò che dice il capo, o se il capo comunque non ascolta, allora ogni errore diventa inevitabile e inemendabile. Perché nessun uomo è infallibile. E la somma di tanti errori costituisce invariabilmente un disastro.

Ma altre considerazioni possono essere aggiunte: la crescente e inarrestabile autostima di chi si sente il capo di tutto; il crescente disinteresse di chi sa che comunque non potrà mai incidere neppure nelle decisioni che lo riguardano; l’impoverimento di quella che dovrebbe essere la futura classe politica e che, invece, si riduce a poco più che una corte di questuanti e reverenti; la ricerca continua, da parte del capo, di rimuovere ogni tipo di ostacolo che potrebbe fargli perdere tempo nel percorrere la strada che ha deciso di percorrere.

Non è difficile ritrovare tutto ciò in Italia e nei tempi che stiamo vivendo: leader, come Renzi, che si sentono talmente forti da impostare una campagna referendaria tramutandola in un plebiscito – perdente – sulla propria persona; altri, come Grillo, che cambiano le regole interne se i risultati delle consultazioni interne non sono quelli a lui graditi; altri, come Berlusconi, che continuano a ritenere scemi i propri elettori promettendo loro ancora una volta le stesse cose che è già stato dimostrato inequivocabilmente essere impossibili; altri, come, Salvini, che promettono di risprofondare in un passato cupo, incivile e nel quale possono stare bene soltanto coloro che già stanno bene e che sono capaci di non sentire i morsi della propria coscienza; altri, come Di Maio, che danno continuamente prova della propria ignoranza, spicciola e generale, e che continuano a pretendere che gli altri pensino che l’ignoranza sia una variabile inessenziale nel valutare la capacità di risolvere problemi complessi; altri ancora che agognano a diventare leader di qualcosa e che non hanno avuto ancora la possibilità di contribuire con i loro atteggiamenti a screditare il leaderismo. 

E, nel frattempo, sempre meno cittadini vanno a votare perché si sentono sempre più esclusi dal processo democratico e sempre più spesso le leggi sono pasticciate, illeggibili, addirittura dannose più che inutili.

In definitiva l’auspicio è che l’anno nuovo porti i primi germi della rinascita di quelli che una volta erano i partiti che nascevano come organizzatori del consenso su tracce ideali, sociali e politiche ben definite e che scompaiano quelle organizzazioni che continuano a essere definiti partiti (anche se nel caso del M5S rifiutano tale appellativo), ma che, in realtà, sono soltanto macchine elettorali che rendono gli ideali asserviti alle rilevazioni dei sondaggi e che, quindi, diventano ondivaghi, anche su questioni di importanza etica primaria, perché a fare premio su tutto è la possibilità di lucrare qualche voto il più alle elezioni successive.

E, a proposito di elezioni, parlando della parte politica nella quale mi riconosco e cioè la sinistra, visto che nessuno parte rassegnato, ma che è certamente difficile ipotizzare un successo pieno a pochi mesi dalla propria nascita, credo che questa occasione vada sfruttata soprattutto come base di partenza per una vera rinascita del modo giusto di fare politica, nel quale è importante far capire che c’è ancora qualcuno che vuole portare avanti le proprie idee sociali più che battagliare per avere un posto di rilievo; un’occasione nella quale almeno qualche leader finalmente torni a parlare soprattutto di ideali sociali e molto meno di strategie elettorali.

Buon 2018 a tutti. Ricordando sempre che quello che ci riserberà dipenderà in gran parte proprio da noi.


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sabato 23 dicembre 2017

I regali di Natale

Più d’uno in questi ultimi anni mi ha accusato di avercela con Renzi. E a tutti ho risposto che avevano certamente ragione, ma che non si è mai trattato di antipatia preconcetta, bensì di avversità ragionata. E questa volta, per dimostrarlo, preferisco lasciare la parola ad altri. Anche perché sono altri quelli che stanno rendendo ben poco gradito il Natale di Renzi con regali davanti ai quali il carbone che la Befana porta ai cattivi sembra quasi una specie di premio.
 
