domenica 27 gennaio 2019

Memoria, luci e tenebre

Raramente una Giornata della memoria ha avuto toni cupi come questi, in cui il barlume della speranza rischia di essere soffocato da quella malvagità che si sta diffondendo e che sembra assorbire ogni traccia di luce. Come ben difficilmente vivremo un 25 aprile che non ci faccia ascoltare annichiliti personaggi che non dovrebbero poter parlare della Resistenza e che ancora una volta non sapranno far altro che tentare di contrapporre i lager alle foibe, sperando di riuscire a nascondere un orrore con un altro orrore, senza nemmeno rendersi conto che due negatività anche nella vita come in matematica, si sommano e non si elidono a vicenda.

Dicono che questo che stiamo vivendo non è fascismo. Dicono che questo non è nazismo. Dicono che questo non è razzismo. E un personaggio, che purtroppo è diventato il ministro della paura, tenta di dissimulare la propria disumanità e il disprezzo delle regole internazionali di convivenza autodefinendosi “buon padre di famiglia”. E forse ancora più grave è che oltre a quelli che la pensano come lui, ci sono altri che applaudono perché tentano sempre di stare con coloro che appaiono temporaneamente i vincitori e altri ancora che, temendo di perdere la loro poltrona, diventano suoi consapevoli complici fornendogli il puntello per non far cadere quel governo che permette – anzi, vuole – un simile scempio.

Dicono che non si può parlare di fascismo, nazismo, razzismo perché la storia non ripresenta mai gli stessi avvenimenti. E allora, per confutare questa tesi senza ricorrere a tesi politiche, proviamo ad affidarci alla letteratura, cominciando da un passo dell’Eneide scritta da Virgilio un po’ più di duemila anni fa.

«Qui, in pochi, nuotammo alle vostre spiagge. Che razza di uomini è questa? O quale patria così barbara permette simile usanza? Ci negano il rifugio della sabbia; dichiarano guerra e ci vietano di fermarci sulla terra più vicina. Se disprezzate il genere umano e le armi degli uomini, temete almeno gli Dei, memori del bene e del male». Enea e i suoi stanno per raggiungere le coste della Sicilia, dopo sette anni di navigazione, ma arriva la tempesta che, al contrario di quel che succede oggi, lo spinge a sud, verso la Libia dove, con queste parole, l’eroe troiano si sforza di convincere Didone, la regina di Cartagine, a dargli ospitalità. Ed Enea è il progenitore di quei romani che saranno i padri di quella stessa Italia che oggi nega ad altri disperati l'approdo e, dunque, la salvezza.

E adesso avviciniamoci di molto fermandoci a circa settant’anni fa, quanto Primo Levi scrisse questi versi: «Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / Considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un si o per un no. / Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d'inverno. / Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi, alzandovi. / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / la malattia vi impedisca, / i vostri nati torcano il viso da voi».

Sono entrambi brani che cominciano descrivendo dolori e orrori e che si concludono con terribili maledizioni per chi nega all’uomo la sua vita, la sua dignità, la sua umanità.

Sono brani che sono stati scritti a più di diciannove secoli di distanza tra loro e che potrebbero attagliarsi, pur se non si è ancora arrivati ai vertici della metà degli Anni Quaranta, anche ai nostri giorni, mentre ci sono naufraghi che non vengono soccorsi e ai quali si proibisce di toccare terra, mentre ci sono dei figuri che parlano di nuovo di censimenti di nomadi e altri ceffi che vomitano frasi antisemite o dirette contro chiunque abbia la pelle più scura; e personaggi schifosi che vogliono rimettere in discussioni molte della leggi che, dopo tante fatiche, hanno cominciato a smussare quelle asperità che da sempre separano gli uomini dalle donne, gli eterosessuali dagli omosessuali, coloro che professano una religione da coloro che credono in un altro Dio.

Sono brani che fanno anche capire perché l’istruzione e la cultura sono sempre osteggiate da chi è al potere. Se hai studiato e hai imparato e, soprattutto se continui ad ascoltare e a imparare finisce che conosci troppe cose per poter rifiutarti di pensare. E chi pensa finisce sempre per far paura a chi chiede soltanto consensi per assicurarsi il potere.

