Nella sua più recente risposta, nell’ambito della rubrica che tiene su “D la Repubblica”,
Umberto Galimberti ha affrontato, con la sua disarmante e implacabile
lucidità, il tema del declino della sinistra in tutto l’Occidente e –
riassumo in maniera sicuramente parziale e inadeguata – ha affermato che
«la globalizzazione ha subordinato la politica all’economia»; che ha
indotto l’Occidente a esportare il mercato in tutto il mondo, e «anche
la democrazia e i diritti umani, sacrificandoli subito entrambi» non
appena questi rischiavano di essere di intralcio al mercato stesso; che
si è accettato che il mercato creasse «una cultura più confacente alla
destra che alla sinistra»; che «il mercato è nessuno» e, quindi,
difficile da combattere, tanto che «il risultato è che ormai il mercato e
la razionalità che lo governano sono vissuti dall’inconscio collettivo
come leggi di natura»; che, «a differenza della destra il cui collante è
costituito, soprattutto in Italia, dagli interessi e dai privilegi da
difendere, la sinistra, nelle sue espressioni migliori, ha degli ideali.
E sugli ideali ci si divide, ci si contrappone con una passione che
spesso acceca, preferendo la testimonianza alla responsabilità, che
chiede al politico di governare. E di sapere che il governo non è mai
l’attuazione di un ideale puro, bensì la continua mediazione fra ideali
che accettano di rinunciare in parte alla loro purezza per trovare il
consenso necessario a costruire una maggioranza. La destra, divisa su
tutte le proposte ideali, ci riesce. La sinistra no. Ma l’ideale che non
diventa mai reale finisce con l’evaporare nell’inconsistenza di un
sogno. Che al risveglio svanisce».
Assolutamente nulla da eccepire,
tranne che per quello che riguarda la parte in cui Galimberti dice che
la sinistra sugli ideali si lacera e, proprio per questo, non sa
condurli a realizzazione. E su questo due sono le obiezioni che mi
vengono in mente: una di sostanza e una di metodo.
Per quanto riguarda la sostanza,
visto che in molti casi, a meno di ipocrite e momentanee rinunce al
proprio pensiero, di ideali certamente diversi, come nel caso del Jobs
act, si tratta, mi viene da chiedermi se entrambe le parti, attestate su
fronti addirittura opposti, possano definirsi “sinistra” e, nel caso
soltanto una possa farlo, quale delle due – l’attuale linea della
segreteria del PD, o quella che ieri si è unita con Pietro Grasso per
schierarsi in netta discontinuità con i principi di Renzi – possa
autodefinirsi “sinistra” con maggiore diritto di farlo. E, pur sempre
comunque ricordando che in democrazia la maggioranza vince sempre, ma
non sempre è detto che abbia davvero ragione, mi domando anche se
davvero, come dicono i suoi sostenitori, i numeri diano ragione a Renzi.
È certamente vero all’interno del PD, ma se si allarga il discorso
all’intera sinistra, o anche al centrosinistra, le cose non sembrano
andare nello stesso verso. Infatti, oltre a ricordare le minoranze
interne al partito, è difficile dimenticare la scissione di chi, dopo
aver fondato il PD, non lo sentiva più casa propria, ma anche i
disastrosi risultati delle elezioni di questi ultimi anni e, forse più
importante di tutto, la disaffezione che ha fatto disertare le urne
alcuni milioni di elettori dei quali, se gli studi sono corretti, la
maggior parte apparteneva a una sinistra che loro non ritenevano più
degna di essere votata.
Per quanto riguarda il metodo (che,
poi, in realtà è la vera sostanza) e che riguarda un po’ tutti, anche
coloro che ultimamente si sono – almeno dal punto di vista mio –
ravveduti e hanno deciso di cambiare strada, il disastro fondamentale è
stato costituito dall’acquiescenza davanti a una mortifera mutazione del
linguaggio. Abbiamo accettato, per esempio che nella locuzione
“raggiungere un obbiettivo” il verbo “raggiungere” sparisse per dare
spazio soltanto a “conquistare”, o “comperare”, sottolineando così
implicitamente che gli obbiettivi necessari non devono essere raggiunti
con fatica e pazienza da chiunque ha ideali, dedizione e capacità di
lavorare insieme ad altri, ma possono essere fatti propri soltanto da
chi è più forte, o da chi è più ricco. Mai da chi ha dimostrato con il
ragionamento, e anche con la necessaria mediazione, di poter offrire la
soluzione migliore. E, per illustrare il degrado in cui stiamo vivendo,
la recente infinita sequela di fiducie imposte dai governi al Parlamento
sono ancor più desolantemente eloquenti delle compere di deputati e
senatori per far cadere i governi avversi. Perché in tal modo è la
stessa sostanza della democrazia a essere messa in discussione, e non
alcuni disonesti, corruttori e corrotti, disposti a perdere la faccia,
ma non il portafogli, né il potere.
Continuo a credere che sia proprio
il linguaggio la chiave di volta per far sì che i sogni al risveglio non
svaniscano. Veder rincorrere i sondaggi, o copiare le espressioni di
uomini politici di parte avversa soltanto per lucrare qualche voto, o
parlare per ore, pur pregevolmente, sul nulla, sono cose che non fanno
né guadagnare voti, né crescere il Paese e i suoi cittadini.
Parlare agli elettori come si
presume che loro desiderino e non come davvero si ritiene di dover fare è
esattamente come credere di poter avvicinare i giovani usando soltanto
il loro linguaggio e i loro social network. Chi lo fa crea
contemporaneamente in me un sentimento di pena e uno di rabbia. Pena
perché nessuno di noi anziani riuscirà mai a raggiungere il grado di
raffinatezza, nel loro modo di esprimersi, dei cosiddetti “nativi
digitali” e, quindi, continuerà ad apparire come un estraneo; talvolta
anche un po’ buffo. Rabbia in quanto, così facendo, si negano ai giovani
le ricchezze di altri linguaggi che, invece, probabilmente
apprenderebbero molto volentieri anche perché sono stati proprio questi
linguaggi, apparentemente desueti, ma in realtà ancora necessari, a
creare non soltanto gli aspetti detestabili e deteriori del mondo in cui
stiamo vivendo, ma anche quelli che innegabilmente hanno continuato a
rendere mediamente migliore la vita degli uomini sulla faccia della
Terra. E che si sono consumati nel tentativo inesausto di creare proprio
quei sogni sui quali – è vero – ci si divide troppo spesso.
Parlare di questi linguaggi mi
sembra particolarmente doveroso oggi, 4 dicembre, primo anniversario
della schiacciante vittoria dei “No” al referendum che ha impedito lo
stravolgimento della nostra Costituzione che, se cambiata nel senso
voluto da Renzi, con il famigerato “combinato disposto” avrebbe creato
un serio deficit, se non una vera e propria voragine, nella nostra
democrazia.
Ovviamente non dimentico che la
vittoria dei “No” è stata dovuta sicuramente non soltanto alla
determinazione di coloro che credono ancora nella nostra Costituzione,
ma anche dalla scelta di quelli che hanno votato per antipatia, o per
convenienza politica, contro Renzi. Ma vorrei anche ricordare che quando
si tratta di votare soltanto contro Renzi le percentuali di chi va alle
urne restano sempre molto basse, mentre al referendum sono andati ai
seggi oltre il 65 per cento degli italiani aventi diritto. E credo che
nel farli andare alle urne molto abbia inciso il fatto di sentir parlare
finalmente con sincera convinzione di ideali e non di convenienze, o di
interessi.
Buon 4 dicembre, data importantissima per la nostra democrazia, a tutti.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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