martedì 20 novembre 2018

Uno vale uno?

Ogni tanto, a vedere lo sfascio, anche economico, ma soprattutto etico e sociale, che Salvini, il suo complice Di Maio e il loro ossequiente portavoce Conte, stanno facendo dell’Italia, il nostro Paese, ti viene il pensiero di riavvicinarti al PD. Non di iscriversi, per carità, ma di avvicinarsi sì.

Questi i pensieri che si agitano nella mente che cerca ogni possibile via d’uscita, per quanto improbabile possa essere. Bene o male, almeno è un partito che ha ancora, stando ai sondaggi, un 18 per cento di consensi e, quindi, non si deve ripartire da zero. Bene o male, almeno è un partito che era nato a sinistra e, quindi, nel DNA qualcosa dei geni originali deve essergli rimasto. Bene o male, almeno è un partito che ancora candida alcune persone non del tutto ignoranti e non del tutto prive di pudore. Bene o male, almeno sembra che Renzi non ci sia più. E così via.

Poi, per fortuna, arriva Dario Corallo, rampante trentenne candidato alla segreteria del partito, e rimette subito le cose a posto.

L’ambizioso Corallo, infatti, un po’ per convinzione, un po’ per far parlare e scrivere di sé, dal pulpito dell’Assemblea PD attacca Burioni, medico virologo al quale dobbiamo, almeno in parte, il fatto che, contrariamente ai desideri dei “no vax” siamo ancora abbastanza protetti contro le malattie infettive, quelle che un secolo fa mietevano migliaia di vittime e che, prima dei colpi di genio degli antivaccini, avevano quasi cancellato dalla faccia della terra alcuni di quei terribili morbi. E la reazione dei compagni (non so se si può dire ancora così) di partito è stata ancora più sconcertante della sua uscita, visto che una parte non irrilevante del PD si è schierata al suo fianco, o, almeno, non lo ha sconfessato.

La cosa che colpisce non è l’affermazione implicita che, tutto sommato, questi vaccini non sono proprio necessari, ma il modo in cui Burioni è stato accusato di «bullismo verbale». Corallo ha detto che questa è «una sinistra arrogante» e poi ha spiegato che, sul piano scientifico, con il virologo «il 99 per cento delle persone non può competere e noi ci siamo limitati a raccontare l’un per cento del popolo, mentre l’altro 99 per cento lo abbiamo umiliato, come un Burioni qualsiasi».

Ancora una volta il PD, o almeno una sua parte, non ha una propria linea, ma si mette a copiare chi in questo momento sembra avere successo. Dopo che Minniti si è ispirato a Salvini per affrontare la questione dei migranti, questa volta ci troviamo davanti all’applicazione classica di quell’“uno vale uno” che è stata la parte fondamentale dell’ascesa dei grillini che ora, però, dimostrano abbondantemente che, quando si tratta di cose tangibili, di conoscenze applicative, non siamo assolutamente tutti uguali. E, infatti, non accusavamo il maestro di averci umiliati se, dopo avergli detto che 2 più 2 fa 5, ci vedevamo appioppare un pessimo voto; e, se stiamo male, andiamo a farci visitare da un medico e non dal primo passante che incontriamo per strada.

L’uno vale uno, come mirabilmente spiega Michela Murgia nel suoironico e corrosivo “Istruzioni per diventare fascisti”, è il metodo più sicuro per cancellare la possibilità che una voce particolarmente ispirata, razionale e credibile, riesca a far pensare gli elettori, ottenga di farli andare alle urne non seguendo la rabbia della delusione, ma i propri principi e il ragionamento.

«Se l’ostacolo che la contemporaneità mette allo svi¬luppo del fascismo – scrive la Murgia – è che adesso, in democrazia, tutti, e non solo il capo, hanno un modo per far sentire la propria voce, forse la soluzione più fascista è proprio quella di farli parlare. Ma sem¬pre, però. Tutti. Contemporaneamente. Su tutto. Sen¬za la minima gerarchia di autorevolezza tra opinioni. Se milioni di persone che prima avevano la televisione e i giornali come punti di riferimento oggi stanno sui social network di continuo e commentano, condivido¬no, apprezzano o dissentono, non c'è alcuna ragione per impedirglielo, perché è proprio il fatto che lo facciano tutti a rendere la voce di ciascuno indistinguibile dalle altre e in definitiva ininfluente».

E continua: «Se convinciamo tutti che uno vale uno, alla fine nessuno varrà più di un altro e ogni cosa, idee e persone, sarà perfettamente in¬tercambiabile, come se la si estraesse a caso da un maz¬zo di carte identiche. Occorre minare ogni principio di autorevolezza tra i pareri, dunque, affinché vero e falso non siano più distinguibili in base a chi li afferma, ma per farlo sarà essenziale demolire le figure pubbliche che hanno un’autorità morale o scientifica, cioè quelli che pensano di saperne più degli altri». E che magari lo sanno davvero.