Cominciamo con i sondaggi di Ixé che danno per la prima volta il PD sotto il 23 per cento con un crollo che da ottobre in poi sembra irreversibile e che in due mesi ha fatto perdere circa 5 punti al partito di Renzi. È evidente, quindi, che non di centinaia di migliaia di casi di antipatia personale si tratta, bensì del rifiuto diffuso di una politica inaccettabile. Che taluni abbiano fiutato da subito l’andazzo e che altri ci siano arrivati soltanto in questi ultimi mesi non cambia la sostanza delle cose: la politica del PD di Renzi non è stata una politica di centrosinistra, o, per essere più semplici, non è stata la politica del PD che avrebbe dovuto essere nato dall’Ulivo di Prodi; non è stata la politica che avrebbero voluto moltissimi di quegli elettori che avevano dato il proprio voto al programma di Bersani e che si sono visti realizzare in buona parte, invece, quello che è stato il programma di Renzi, troppo spesso molto simile a quello che era stato il programma di Berlusconi.

E che non di antipatia personale si tratti è confermato da almeno altri due casi, entrambi riportati da HuffPost. Il primo riguarda Franco Monaco, deputato PD, il quale, in una sua lettera, afferma che «nell’ultimo giorno di lavori per la Camera posso lasciare il PD a tutti gli effetti. In verità, da gran tempo mi considero fuori dal partito, cui non ho rinnovato l’iscrizione, e tuttavia non ho lasciato il gruppo parlamentare PD. Ci sono stato al modo di indipendente sempre più estraneo. Ripeto: non ho lasciato il gruppo PD, ma sento il dovere di mettere a verbale, prima dell’imminente scioglimento delle Camere, il senso della mia estraneità a esso. Molte le ragioni. La principale è che questo PD è cosa affatto diversa dal PD pensato nel solco dell’Ulivo, partito di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra. Diverso per profilo, posizionamento, politiche».

E poi elenca una serie di cose inaccettabili: «un uso improprio e strumentale delle istituzioni», «un cedimento a umori anti-istituzionali che già avevano connotato la campagna referendaria e che vanno a sommarsi ad atteggiamenti corrivi con la facile demagogia su questioni cruciali come l’Europa e il fisco. Associati altresì allo sport nazionale dei “fake program” nella spesa pubblica. Immemore della lezione dei migliori governanti del centrosinistra il cui motto fu “dire la verità agli italiani”».

Sul caso Boschi, poi, dice che «se anche le ragioni stessero tutte dalla parte della sottosegretaria renziana trovo incredibile che chi esordì rottamando i politici “avvitati alla poltrona” non si faccia scrupolo di procurare danni irreparabili al proprio partito. Con i molti ostaggio di pochi. Del resto, lo stesso si deve dire per Renzi. Non c’è chi non veda come egli, con il suo spirito divisivo e la sua sequela di sconfitte, abbia condannato il Pd all’isolamento e, dunque, rappresenti un oggettivo ostacolo alla ricostruzione di un centrosinistra. È di palmare evidenza come un suo inequivoco passo indietro gioverebbe (...avrebbe giovato) a una competizione dall’esito altrimenti già scritto». E conclude: «Lascio il Parlamento senza una casa politica, con l’auspicio che altri possano riprendere il filo di quel progetto cui demmo nome Ulivo dal cui solco il PD ha così palesemente deragliato. Anche per l’ignavia dei “fratelli maggiori” dentro il PD, cui va imputata la responsabilità omissiva di non avere mosso ciglio a fronte di una deriva da tempo visibilissima, e che solo ora si profondono in stucchevoli appelli unitari».

Non bastassero queste parole, come ulteriore regalo negativo a Renzi arriva una lettera firmata dai dirigenti dei circoli Dem in Europa e segnatamente da Francia, Gran Bretagna, Germania, Belgio, Lussemburgo e Svizzera. Ebbene, senza lasciare spazio a possibili interpretazioni, cominciano affermando: «Abbiamo deciso, dopo una lunga e difficile riflessione, di interrompere la nostra presenza nel partito che abbiamo contribuito a fondare ed animare in tutti questi anni. La nostra decisione è frutto di una lunga serie di considerazioni su un partito che abbiamo sentito sempre come la nostra casa, e che oggi - nei metodi, nelle scelte di linea politica, negli atteggiamenti dei suoi dirigenti - non riusciamo più a riconoscere, a livello nazionale così come nell’attenzione per le comunità degli Italiani all’estero. Troppi sono gli esempi che, in questi mesi, ci hanno dimostrato come il nostro impegno è vano, se non addirittura decisamente sgradito da un gruppo dirigente che ha dimostrato la sua ottusità nella mancanza di una vera e seria volontà politica di ascolto della pluralità delle posizioni nel partito». Proseguono: «Siamo rimasti colpiti dal mancato rispetto, reiterato in più occasioni, degli organi democraticamente eletti per la definizione delle scelte politiche nonché del ruolo dei nostri iscritti, nonostante ci sia, nelle prossime settimane, un appuntamento elettorale cruciale per il nostro Paese, eppure già compromesso da una rottura, di certo non evitata ma addirittura provocata dalle politiche di questi anni, nell’area del centrosinistra».