Ma oggi finalmente si torna a vedere un barlume di luce e parlamentari, sindaci e gente comune si rifiuta di dire «Obbedisco» a Salvini. Pronuncia quel “No” che è la più bella parola del mondo perché permette il rifiuto di ragione e di coscienza e consente la vita di ogni democrazia. Sono loro, parlamentari, sindaci e gente comune che stanno diradando quella cupezza che stava intristendo al di là del lecito la Giornata della memoria. Sono loro che ci danno la certezza che questa maledetta notte dovrà pur finire.

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lunedì 21 gennaio 2019

Né indifferenza, né odio

È come sentirsi sbalzare da un universo a un altro, da un mondo familiare a uno alieno che con il primo ha pochissimi addentellati; quasi nessuno. Finire di leggere “Scolpitelo nel vostro cuore”, di Liliana Segre e poi, subito dopo, aprire un giornale e sentirsi imbrattare dalle dichiarazioni di Salvini è come ricevere un pugno nello stomaco.
 
Prima si respira a pieni polmoni e ci si illumina per frasi come «Per un futuro senza indifferenza e senza odio», e «Mi rifiuto di pensare che oggi la nostra civiltà democratica possa essere sporcata da progetti di leggi speciali contro i popoli nomadi». Poi si sprofonda in un buio maleodorante quando si è colpiti da espressioni di disumana spietatezza come «E cosa dovevano fare? Offrirgli cappuccio e brioches?», riferendosi al trentaduenne tunisino morto per un malore mentre era nelle mani della polizia con le manette ai polsi e con una corda che gli legava le caviglie. Oppure come «Sono tornate le Ong, gli scafisti tornano a fare affari e a uccidere. Io non torno indietro: i numeri mi danno ragione», come unico commento alla morte per annegamento di oltre 170 migranti affondati in due naufragi nel Mediterraneo e scomparsi tra le onde gelide. Sono questi i numeri di cui Salvini parla? Il ministro della paura si rende conto che quei numeri sono vite umane e che vanno moltiplicati a dismisura per il dolore che da quelle morti si irradia ad agghiacciare madri, padri, mogli, mariti, figli, fratelli, amici, in una sofferenza che non è assolutamente diversa da quella dei genitori spagnoli che hanno visto il loro bimbo di due anni inghiottito da un pozzo?

Sono 170 i morti in una sola giornata: tutti, meno quattro, risucchiati dalle acque mentre aspettavano invano i teorici soccorritori libici, quelli ai quali Salvini ha pensato di delegare le sue – e purtroppo anche le nostre – responsabilità pagandoli invano, ma profumatamente, con i soldi delle nostre tasse, che una volta servivano per salvare i migranti naufraghi e che ora servono a farli morire. «Così – sogghignava una volta il Fregoli delle divise – capiranno che non è il caso di mettersi in mare».

Sono davvero mondi impossibili da avvicinare che finiscono per provocare uno stato di ansia crescente. Intanto perché mai si sarebbe pensato che si potesse retrocedere tanto e tanto velocemente sulla via del progresso umano e sociale. Poi in quanto, se era prevedibile che prima o poi sulla strada dell’umanità si potesse nuovamente presentare un essere che della propria disumanità si fa vanto e la eleva a metodo di vita, molto meno ipotizzabile era che, come al tempo del fascismo, ci fosse tanta gente disposta a lasciarsi indottrinare e a gettare nell’immondizia la propria umanità e dignità pur di sentirsi nel gruppo dei teorici e comunque temporanei vincitori. Che ci fossero anche partiti che, pur di restare agganciati al potere, sconfessano non tanto se stessi, quanto le promesse elettorali che avevano fatto.