Ancora una volta appare evidente che resistere passivamente ormai non basta più. Occorre davvero ribellarsi dicendo no a chi sta distruggendo ogni residuo di democrazia vera perché cosciente.

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venerdì 16 novembre 2018

Registratori, araldi e giornalisti

«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». È la prima parte dell’articolo 21 della nostra Costituzione e merita riportarne il testo in un momento in cui una parte della politica italiana, insofferente alle critiche, aggredisce i giornalisti definendoli, con garbo, «sciacalli» e «puttane». Il “governo del cambiamento”, insomma, anche in questo non cambia nulla: i grillini imitano quello che avevano già fatto Berlusconi e Renzi alzando alti lamenti perché qualcuno si permette di criticare le loro scelte; ma ci aggiungono offese e turpiloquio. E non illuda il fatto che Salvini stranamente si dissoci da questo modo di parlare: se oggi, pur non avendo mai amato i giornalisti, è in disaccordo con Di Maio lo fa soltanto perché questo rientra perfettamente nella sua strategia ormai palese di attaccare e logorare l’alleato-servitore di governo.

Non avrebbe molto senso, quindi, tornare su questa antica difficoltà di rapporti tra politica e stampa, tra chi decide e chi pensa di poter valutare le decisioni e, se del caso, di criticarle. E neppure potrebbe spingere verso ulteriori approfondimenti l’uso di epiteti che evidentemente gli attuali capi grillini si sentono in dovere di mutuare dal capostipite Grillo. È importante, invece, mettere a fuoco che oggi Di Maio, Di Battista, Grillo, la Casaleggio Associati e molti loro dipendenti vorrebbero che l’articolo 21 fosse applicato a tutti i cittadini, ma non ai giornalisti; perché è a loro che viene rimproverato il fatto di sentirsi in «diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

Una fetta dei 5stelle, infatti, vorrebbe vedere il giornalista come puro registratore dei fatti, o, magari, come araldo che non cita tutti i fatti che talvolta si commentano già da soli. Ma così non è e non può essere anche perché, pur se il pubblicista Di Maio probabilmente non lo sa, nella nostra professione la deontologia non solo è importante, ma addirittura fondamentale perché, nel dare una notizia, il giornalista non può mai dimenticare che il rapporto tra informatore e informato deve essere regolato da quelle norme di comportamento che vanno sotto il nome di deontologia ma che, più semplicemente, rientrano del campo dell’etica.
 

Professionalità giornalistica, infatti, non significa soltanto saper trovare e verificare le notizie e poi tradurle in un brano letterariamente valido e in un titolo accattivante, inseriti in una pagina graficamente gradevole: potrebbe farlo chiunque, e con non eccessivo addestramento. Perché un mestiere diventi professione deve poggiare, invece, su un solido substrato etico. E, per dare contorni più definiti al tema, dico anche che l’obbligo di una moralità, di una deontologia, esiste non perché la professione giornalistica nasca per educare, ma perché, se questa eticità manca, ne consegue, in maniera praticamente automatica, che finisce per diseducare. Lo si vede succedere ogni giorno.

Oggi da varie parti, soprattutto da alcuni dei 5stelle, si sta chiedendo a gran voce l’abolizione del nostro Ordine professionale. Grillo e soci non lo fanno puntando a un miglioramento, ma soltanto per cancellare quel residuo di preparazione e deontologia che sono la base sulla quale un Ordine deve rendersi garante verso gli esterni della rigorosità professionale dei propri iscritti. Quando i grillini attaccano un giornale auspicandone la chiusura, in realtà puntano a rimuovere, almeno temporaneamente, ogni tipo di controllo nel nome di una libertà comunicativa che, in realtà, è soltanto arbitrio da parte di chi in quel momento è più forte. Temporaneamente, perché ogni potere, quando diventa tale, trova poi comodo controllare quello che è raccontato, perché sia aderente al cosiddetto “storytelling”, mentre sono diffusissime le “fake-news”, infestanti e combattute soltanto se provengono da campi avversi.

Ralf Dahrendorf, in “Dopo la democrazia”, ha sostenuto che i media devono essere estremamente liberi, oltre che rigorosi, perché nella realtà hanno assunto alcune funzioni di collegamento tra elettori ed eletti che sono state abbandonate dai partiti politici, ormai allo sfascio anche come cinghie di trasmissione tra i cittadini e il potere. Ed è evidente che la delicatezza di questo compito non può lasciare spazio al dolo, ma nemmeno all’approssimazione. Perché, se è vero che il giornalista dovrebbe essere una specie di testimone e traduttore che porta i fatti dal luogo dove succedono agli occhi e alle orecchie dei fruitori, rendendoli intellegibili, è altrettanto vero che a un professionista non si può soltanto chiedere di essere onesto relatore di ciò che vede. Gli si deve domandare anche di rendere i fatti più comprensibili, eliminando le parti inessenziali, individuando eventuali collegamenti con altre notizie, rovistando nella memoria per scovare eventuali precedenti o precursori, ragionando per prevedere possibili conseguenze e commentandole, ribattendo con fermezza ad affermazioni mistificanti da parte di protagonisti e intervistati. 

