Il sindaco di
Palermo Leoluca Orlando ha lanciato il guanto della sfida non tanto
contro Salvini, quanto in difesa della civiltà. E altri sindaci l’hanno
imitato, sospendendo l’applicazione del sedicente “Decreto sicurezza”
che, in realtà, è soltanto il primo passo verso un mondo in cui la
solidarietà non ha diritto d’asilo, in cui il “prima noi” ha in sé le
esplicite radici di un “dopo gli altri” in cui la parola “altri” può
gonfiare razzismi già esistenti che, se lasciati indisturbati, non si sa
dove potrebbero portare e dove, in parte, hanno già portato.
Salvini ha risposto subito sibilando
minacce di denunce e processi contro i sindaci perché «è una legge
dello Stato che mette ordine e regole». Peccato che queste regole –
visto che violano diritti individuali che diritti restano, anche se sono
diritti di stranieri – siano nettamente in contrasto con i dettami
Costituzionali, ma anche e soprattutto con le coscienze individuali. È
vero: Orlando e colleghi, che il male e la malvagità continuano a non
considerarli banali, ora rischiano denunce, processi e forse anche la
revoca del mandato; ma tutto questo inevitabilmente porterà questa legge
schifosa davanti alla Corte costituzionale.
Al di là, comunque, degli aspetti
legali e procedurali, merita soffermarsi a pensare cosa sarebbe potuto
succedere se ai tempi delle leggi razziste di Mussolini molti si fossero
opposti clamorosamente, se fossero stati più di otto i docenti
universitari che avessero rifiutato di obbedire agli ordini del regime.
Sicuramente all’inizio ci sarebbero stati più carcerati e disoccupati,
ma anche molti di più avrebbero avuto lo stimolo a pensare a cosa stava
succedendo e a mettere sulla bilancia non soltanto la convenienza, ma,
sull’altro piatto, anche la propria umanità. Forse la Resistenza sarebbe
cominciata molto prima e avrebbe risparmiato molti più lutti futuri.
Vorrei ricordare che la Resistenza
non è stata una rivolta, perché la sua repentina fiammata iniziale non
si è rapidamente esaurita, e nemmeno una rivoluzione perché è scaturita
quasi spontaneamente, senza lunghe preparazioni filosofiche e politiche.
È stata, però – raro esempio nel mondo e nella storia – la sommatoria
di queste due cose perché ha chiamato subito in campo tantissima gente
chiedendo anche sacrifici estremi, e poi ha saputo allungare i suoi
benefici influssi per sempre, mi piacerebbe poter dire; anche se in
realtà questo è durato solo alcuni decenni, lasciando comunque in buona
parte della popolazione la voglia di resistere ancora per difendere la
propria dignità, libertà e indipendenza.
C’è una netta linea di demarcazione
tra rivolte e rivoluzioni: sono diverse in termini di dimensioni, ma
anche di respiro e progettualità. Se la rivolta, infatti, è localizzata,
quasi istintiva e limitata al raggiungimento di alcuni risultati
pratici, la rivoluzione non ha necessariamente bisogno della violenza
perché porta con sé grandi obbiettivi ideali e punta a cambiare
profondamente la società in cui si sviluppa, soprattutto dal punto di
vista sociale e, quindi, etico.
Esiste, quindi, una differenza anche
tra rivoltosi e rivoluzionari. Ma i resistenti, in realtà hanno ancora
qualcosa di più della somma delle caratteristiche di queste due
categorie. In realtà sono “ribelli”, e non soltanto perché l’azione del
resistere ha in sé una connotazione quasi passiva, di attesa, mentre il
ribellarsi fa trasparire ben chiara la decisione di fare qualcosa, di
impegnarsi in prima persona.
Ma un’altra diversità risiede nel
fatto che, mentre la rivoluzione ha una natura necessariamente
collettiva, quella del ribelle è sempre una condizione individuale,
tanto che il ribelle tende a restare tale anche quando la spinta
propulsiva della rivoluzione di cui è stato parte attiva si esaurisce.
Perché è inevitabile che, visto che anche le rivoluzioni sono momenti
dialettici della storia, nessuna rivoluzione potrà mai riuscire, da
sola, a rispondere ai problemi di un tempo che non è più il suo; magari
anche in uno spazio che non è più il suo.