È soprattutto su questo che occorre ragionare e tentar di capire, perché oggi, tra giornali, radio, televisioni, siti internet, social, nessuno potrà tentare l’alibi di dire che non sapeva cosa stava succedendo. Per dirla con il catechismo che ci hanno insegnato da bambini, oltre alla materia grave, ci sono, indubitabilmente, anche la piena avvertenza e il deliberato consenso. Ed è anche questa consapevolezza che rende difficile, sia dimenticare gli insegnamenti di una storia che sempre più da vicino ci ricorda momenti che avremmo voluto cancellare dalla memoria, sia cercare un dialogo che dia nuova ragionevolezza e solidarietà a persone che ormai, non appena tocchiamo qualche argomento serio, sentiamo aliene e non soltanto perché sembrano parlare un’altra lingua, ma in quanto sono proprio i modi di ragionare che sono diversi perché partono da valori addirittura divergenti, da scale di importanza che poco possono avere in comune perché sono le basi che le sostengono a essere poggiate su terreni incompatibili, come incompatibile è il dare la prevalenza all’umanità, o darla all’economia, il ritenere che siamo tutti uguali, o il pensare che ci siano esseri umani di serie A ed esseri umani di serie B. Magari senza rendersi conto che è proprio questa la base del razzismo; anzi, che è razzismo tout court.

Liliana Segre, reduce da Auschwitz e dai tanti disonesti negazionismi, o dagli assurdi tentativi di cancellare un orrore contrapponendogli un altro di segno opposto, raccomanda di volere «un futuro senza indifferenza e senza odio» e, a prima vista, potrebbe sembrare facile, se davanti alle stragi del Mediterraneo si fa fatica a trattenere le lacrime e se si ha ben presente che odiare vuol dire volere il male di qualcuno. Molto più difficile, se si vuole tentar di cambiare questa situazione, è superare il disprezzo che, in definitiva è un odio ripulito dal desiderio di vendetta, o, comunque, di veder soffrire quello che consideriamo un nemico. Ed è innegabile che per Salvini e i suoi complici e fiancheggiatori provo un disprezzo che mi rende difficile anche respirare la loro stessa aria.

Fatte le debite proporzioni, però, bisognerebbe essere come la Segre che, a un certo punto, si è trovata di fronte il proprio aguzzino disarmato e in fuga e ha avuto la lucida umanità di non raccogliere la sua pistola e sparargli. «Potevo farlo. È stato un attimo – dice – ma poi ho capito. Io non ero come lui».

È un insegnamento grandissimo: l’importante non è l’esultanza del momento della vittoria, ma – e questo dovrebbero capirlo anche i politici del centrosinistra – è riuscire a saper far fruttare la propria vittoria per far vincere anche tutti gli altri, la democrazia, l’umanità.


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lunedì 7 gennaio 2019

Tra bugie e bluff

Probabilmente pensano davvero – anzi, ne sono convinti – che il popolo italiano sia composto, per la stragrande maggioranza, da ignoranti, distratti e creduloni. Ma davanti a questa convinzione dei due vice presidenti del Consiglio, a prescindere dal fatto che possano avere ragione oppure no, è obbligatorio ribattere con tutta la forza possibile perché, in assenza di un pur minimo contraddittorio, anche le bugie più irreali, i bluff più evidenti, possono assumere fantomatici contorni di plausibilità. Per capirlo, basta prendere in esame le ultime frasi alle quali Salvini e Di Maio hanno deciso di far dare più risalto possibile ai più obbedienti tra giornali, tv, radio e siti web.

Salvini, cercando di difendersi dalle accuse di razzismo e disumanità riportate in primo piano dalla rivolta dei sindaci contro il sedicente “Decreto sicurezza”, dopo aver accusato i sindaci stessi di “tradimento”, ha detto: «È una legge che si deve applicare perché pienamente costituzionale: è stata firmata dal Presidente della Repubblica». Il sistema è collaudato: per infinocchiare i distratti basta dire una cosa reale e infarcirla e coprirla di falsità, oppure ricordarne soltanto una parte cancellando e nascondendo tutto quello che non fa comodo perché finirebbe per sgretolare le certezze che si vogliono trasmettere.

In questo la frase di Salvini è un esempio chiarissimo: è vero che Mattarella ha firmato la legge, ma è altrettanto vero che il ministro della paura ha taciuto molte altre realtà. Intanto che il Presidente può rifiutarsi di firmare soltanto se ci sono incontrovertibili elementi di incostituzionalità; se, invece, ci sono dei dubbi, per quanto forti e fondati, l’obbligo, anche per rispetto della diversità e separazione dei ruoli, è quello di permettere che la legge entri in vigore, lasciando poi alla Corte Costituzionale il compito di risolvere i dubbi di congruenza con la Carta fondamentale.

