lunedì 21 gennaio 2019

Né indifferenza, né odio

È come sentirsi sbalzare da un universo a un altro, da un mondo familiare a uno alieno che con il primo ha pochissimi addentellati; quasi nessuno. Finire di leggere “Scolpitelo nel vostro cuore”, di Liliana Segre e poi, subito dopo, aprire un giornale e sentirsi imbrattare dalle dichiarazioni di Salvini è come ricevere un pugno nello stomaco.
 
Prima si respira a pieni polmoni e ci si illumina per frasi come «Per un futuro senza indifferenza e senza odio», e «Mi rifiuto di pensare che oggi la nostra civiltà democratica possa essere sporcata da progetti di leggi speciali contro i popoli nomadi». Poi si sprofonda in un buio maleodorante quando si è colpiti da espressioni di disumana spietatezza come «E cosa dovevano fare? Offrirgli cappuccio e brioches?», riferendosi al trentaduenne tunisino morto per un malore mentre era nelle mani della polizia con le manette ai polsi e con una corda che gli legava le caviglie. Oppure come «Sono tornate le Ong, gli scafisti tornano a fare affari e a uccidere. Io non torno indietro: i numeri mi danno ragione», come unico commento alla morte per annegamento di oltre 170 migranti affondati in due naufragi nel Mediterraneo e scomparsi tra le onde gelide. Sono questi i numeri di cui Salvini parla? Il ministro della paura si rende conto che quei numeri sono vite umane e che vanno moltiplicati a dismisura per il dolore che da quelle morti si irradia ad agghiacciare madri, padri, mogli, mariti, figli, fratelli, amici, in una sofferenza che non è assolutamente diversa da quella dei genitori spagnoli che hanno visto il loro bimbo di due anni inghiottito da un pozzo?

Sono 170 i morti in una sola giornata: tutti, meno quattro, risucchiati dalle acque mentre aspettavano invano i teorici soccorritori libici, quelli ai quali Salvini ha pensato di delegare le sue – e purtroppo anche le nostre – responsabilità pagandoli invano, ma profumatamente, con i soldi delle nostre tasse, che una volta servivano per salvare i migranti naufraghi e che ora servono a farli morire. «Così – sogghignava una volta il Fregoli delle divise – capiranno che non è il caso di mettersi in mare».

Sono davvero mondi impossibili da avvicinare che finiscono per provocare uno stato di ansia crescente. Intanto perché mai si sarebbe pensato che si potesse retrocedere tanto e tanto velocemente sulla via del progresso umano e sociale. Poi in quanto, se era prevedibile che prima o poi sulla strada dell’umanità si potesse nuovamente presentare un essere che della propria disumanità si fa vanto e la eleva a metodo di vita, molto meno ipotizzabile era che, come al tempo del fascismo, ci fosse tanta gente disposta a lasciarsi indottrinare e a gettare nell’immondizia la propria umanità e dignità pur di sentirsi nel gruppo dei teorici e comunque temporanei vincitori. Che ci fossero anche partiti che, pur di restare agganciati al potere, sconfessano non tanto se stessi, quanto le promesse elettorali che avevano fatto.

È soprattutto su questo che occorre ragionare e tentar di capire, perché oggi, tra giornali, radio, televisioni, siti internet, social, nessuno potrà tentare l’alibi di dire che non sapeva cosa stava succedendo. Per dirla con il catechismo che ci hanno insegnato da bambini, oltre alla materia grave, ci sono, indubitabilmente, anche la piena avvertenza e il deliberato consenso. Ed è anche questa consapevolezza che rende difficile, sia dimenticare gli insegnamenti di una storia che sempre più da vicino ci ricorda momenti che avremmo voluto cancellare dalla memoria, sia cercare un dialogo che dia nuova ragionevolezza e solidarietà a persone che ormai, non appena tocchiamo qualche argomento serio, sentiamo aliene e non soltanto perché sembrano parlare un’altra lingua, ma in quanto sono proprio i modi di ragionare che sono diversi perché partono da valori addirittura divergenti, da scale di importanza che poco possono avere in comune perché sono le basi che le sostengono a essere poggiate su terreni incompatibili, come incompatibile è il dare la prevalenza all’umanità, o darla all’economia, il ritenere che siamo tutti uguali, o il pensare che ci siano esseri umani di serie A ed esseri umani di serie B. Magari senza rendersi conto che è proprio questa la base del razzismo; anzi, che è razzismo tout court.

Liliana Segre, reduce da Auschwitz e dai tanti disonesti negazionismi, o dagli assurdi tentativi di cancellare un orrore contrapponendogli un altro di segno opposto, raccomanda di volere «un futuro senza indifferenza e senza odio» e, a prima vista, potrebbe sembrare facile, se davanti alle stragi del Mediterraneo si fa fatica a trattenere le lacrime e se si ha ben presente che odiare vuol dire volere il male di qualcuno. Molto più difficile, se si vuole tentar di cambiare questa situazione, è superare il disprezzo che, in definitiva è un odio ripulito dal desiderio di vendetta, o, comunque, di veder soffrire quello che consideriamo un nemico. Ed è innegabile che per Salvini e i suoi complici e fiancheggiatori provo un disprezzo che mi rende difficile anche respirare la loro stessa aria.

Fatte le debite proporzioni, però, bisognerebbe essere come la Segre che, a un certo punto, si è trovata di fronte il proprio aguzzino disarmato e in fuga e ha avuto la lucida umanità di non raccogliere la sua pistola e sparargli. «Potevo farlo. È stato un attimo – dice – ma poi ho capito. Io non ero come lui».

È un insegnamento grandissimo: l’importante non è l’esultanza del momento della vittoria, ma – e questo dovrebbero capirlo anche i politici del centrosinistra – è riuscire a saper far fruttare la propria vittoria per far vincere anche tutti gli altri, la democrazia, l’umanità.


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