E, dopo aver citato tutta una serie di insoddisfazioni anche nello specifico degli italiani all’estero, concludono: «Tutto questo dimostra per noi una profonda mancanza di credibilità politica dell’attuale dirigenza del nostro partito, motivo per cui - pur continuando a batterci per i nostri valori, nell’interesse delle comunità italiane in Europa - abbiamo deciso di non volerci più impegnare per questo PD».
 

Ebbene, al netto della mia assoluta disistima nei confronti di Renzi, ormai credo si possa paragonare l’ancora attuale segretario del PD a una sorta di novello Sansone che, nel momento in cui si rende conto di avere perduto ogni speranza di vittoria, preferisce copiare il personaggio biblico nella sua famosa frase «Muoia Sansone con tutti i Filistei» facendo crollare il tempio, nella fattispecie il PD, su se stesso e su tutti coloro che ancora vi sono dentro.

A questo punto, però, appare sempre più difficile separare le responsabilità di Sansone da quelle dei Filistei che avrebbero potuto in più occasioni far uscire Sansone e salvare il tempio che, simbolicamente, con i suoi valori, è decisamente più importante di qualunque Filisteo. Ormai è quasi certamente troppo tardi per riparare i danni compiuti, ma vorrei che ci si ricordasse che un’elezione persa non significa la sconfitta definitiva degli ideali, ma che la distruzione di quello che era uno dei contenitori più importanti di quegli ideali può condannare a una lunghissima e faticosissima opera di ricostruzione da zero prima di poter sperare di riprendere quella strada che ha portato ai progressi sociali che abbiamo visto realizzare prima che per troppi la politica diventasse soltanto una corsa al posto e al potere e non fosse più, invece, il lavoro di ragionamento, previsione e mediazione necessario per il realizzare il bene comune possibile per tutti.

Buon Natale a tutti. Ma che sia un Natale vero e cioè non festivo, ma quel tanto di arrabbiatura che deriva dal fatto di essere consci che la nascita che si celebra era avvenuta per cambiare in meglio il mondo.

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giovedì 21 dicembre 2017

Come abbiamo fatto?

Pochi se ne ricordano e ancor meno sono coloro che hanno interesse a ricordarsene, ma il 22 dicembre ricorre il settantesimo anniversario dell’approvazione, da parte dell'Assemblea Costituente, della nostra Costituzione che –come promemoria per i prossimi giorni – fu poi promulgata dal capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale in edizione straordinaria cinque giorni dopo, il 27 dicembre, ed entrò in vigore il primo gennaio del 1948.
E, del resto, sarebbe strano che se ne ricordassero perché non si vede davvero il motivo per il quale istituzioni, uomini politici, amministratori, partiti che hanno fatto di tutto per stravolgerla dovrebbero oggi ricordare la debacle subita il 4 dicembre nel referendum popolare che l’ha invece salvata. Né hanno interesse a ricordarlo i partiti che si sono schierati contro l’iniziativa dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi più per motivi di politica spicciola che per ideali democratici. Mentre quelli che lo hanno fatto perché davvero ci credevano sono tornati nell’ombra, o per libera scelta, o in quanto l’imminenza di importanti appuntamenti elettorali ha portato ancora una volta in primo piano la caccia al voto e alle candidature, relegando soltanto sullo sfondo, se non a parole, i discorsi politici e su quelli che vengono definiti “i programmi”.