Salvini tace anche il fatto che l’iter di questa legge è stato molto tormentato con un testo che ha fatto avanti e indietro tra il Quirinale e il Viminale, per un numero di volte talmente alto che si è finito per perderne il conto, sempre con richieste, da parte di Mattarella, di correzioni di passaggi costituzionalmente inaccettabili e, di ritorno, con correzioni, sempre insufficienti, da parte di Salvini che, a denti stretti, cercava di ottenere una firma a qualsiasi costo.

E, ovviamente, il ministro degli Interni – che almeno per una volta potrebbe travestirsi con una felpa del Ministero degli Interni – non fa notare che la bocciatura di una legge da parte della Consulta non corrisponderebbe in alcun modo a una sconfessione dell’autorità presidenziale. Tant’è vero che nella vita della Repubblica sono state tantissime le leggi dichiarate parzialmente o totalmente incostituzionali, ma nessuno si è mai sognato di chiedere, per questo, le dimissioni del Presidente.

Sullo stesso tema dei migranti, e nella fattispecie sul rifiuto di far approdare le navi con a bordo 49 naufraghi nei porti italiani, è la dichiarazione di Di Maio che, pur di non dover lasciare quel posto comodo su cui si è assiso è dispostissimo a tradire tutto quello che aveva affermato in campagna elettorale. Questa volta, non sapendo cosa dire di intelligente, ha preferito ripararsi nell’assurdo. Sulla vicenda dei naufraghi che non possono scendere a terra, ha detto: «Abbiamo dato una lezione all’Europa» lasciando ai più abili decifratori e solutori di rebus il compito di capire di quale lezione stia parlando.

La prima ipotesi potrebbe essere quella di riferirsi a una lezione di inumana intransigenza salviniana, ma questa ipotesi non è molto accreditata, visto che Di Maio ha proposto di far sbarcare le donne e i bambini. Allora potrebbe essere una lezione di insensibile disumanità un po’ diversa, stante il fatto che propone di dividere famiglie già sofferenti e indebolite dal fatto di aver dovuto abbandonare la propria terra e di aver corso rischi altissimi pur di fuggire insieme per, sempre insieme, costruire una nuova vita. Ma anche questa ipotesi appare difficilmente sostenibile, visto che sia i diretti interessati, sia tutte le organizzazioni umanitarie, sia la Chiesa, sia i normali cittadini non obnubilati, hanno subito obiettato che non si può indebolire ulteriormente i soggetti deboli di una famiglia togliendo loro quello che, almeno teoricamente, dovrebbe essere il sostegno maggiore.

Altre ipotesi sono difficili da individuare, pur addentrandosi nei meandri dei ragionamenti di Di Maio, forse un po’ rilassato dalla vacanza in stazioni sciistiche dove soggiorna con Di Battista e da dove tuona contro i privilegiati che soggiornano nelle stazioni sciistiche. L’unica via d’uscita è rappresentata proprio dall’assurdo. Come, del resto, è assurdo che dall’Italia intera non si alzi un coro di pernacchie, davanti a tentativi di falso e a sciocchezze simili.

Forse per alcuni le pernacchie non posseggono quel grado di finezza necessario per interloquire con gentiluomini come Salvini e Di Maio, ma almeno una serie di palesi ed espliciti disaccordi sarebbero necessari per cominciare a uscire da questa nuova maledetta notte della Repubblica.

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giovedì 3 gennaio 2019

Resistenti e ribelli

Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha lanciato il guanto della sfida non tanto contro Salvini, quanto in difesa della civiltà. E altri sindaci l’hanno imitato, sospendendo l’applicazione del sedicente “Decreto sicurezza” che, in realtà, è soltanto il primo passo verso un mondo in cui la solidarietà non ha diritto d’asilo, in cui il “prima noi” ha in sé le esplicite radici di un “dopo gli altri” in cui la parola “altri” può gonfiare razzismi già esistenti che, se lasciati indisturbati, non si sa dove potrebbero portare e dove, in parte, hanno già portato.