Ma, anche se la rivoluzione finisce,
il ribelle resta tale e si distingue dal rivoluzionario. Quest’ultimo,
infatti, può essere tanto indissolubilmente legato all’ideologia della
sua rivoluzione da diventarne quasi prigioniero e da estremizzarla oltre
ogni limite. A tale proposito, basterebbe ricordare il terrore
giacobino che, in pratica, oltre a decine di migliaia di francesi, ha
ucciso anche la stessa Rivoluzione francese. Ma anche guardare ai tanti
che hanno votato sentendosi rivoluzionari perché pensavano a un mondo
nuovo e migliore e che ora, davanti a tante promesse tradite, a tanta
incapacità, a tanti ideali trascinati nel fango, si ostinano a ritenere
più importante il non ammettere di aver sbagliato, che proclamare la
propria lontananza dai razzismi, o dalle complicità con i razzismi.
Il ribelle, invece, è colui che
sceglie la strada della resistenza ogniqualvolta si trova di fronte a un
potere che sente iniquo; anche se è lo stesso potere prodotto dalla
rivoluzione per la quale ha lottato. Il vero resistente, infatti, ha
un’inesauribile esigenza di sincerità e, quindi, di libertà.
D’altro canto, appare anche evidente
che un uomo deve essere già libero, per poter desiderare di diventarlo.
Questo enunciato a prima vista può apparire paradossale, ma, in realtà,
è soltanto la constatazione che, visto che di aneliti alla libertà non
c’è traccia biochimica nel DNA di ognuno di noi, è evidente che per
lottare per la libertà ci vogliono istruzione, memoria, conoscenza ed
educazione, quasi sempre assimilate già in gioventù. In una parola,
cultura; che è cosa ben diversa dall’erudizione.
In tutto questo non è possibile
sottrarsi dall’obbligo di chiederci: quando è lecito ribellarsi? Quando
si può essere davvero certi che la propria percezione di iniquità nei
confronti del potere che ci si trova di fronte sia tale da consentirci
di resistere, da concretizzare il diritto di resistenza? Un diritto che è
addirittura statuito in alcune Costituzioni come, per esempio, in
quella tedesca che all’articolo 20 recita: «Tutti i tedeschi hanno
diritto di resistenza contro chiunque si appresti a sopprimere
l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio».
Comunque sul quando sia lecito resistere è obbligatorio riflettere,
anche se appare facile dare una risposta nel momento in cui ci si trova
di fronte a un’invasione di diritti. Nostri o altrui che siano, perché
tutti i diritti, compreso quello di resistenza, devono toccare ogni
cittadino, senza eccezioni. Altrimenti diventano privilegi per chi li
ha.
E non si può dimenticare che il
frutto della Resistenza si estrinseca nella nostra Costituzione, voluta
da chi ha saputo trasformare quel drammatico modo quotidiano di vivere e
combattere di oltre settant’anni fa in pacifica pratica giornaliera
difendendo libertà, democrazia, lavoro, uguaglianza, dignità, giustizia,
solidarietà, equità sociale e pari opportunità, nel rispetto delle
diversità e del pluralismo; battendosi per i diritti umani di tutti e
non soltanto di determinati, pur vasti, gruppi razziali, religiosi,
linguistici culturali, o economici. Come ha magnificamente ricordato
poche sere fa il Presidente Mattarella.
E a tale proposito non si può non
sottolineare che la Resistenza che festeggiamo il 25 aprile non è di
tutti. Non è e non sarà mai di chi a questi valori – anche a uno
soltanto di questi valori – si oppone. I partigiani nella loro lotta
hanno compreso l’enorme valore del “diritto di resistenza” e ne hanno
fatto tesoro tanto da elaborarlo in “dovere di resistenza” in ogni
giornata della loro vita. Perché per un uomo ogni diritto, se è davvero
tale, una volta conquistato non può non diventare un dovere nei
confronti propri e di tutti gli altri.
Sono antiche lezioni di umanità di
cui ormai non si parla quasi più e che invece dovrebbero essere ripetute
ogni giorno, fino alla nausea mettendole in pratica e difendendo, con
forza e senza nascondersi, chi le mette in pratica, chi fa Resistenza
civile, cioè Ribellione. Con la certezza che, rubando le parole a
Roberto Vecchioni, «questa maledetta notte dovrà pur finire; perché la
riempiremo noi, da qui, di musica e parole»
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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