Così non fosse l’anniversario della Costituzione non sarebbe stato messo in ombra neppure dalla vicenda Boschi – Banca Etruria nella quale appare evidente a tutti che né il presidente del Consiglio, né la ministra hanno puntato una pistola alla tempia di chi doveva decidere il destino di quell’istituto di credito e che, quindi, non hanno fatto pressioni. Se poi, dopo il colloquio con la ministra, Ghizzoni si è visto arrivare una mail di garbato sollecito a dare notizie da parte di Marco Carrai, grande amico dell'ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, neppure questa può essere considerata una pressione e poi comunque – come ha detto Rosato con la stessa autorevolezza e onestà intellettuale con cui difende la legge elettorale che da lui prende il nome – in tutto questo il PD non c’entra.

Ma a dimostrare che all’attuale panorama politico della Costituzione importa poco o niente è la discussione sulla finanziaria. Forse non è superfluo ricordare che l’articolo 1 della nostra Carta fondamentale recita così: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Ed è proprio su quella parolina “lavoro” che dovrebbe appuntarsi la nostra attenzione.

Mentre nella Manovra per il prossimo anno entrano svariati provvedimenti tesi a elargire contributi economici di vicinanza politica o territoriale che puntano a ottenere un segno di gratitudine al momento di inserire la scheda nell’urna, dal dispositivo escono alcuni correttivi a costo zero che erano stati promessi proprio perché ad alcuni quella parola “lavoro” interessa parecchio, sia perché fornisce, a chi ce l’ha, la possibilità di campare, sia in quanto la sua assenza ufficiale costituisce, in una società come la nostra, una gravissima sottrazione di dignità.

Ebbene, distratti dai discorsi sulle banche e da altre quotidiane polemiche di piccolo cabotaggio, inventate quasi esclusivamente per ottenere qualche titolo sui giornali o nei telegiornali, quasi nessuno ha parlato con il risalto che avrebbe meritato del fatto che le promesse di modifica del Jobs act, comunque leggerissime, sono saltate immediatamente, senza neppure soverchie discussioni. Sono scomparse le novità sulla durata massima dei contratti a termine e delle proroghe che avrebbero dovuto passare da 36 a 24 mesi e, su indicazione del governo, è stato anche ritirato l'emendamento che portava da 4 a 8 le mensilità minime da pagare al lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa. Nonostante l’abbondante spreco di parole, insomma, il lavoro resta in fondo alla graduatoria delle preoccupazioni di gran parte del nostro mondo politico al quale continua a far comodo non rilevare che nelle statistiche hanno lo stesso valore coloro che lavorano a tempo pieno e indeterminato e quelli che hanno impieghi da un giorno al mese, e appare evidente che l’offerta di correzioni del Jobs act fatta ad Articolo 1 – MDP da parte dei mediatori del PD era soltanto un espediente per raggiungere un’alleanza elettorale e non un segnale di cambiamento di rotta sociale.

Può far piacere sentire che il presidente della Commissione Lavoro della Camera, il dem Cesare Damiano, dica: «L'esecutivo sta compiendo un errore che non è di poco conto. La prossima legislatura dovrà affrontare questo problema perché in Italia licenziare costa troppo poco ed è diventato troppo facile». Ma prima di congratularsi con lui, sarebbe l caso di ricordargli che continua a sostenere un partito senza il quale licenziare non sarebbe costato «troppo poco», e di chiedergli se davvero ritiene che chi sarà al governo nella prossima legislatura – destra, grillini o PD di Renzi – si impegnerà a cambiare quello che in questa legislatura nessuno si è impegnato a evitare.

Credo che il settantesimo anniversario della Costituzione non richieda molti festeggiamenti, né ridondanti celebrazioni, ma che almeno imponga di pensare prima di recarsi alle urne. Ricordando come a questa Costituzione si sia arrivati e quanto sangue e sofferenze sia costata non possiamo non chiederci ancora una volta: come abbiamo fatto a permettere di tradire così tanto quei sacrifici? Come abbiamo fatto a disattendere così tanto quelle speranze?