Salvini ha risposto subito sibilando minacce di denunce e processi contro i sindaci perché «è una legge dello Stato che mette ordine e regole». Peccato che queste regole – visto che violano diritti individuali che diritti restano, anche se sono diritti di stranieri – siano nettamente in contrasto con i dettami Costituzionali, ma anche e soprattutto con le coscienze individuali. È vero: Orlando e colleghi, che il male e la malvagità continuano a non considerarli banali, ora rischiano denunce, processi e forse anche la revoca del mandato; ma tutto questo inevitabilmente porterà questa legge schifosa davanti alla Corte costituzionale.

Al di là, comunque, degli aspetti legali e procedurali, merita soffermarsi a pensare cosa sarebbe potuto succedere se ai tempi delle leggi razziste di Mussolini molti si fossero opposti clamorosamente, se fossero stati più di otto i docenti universitari che avessero rifiutato di obbedire agli ordini del regime. Sicuramente all’inizio ci sarebbero stati più carcerati e disoccupati, ma anche molti di più avrebbero avuto lo stimolo a pensare a cosa stava succedendo e a mettere sulla bilancia non soltanto la convenienza, ma, sull’altro piatto, anche la propria umanità. Forse la Resistenza sarebbe cominciata molto prima e avrebbe risparmiato molti più lutti futuri.

Vorrei ricordare che la Resistenza non è stata una rivolta, perché la sua repentina fiammata iniziale non si è rapidamente esaurita, e nemmeno una rivoluzione perché è scaturita quasi spontaneamente, senza lunghe preparazioni filosofiche e politiche. È stata, però – raro esempio nel mondo e nella storia – la sommatoria di queste due cose perché ha chiamato subito in campo tantissima gente chiedendo anche sacrifici estremi, e poi ha saputo allungare i suoi benefici influssi per sempre, mi piacerebbe poter dire; anche se in realtà questo è durato solo alcuni decenni, lasciando comunque in buona parte della popolazione la voglia di resistere ancora per difendere la propria dignità, libertà e indipendenza.

C’è una netta linea di demarcazione tra rivolte e rivoluzioni: sono diverse in termini di dimensioni, ma anche di respiro e progettualità. Se la rivolta, infatti, è localizzata, quasi istintiva e limitata al raggiungimento di alcuni risultati pratici, la rivoluzione non ha necessariamente bisogno della violenza perché porta con sé grandi obbiettivi ideali e punta a cambiare profondamente la società in cui si sviluppa, soprattutto dal punto di vista sociale e, quindi, etico.

Esiste, quindi, una differenza anche tra rivoltosi e rivoluzionari. Ma i resistenti, in realtà hanno ancora qualcosa di più della somma delle caratteristiche di queste due categorie. In realtà sono “ribelli”, e non soltanto perché l’azione del resistere ha in sé una connotazione quasi passiva, di attesa, mentre il ribellarsi fa trasparire ben chiara la decisione di fare qualcosa, di impegnarsi in prima persona.

Ma un’altra diversità risiede nel fatto che, mentre la rivoluzione ha una natura necessariamente collettiva, quella del ribelle è sempre una condizione individuale, tanto che il ribelle tende a restare tale anche quando la spinta propulsiva della rivoluzione di cui è stato parte attiva si esaurisce. Perché è inevitabile che, visto che anche le rivoluzioni sono momenti dialettici della storia, nessuna rivoluzione potrà mai riuscire, da sola, a rispondere ai problemi di un tempo che non è più il suo; magari anche in uno spazio che non è più il suo.

Ma, anche se la rivoluzione finisce, il ribelle resta tale e si distingue dal rivoluzionario. Quest’ultimo, infatti, può essere tanto indissolubilmente legato all’ideologia della sua rivoluzione da diventarne quasi prigioniero e da estremizzarla oltre ogni limite. A tale proposito, basterebbe ricordare il terrore giacobino che, in pratica, oltre a decine di migliaia di francesi, ha ucciso anche la stessa Rivoluzione francese. Ma anche guardare ai tanti che hanno votato sentendosi rivoluzionari perché pensavano a un mondo nuovo e migliore e che ora, davanti a tante promesse tradite, a tanta incapacità, a tanti ideali trascinati nel fango, si ostinano a ritenere più importante il non ammettere di aver sbagliato, che proclamare la propria lontananza dai razzismi, o dalle complicità con i razzismi.
Il ribelle, invece, è colui che sceglie la strada della resistenza ogniqualvolta si trova di fronte a un potere che sente iniquo; anche se è lo stesso potere prodotto dalla rivoluzione per la quale ha lottato. Il vero resistente, infatti, ha un’inesauribile esigenza di sincerità e, quindi, di libertà.