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martedì 12 dicembre 2017

Il voto futile

Rinverdendo una tradizione che ben si sposava al sistema elettorale maggioritario, ne parlano in molti. Il cosiddetto “voto utile”, è invocato soprattutto da Renzi che avverte minacciosamente gli elettori orientati a sinistra che «ogni voto dato a Liberi e uguali sarà un voto dato alla destra, o ai Cinque stelle». Ma lo usano abbondantemente anche Berlusconi che si richiama al “voto utile” per accreditarsi come unica diga, anche all’interno della sua stessa attuale coalizione, capace di bloccare i grillini, e Salvini. E lo invocano con convinzione anche gli stessi seguaci di Grillo che puntano, invece, a tentare di mettere insieme un tale numero di seggi da rendere obbligatoria la loro chiamata al colle.
Ora appare del tutto evidente che ogni voto sarà sicuramente utile per chi lo riceverà, ma è altrettanto certo che questa sua caratteristica svapora fino a scomparire totalmente per gli elettori, a meno che la cosiddetta “utilità” e la convinzione politica non indirizzino contemporaneamente verso la medesima casella da barrare. Anzi, se questo non avviene, il voto è talmente poco utile da diventare “futile”, cioè – come recita il vocabolario Treccani – di scarsissima importanza e serietà.

Dicevo all’inizio che il “voto utile” nasce con il sistema elettorale maggioritario e corrisponde a un voto dato al candidato che si ritiene possa vincere invece che al candidato più gradito. Ma non si può dimenticare che questa volta i due rami del Parlamento saranno eletti con una legge che, oltre che essere per due terzi proporzionale, sembra disegnata apposta per allontanare ulteriormente i cittadini dalla scelta diretta di chi dovrebbe rappresentarli per rendere effettiva la loro delega, e che, in queste condizioni si finisce per votare per il partito e non per il candidato, cosa che, invece, sarebbe stata possibile, se la fertile fantasia di Rosato avesse accettato quel “voto disgiunto” proposto da più parti, ma inesorabilmente affogato nel cupo mare delle fiducie.

Chi invoca il “voto utile”, poi, non si rende conto che il modo dissennato di fare politica di questi ultimi decenni, portati avanti nel segno della cosiddetta “governabilità” e del decisionismo del capo, ha prodotto disastri difficilmente curabili: molti, sentendosi “inutili”, si sono allontanati non soltanto dalla politica attiva, ma addirittura dalle urne, mentre quelli che sono rimasti sono diventati degli estremisti. E non pensiate che io stia parlando soltanto di attivisti dell’ultradestra, o dell’ultrasinistra: gli estremisti oggi sono anche di centro, perché il senso di lontananza e di rifiuto non soltanto per i più lontani, ma anche per i più vicini, ha finito per rendere estrema qualunque posizione, anche quelle che la vulgata comune definiva “moderate”. E così l’ossimoro “estremisti di centro” non strappa più sorrisini, ma descrive una realtà davvero esistente. E questo avrà effetti non soltanto sulle elezioni, ma anche su quello che accadrà dopo in quanto sarà estremamente difficile che gli attuali partiti riescano a dare vita a coalizioni di governo alle quali non sono più abituati e che, dopo aver demonizzato chiunque altro, non sarebbero più capaci di gestire senza perdere la faccia e la simpatia degli elettori loro rimasti.

Ma, oltre a essere “futile” perché “di scarsissima importanza”, il teorico “voto utile” è ancor più pericoloso in quanto è “di scarsissima serietà”. Al cittadini si dice, infatti, di non votare per coloro che si impegnano a portare avanti le idee sociali e politiche dell’elettore steso, ma per coloro che sono “i meno peggio”. E così facendo si induce nel corpo elettorale, oltre alla rabbia per un evidente ricatto psicologico, non la delusione, ma la disperazione perché nessuno in queste condizioni spera più che la situazione possa cambiare, che, come accadeva una volta, possano più diventare reali alcune di quelle che vengono chiamate utopie, che il nome democrazia abbia ancora il significato etimologico di potere del popolo e che non nasconda, invece, autoritarismi di vari colori, forze, orientamenti.

Pietro Grasso ha detto che l’unico voto utile «è quello che costruisce la rappresentanza democratica, le idee, i valori, i programmi e le speranze portando in parlamento i bisogni e le richieste di quella metà di Italia che non vota». Niente da eccepire, ma se qualcuno mi chiedesse quale può essere un voto utile, preferirei lasciare la scelta della definizione a quei quattro milioni di italiani che hanno contratti di lavoro – i cosiddetti “fast Job” – di una durata che va dal giorno ai tre mesi e che le uniche cose che hanno a tempo indeterminato sono la sottrazione di dignità, la fame, il disagio, la paura per il futuro, l’impossibilità di curarsi. Ed estenderei la domanda anche a quegli altri ultimi che, incredibilmente, possono stare anche peggio. Tutto quello che non è utile a loro, per una comunità nazionale è soltanto futile.