D’altro canto, appare anche evidente che un uomo deve essere già libero, per poter desiderare di diventarlo. Questo enunciato a prima vista può apparire paradossale, ma, in realtà, è soltanto la constatazione che, visto che di aneliti alla libertà non c’è traccia biochimica nel DNA di ognuno di noi, è evidente che per lottare per la libertà ci vogliono istruzione, memoria, conoscenza ed educazione, quasi sempre assimilate già in gioventù. In una parola, cultura; che è cosa ben diversa dall’erudizione.

In tutto questo non è possibile sottrarsi dall’obbligo di chiederci: quando è lecito ribellarsi? Quando si può essere davvero certi che la propria percezione di iniquità nei confronti del potere che ci si trova di fronte sia tale da consentirci di resistere, da concretizzare il diritto di resistenza? Un diritto che è addirittura statuito in alcune Costituzioni come, per esempio, in quella tedesca che all’articolo 20 recita: «Tutti i tedeschi hanno diritto di resistenza contro chiunque si appresti a sopprimere l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio». Comunque sul quando sia lecito resistere è obbligatorio riflettere, anche se appare facile dare una risposta nel momento in cui ci si trova di fronte a un’invasione di diritti. Nostri o altrui che siano, perché tutti i diritti, compreso quello di resistenza, devono toccare ogni cittadino, senza eccezioni. Altrimenti diventano privilegi per chi li ha.

E non si può dimenticare che il frutto della Resistenza si estrinseca nella nostra Costituzione, voluta da chi ha saputo trasformare quel drammatico modo quotidiano di vivere e combattere di oltre settant’anni fa in pacifica pratica giornaliera difendendo libertà, democrazia, lavoro, uguaglianza, dignità, giustizia, solidarietà, equità sociale e pari opportunità, nel rispetto delle diversità e del pluralismo; battendosi per i diritti umani di tutti e non soltanto di determinati, pur vasti, gruppi razziali, religiosi, linguistici culturali, o economici. Come ha magnificamente ricordato poche sere fa il Presidente Mattarella.

E a tale proposito non si può non sottolineare che la Resistenza che festeggiamo il 25 aprile non è di tutti. Non è e non sarà mai di chi a questi valori – anche a uno soltanto di questi valori – si oppone. I partigiani nella loro lotta hanno compreso l’enorme valore del “diritto di resistenza” e ne hanno fatto tesoro tanto da elaborarlo in “dovere di resistenza” in ogni giornata della loro vita. Perché per un uomo ogni diritto, se è davvero tale, una volta conquistato non può non diventare un dovere nei confronti propri e di tutti gli altri.

Sono antiche lezioni di umanità di cui ormai non si parla quasi più e che invece dovrebbero essere ripetute ogni giorno, fino alla nausea mettendole in pratica e difendendo, con forza e senza nascondersi, chi le mette in pratica, chi fa Resistenza civile, cioè Ribellione. Con la certezza che, rubando le parole a Roberto Vecchioni, «questa maledetta notte dovrà pur finire; perché la riempiremo noi, da qui, di musica e parole»


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martedì 1 gennaio 2019

Non illudiamoci

Tante volte tra l’ultimo giorno del 2018 e il primo del 2019, ho fatto gli auguri «di un buon anno nuovo, che sia migliore di questo appena passato». E mi sono sentito rispondere: «Peggio è impossibile». Non è vero. Non illudiamoci perché può peggiorare ancora. E di tanto.

Pensate, forse, che improvvisamente coloro per i quali il guadagno a ogni costo è più importante del bene del mondo rinsaviranno e la temperatura media della Terra tornerà a livelli più accettabili e meno rischiosi per la sopravvivenza del pianeta?