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lunedì 4 dicembre 2017

Buon 4 dicembre

Nella sua più recente risposta, nell’ambito della rubrica che tiene su “D la Repubblica”, Umberto Galimberti ha affrontato, con la sua disarmante e implacabile lucidità, il tema del declino della sinistra in tutto l’Occidente e – riassumo in maniera sicuramente parziale e inadeguata – ha affermato che «la globalizzazione ha subordinato la politica all’economia»; che ha indotto l’Occidente a esportare il mercato in tutto il mondo, e «anche la democrazia e i diritti umani, sacrificandoli subito entrambi» non appena questi rischiavano di essere di intralcio al mercato stesso; che si è accettato che il mercato creasse «una cultura più confacente alla destra che alla sinistra»; che «il mercato è nessuno» e, quindi, difficile da combattere, tanto che «il risultato è che ormai il mercato e la razionalità che lo governano sono vissuti dall’inconscio collettivo come leggi di natura»; che, «a differenza della destra il cui collante è costituito, soprattutto in Italia, dagli interessi e dai privilegi da difendere, la sinistra, nelle sue espressioni migliori, ha degli ideali. E sugli ideali ci si divide, ci si contrappone con una passione che spesso acceca, preferendo la testimonianza alla responsabilità, che chiede al politico di governare. E di sapere che il governo non è mai l’attuazione di un ideale puro, bensì la continua mediazione fra ideali che accettano di rinunciare in parte alla loro purezza per trovare il consenso necessario a costruire una maggioranza. La destra, divisa su tutte le proposte ideali, ci riesce. La sinistra no. Ma l’ideale che non diventa mai reale finisce con l’evaporare nell’inconsistenza di un sogno. Che al risveglio svanisce».
Assolutamente nulla da eccepire, tranne che per quello che riguarda la parte in cui Galimberti dice che la sinistra sugli ideali si lacera e, proprio per questo, non sa condurli a realizzazione. E su questo due sono le obiezioni che mi vengono in mente: una di sostanza e una di metodo.

Per quanto riguarda la sostanza, visto che in molti casi, a meno di ipocrite e momentanee rinunce al proprio pensiero, di ideali certamente diversi, come nel caso del Jobs act, si tratta, mi viene da chiedermi se entrambe le parti, attestate su fronti addirittura opposti, possano definirsi “sinistra” e, nel caso soltanto una possa farlo, quale delle due – l’attuale linea della segreteria del PD, o quella che ieri si è unita con Pietro Grasso per schierarsi in netta discontinuità con i principi di Renzi – possa autodefinirsi “sinistra” con maggiore diritto di farlo. E, pur sempre comunque ricordando che in democrazia la maggioranza vince sempre, ma non sempre è detto che abbia davvero ragione, mi domando anche se davvero, come dicono i suoi sostenitori, i numeri diano ragione a Renzi. È certamente vero all’interno del PD, ma se si allarga il discorso all’intera sinistra, o anche al centrosinistra, le cose non sembrano andare nello stesso verso. Infatti, oltre a ricordare le minoranze interne al partito, è difficile dimenticare la scissione di chi, dopo aver fondato il PD, non lo sentiva più casa propria, ma anche i disastrosi risultati delle elezioni di questi ultimi anni e, forse più importante di tutto, la disaffezione che ha fatto disertare le urne alcuni milioni di elettori dei quali, se gli studi sono corretti, la maggior parte apparteneva a una sinistra che loro non ritenevano più degna di essere votata.

Per quanto riguarda il metodo (che, poi, in realtà è la vera sostanza) e che riguarda un po’ tutti, anche coloro che ultimamente si sono – almeno dal punto di vista mio – ravveduti e hanno deciso di cambiare strada, il disastro fondamentale è stato costituito dall’acquiescenza davanti a una mortifera mutazione del linguaggio. Abbiamo accettato, per esempio che nella locuzione “raggiungere un obbiettivo” il verbo “raggiungere” sparisse per dare spazio soltanto a “conquistare”, o “comperare”, sottolineando così implicitamente che gli obbiettivi necessari non devono essere raggiunti con fatica e pazienza da chiunque ha ideali, dedizione e capacità di lavorare insieme ad altri, ma possono essere fatti propri soltanto da chi è più forte, o da chi è più ricco. Mai da chi ha dimostrato con il ragionamento, e anche con la necessaria mediazione, di poter offrire la soluzione migliore. E, per illustrare il degrado in cui stiamo vivendo, la recente infinita sequela di fiducie imposte dai governi al Parlamento sono ancor più desolantemente eloquenti delle compere di deputati e senatori per far cadere i governi avversi. Perché in tal modo è la stessa sostanza della democrazia a essere messa in discussione, e non alcuni disonesti, corruttori e corrotti, disposti a perdere la faccia, ma non il portafogli, né il potere.