Credete che forse africani e mediorientali la finiranno di scappare dalle loro terre per guerre, violenze, torture, repressioni, fame, malattie, solo perché Salvini, rispondendo a Mattarella che aveva detto che la sicurezza c’è solo «se tutti si sentono rispettati», e la si realizza «preservando e garantendo i valori positivi della convivenza», ha detto che lui ha reso più sicuri i confini italiani, confondendo sfrontatamente e bambinescamente il significato di “sicuro” con quello di teoricamente “chiuso”?

Ritenete, per caso, che improvvisamente reddito di cittadinanza e pensioni decurtate, anche se agganciate alla fantomatica “quota 100”, oltre a dare agiatezza a tutti gli italiani, faranno nuovamente aumentare il lavoro, unico vero mezzo per ottenere denaro e soprattutto dignità?

Avete l’idea che la riduzione dei controlli sulle gare d’appalto favorirà la scomparsa della corruzione e il miglioramento della qualità delle opere da realizzare?

E si potrebbe andare avanti ancora a lungo con l’elenco delle domande retoriche, ma l’anno è appena cominciato e non è giusto rattristarlo ulteriormente mentre sta appena aprendo gli occhi.

Ma un’ultima sollecitazione ve la voglio suggerire. Pensate a come potrebbe andare peggio se non ci fosse – ed è paradossale dirlo – questo assurdo equilibrio frenante tra la malvagità e l’incapacità, entrambe contemporaneamente al potere. Pensate a come potrebbe andare se soltanto una delle due parti – quella più malvagia, o quella più incapace fosse al comando da solo. Pensate anche che questo si sarebbe potuto realizzare già a marzo se fosse andata in porto la riforma elettorale renziana che prevedeva un ballottaggio tra i due partiti più votati. E pensate pure che oggi chi sta meglio nelle previsioni di voto, almeno secondo i sondaggi, potrebbe essere tentato di riproporre una soluzione maggioritaria. È inutile girarci intorno: è in ballo la democrazia.

L’ultima domanda che voglio porre oggi è: pensate che tutto questo sia ineluttabile? No. Non lo è, sempre che si continui ad avere fiducia nei cittadini e che si faccia qualcosa per impedirlo, per tornare a far pensare la gente. Per far capire che quando uno dice «Prima gli italiani», implicitamente dice anche «Chi non è italiano arriva dopo». E che se si sostituisce – e non è fantascienza – la parola “italiani” con altre parole come “bianchi”, “cristiani”, “uomini”, “eterosessuali”, “normali”, e così via, cioè un gruppo ipotetico con un altro grippo ipotetico, si capisce subito che le esclusioni diventano qualcosa che non soltanto è assai simile, ma finisce per coincidere con l’intolleranza e con il razzismo.

Due gli impegni da assumere. Il primo è non lasciare mai che le parole siano falsificate e usate come clave per massacrare la lingua e la società alla ricerca di utilità personali e/o di gruppo. Il secondo è ribellarsi esplicitamente davanti al pericolo maggiore che è quello di perdere anche la democrazia che è l’unico ancoraggio, assieme alla coscienza che spesso il popolo italiano ha saputo ritrovare la via e se stesso proprio nei momenti peggiori, l’unico ancoraggio, dicevo, che ci può dare ancora speranza che da questa situazione si possa uscire in maniera non traumatica. Forse, se a ribellarsi sempre più spesso sarà la gente comune, il messaggio comincerà ad arrivare anche a quelli che, illudendosi di avere ancora in mano poteri ormai in realtà vaporizzati, si estraniano dal mondo reale per giocare a uno sterile Risiko politico all’interno di stanze in cui regna un’atmosfera stantia. Uscissero e respirassero l’aria che gira davvero nel mondo, forse comincerebbero a capire che bisogna lavorare tutti insieme perseguendo prima gli obbiettivi fondamentali e rimandando a dopo la definizione dei particolari.

Soltanto così – ed è il mio augurio di buon anno per tutti – potremmo scongiurare il pericolo che il 2019 possa essere peggiore del già orrendo 2018.


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