Continuo a credere che sia proprio il linguaggio la chiave di volta per far sì che i sogni al risveglio non svaniscano. Veder rincorrere i sondaggi, o copiare le espressioni di uomini politici di parte avversa soltanto per lucrare qualche voto, o parlare per ore, pur pregevolmente, sul nulla, sono cose che non fanno né guadagnare voti, né crescere il Paese e i suoi cittadini.

Parlare agli elettori come si presume che loro desiderino e non come davvero si ritiene di dover fare è esattamente come credere di poter avvicinare i giovani usando soltanto il loro linguaggio e i loro social network. Chi lo fa crea contemporaneamente in me un sentimento di pena e uno di rabbia. Pena perché nessuno di noi anziani riuscirà mai a raggiungere il grado di raffinatezza, nel loro modo di esprimersi, dei cosiddetti “nativi digitali” e, quindi, continuerà ad apparire come un estraneo; talvolta anche un po’ buffo. Rabbia in quanto, così facendo, si negano ai giovani le ricchezze di altri linguaggi che, invece, probabilmente apprenderebbero molto volentieri anche perché sono stati proprio questi linguaggi, apparentemente desueti, ma in realtà ancora necessari, a creare non soltanto gli aspetti detestabili e deteriori del mondo in cui stiamo vivendo, ma anche quelli che innegabilmente hanno continuato a rendere mediamente migliore la vita degli uomini sulla faccia della Terra. E che si sono consumati nel tentativo inesausto di creare proprio quei sogni sui quali – è vero – ci si divide troppo spesso.

Parlare di questi linguaggi mi sembra particolarmente doveroso oggi, 4 dicembre, primo anniversario della schiacciante vittoria dei “No” al referendum che ha impedito lo stravolgimento della nostra Costituzione che, se cambiata nel senso voluto da Renzi, con il famigerato “combinato disposto” avrebbe creato un serio deficit, se non una vera e propria voragine, nella nostra democrazia.

Ovviamente non dimentico che la vittoria dei “No” è stata dovuta sicuramente non soltanto alla determinazione di coloro che credono ancora nella nostra Costituzione, ma anche dalla scelta di quelli che hanno votato per antipatia, o per convenienza politica, contro Renzi. Ma vorrei anche ricordare che quando si tratta di votare soltanto contro Renzi le percentuali di chi va alle urne restano sempre molto basse, mentre al referendum sono andati ai seggi oltre il 65 per cento degli italiani aventi diritto. E credo che nel farli andare alle urne molto abbia inciso il fatto di sentir parlare finalmente con sincera convinzione di ideali e non di convenienze, o di interessi.

Buon 4 dicembre, data importantissima per la nostra democrazia, a tutti.


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sabato 2 dicembre 2017

Norma non transitoria

Nel 2005 Sergio Luzzatto diede alle stampe il pamphlet “La crisi dell’antifascismo” e per presentarlo fu organizzato a villa Manin un convegno intitolato “Verso il post–antifascismo” al quale partecipai con l’autore stesso e con Ettore Mo. Fu l’occasione per analizzare tutti i segni che già allora indicavano che i fascisti non soltanto stavano rialzando la testa, ma chiedevano addirittura una piena, oltre che impossibile, riabilitazione.

Ora sembra quasi che il viaggio sottinteso da quell’avverbio “verso” si sia fortemente avvicinato alla conclusione, visto che gli ultimi avvenimenti vengono trattati come episodi di scarsa importanza e non collegati tra loro. A Ostia le botte con i manganelli che si accompagnano al fortunatamente incompleto successo elettorale della destra estrema, vengono attribuiti soltanto alla malavita. A Como l’irruzione di una dozzina di naziskin quasi in divisa nella sede di un gruppo di accoglienza viene derubricata da molti a ragazzata, o, al massimo, a intimidazione, come se perché si configuri la violenza fosse necessario che ci siano ematomi, ecchimosi, spargimenti di sangue e come se il fascismo e tutte le dittature, di qualunque colore fossero e siano, non facessero sentire la propria prepotenza soprattutto con intimidazioni psicologiche riservando manganello, olio di ricino e armi propriamente dette soltanto ai casi più ostici e ad azioni di propaganda intimidatoria, appunto.

In questi anni troppi sono stati gli episodi di riemersione fascista e troppi i silenzi, o addirittura le complicità sotterranee, quasi sempre motivate da miopi convenienze politiche. Ed è giunto il momento che, al di là della doverosa indignazione pubblica, si ricominci a pensare che antifascismo, non è una vuota parola da usare soltanto nei discorsi celebrativi, ma è un vocabolo vivo, fatto di carne e di sangue, di dolore e di morte, sul quale si fonda tutta la nostra Costituzione e, quindi, la nostra Repubblica.

Non può non essere considerato colpevole chi ha lasciato che un deprecabile revisionismo tentasse – e ancora tenta – di smontare e ricostruire la storia, parlando di “guerra civile” e non di Lotta di Liberazione, come se i fascisti alleati dei nazisti e coloro che hanno liberato l’Italia da loro fossero semplicemente due parti diverse in una lotta fratricida tesa soltanto alla conquista del potere. E non ci fossero, invece, da una parte l’aggressione e il sopruso, e dall’altra la ribellione di difesa e di riscatto. Ripetendo continuamente – e giustamente – che tutti i morti meritano identica pena, ma dimenticando ingiustificabilmente di dire che gli ideali per i quali hanno dato la vita sono diversi e hanno ben diversa motivazione e dignità. Mettendo in maniera inammissibile sullo stesso piano coloro che al fascismo si sono opposti e coloro che il fascismo hanno sostenuto. E non perché i primi abbiano vinto la guerra e i secondi l’abbiano perduta, ma perché il fascismo è stato la promulgazione delle leggi razziali, le guerre di aggressione coloniale, l’ingresso in guerra a fianco dell’orrore nazista, i pestaggi, le prigionie, gli assassinii di tanti avversari politici, l’uccisione di Matteotti, dei fratelli Rosselli, di Amendola e di tanti dissidenti, l’invio al confino – e non in vacanza, come ha detto Berlusconi, allora impudente e ignorante presidente del consiglio – di molti altri che si opponevano perché si rifiutavano di smettere di pensare; è stato la soppressione della libertà di stampa, l’eliminazione della maggior parte dei diritti civili, la dissuasione violenta nei confronti del libero pensiero. Dall’altra parte i partigiani erano coloro che volevano giustizia e libertà nell’ambito di una pace e di una democrazia che oggi sicuramente non sarà così bella come loro allora la sognavano, ma che esiste ancora e che non abdica mai alla speranza di migliorare.

Il fascismo e il nazismo sono state due tra le più forti negazioni dell’umanità, mentre la Resistenza e l’antifascismo, di quella stessa umanità, sono state tra le più alte affermazioni laiche.

Parafrasando la frase scritta da Bertold Brecht nella “Vita di Galileo”, «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi», si potrebbe dire «Felice quel popolo che non ha bisogno di Giornate della memoria». È triste dirlo, ma il nostro non è un popolo felice e ha ancora un disperato bisogno di ricordare per non ripetere gli errori – e soprattutto gli orrori – del passato. E Per rendersi conto del valore della memoria, basterebbe pensare a come in Italia, siano tornate a galla idee aberranti come xenofobia, aterofobia, razzismo; in definitiva, a come stia nuovamente gonfiandosi l’intolleranza contro coloro che sono avvertiti come diversi.

Nella parte finale della nostra Costituzione è scritto: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Molti la ricordano come la dodicesima delle “disposizioni transitorie”, ma intanto va ricordato che il titolo esatto della sezione è “Disposizioni transitorie e finali” e anche che, se proprio non la si vuole vedere come finale, questa prescrizione vedrebbe chiudersi la propria provvisorietà non dopo un determinato numero di anni, ma soltanto dopo la sparizione definitiva di ogni rigurgito fascista. Cioè, come storia e cronaca ci insegnano, purtroppo mai.

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