Altrimenti - ed è quello che vorrebbero i grillini, ma non soltanto loro - ci si riduce al colpevole ruolo di cassa di risonanza, o, alternativamente, a seconda dei comodi altrui, di sordina.

Ma perché i 5stelle si accaniscono soprattutto contro la carta stampata proprio mentre la crisi dei giornali si tocca con mano nel calo della maggior parte delle tirature e nella scomparsa di un numero impressionante di edicole? La risposta è semplice: perché la lettura di testi stampati su carta è ancora quella più congeniale ai ritmi del nostro cervello che può pensare anche mentre, con i suoi tempi, assorbe le parole e le frasi degli articoli. E l’atto del pensare, per chi comanda, è sempre visto come molto pericoloso.

Molto mi è piaciuta la frase scritta su un cartello portato da un giovane in una recente manifestazione: «Prima vennero a prendere i giornalisti. Chi hanno preso dopo, non lo sappiamo». E, visto che ormai resistere non è più sufficiente, ma serve ribellarsi, in maniera assolutamente non violenta, ma con alcuni no, vi prego: leggete! Come forma di disobbedienza civile.


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domenica 11 novembre 2018

Pubblicità regresso

Quando Giacomo Leopardi, ne “La ginestra”, metteva in dubbio, con malinconico sarcasmo, «le magnifiche sorti e progressive», non esprimeva uno sterile e pessimista rimpianto del passato, ma si dichiarava contrario non al progresso in quanto tale, bensì a coloro che lo vedevano come inarrestabile e positiva sostanza del presente, ignorando, però, del tutto le contraddizioni etiche, sociali ed economiche che tale sviluppo porta con sé; e, quindi, non pensando minimamente a correggerle. Affermava, in pratica, che non sempre quello che viene dopo è, per ciò stesso, progresso.

La cosa potrebbe anche essere accettata con una sorta di tranquillo disinteresse se non fosse che l’esperienza insegna che ogni cosa umana, se non progredisce, è inevitabilmente condannata a retrocedere. E oggi, mentre non è ancora finita una lunga e drammatica crisi non soltanto economica, questo regresso appare evidente in maniera addirittura smaccata, anche perché, in una sorta di “pubblicità regresso”, i passi indietro, le rinunce a conquiste costate sudore, lacrime e sangue, vengono presentati come nuove conquiste. E, se non stupisce che gli imbonitori tentino di subornare i possibili “acquirenti”, lascia annichiliti il fatto che in tanti si lascino convincere dalle loro parole, vuote e con scarsissimi addentellati con la realtà.

L’esempio più evidente è rappresentato dal mutare della sensibilità degli italiani nei confronti dei migranti che, pur di tentar di sopravvivere a guerre, fame, tirannie, torture e malattie, decidono di rischiare la vita attraversando il Mediterraneo su barconi totalmente inadatti e mettendosi nelle mani di personaggi privi di qualsiasi scrupolo. Ilvo Diamanti ha sottolineato come tre anni fa il 52 per cento degli italiani, nei confronti dei migranti in mare, aveva sentimenti di accoglienza, mentre erano il 40 per cento quelli che puntavano sul respingimento. Oggi, sotto la martellante propaganda di Salvini, con il suo pubblicitario «Prima gli italiani!», la situazione si è quasi esattamente invertita. E a nulla è servito sottolineare che i migranti via mare sono meno del 10 per cento del totale degli stranieri che arrivano in Italia ogni anno che, per la maggior parte, sono di sesso femminile. Come a nulla serve ribadire che l’Italia, tralasciando i Paesi del Gruppo di Visegrad, è agli ultimi posti in Europa come accoglienza calcolata sulla percentuale di presenza di stranieri rispetto al totale della popolazione.

Ma gli esempi di regresso si stanno moltiplicando ben al di là dell’accoglienza e stanno entrando pesantemente pure nella sfera privata della vita degli italiani. Un esempio clamoroso è offerto dal Ddl Pillon, un disegno di legge presentato, con il numero 735, dal senatore leghista Simone Pillon, fondatore del Family Day, il cui provvedimento, che fissa una serie di modifiche sull’affido condiviso dei figli in caso di separazione e di divorzio, è ora all’esame della Commissione Giustizia del Senato.

In breve, prevede l’eliminazione dell’assegno forfettario di mantenimento per il figlio disposto dal giudice, che sarebbe sostituito da una cifra calcolata sulle varie spese e perfettamente, ma iniquamente divisa tra i due genitori. I figli sarebbero obbligati a passare non meno di 12 giorni al mese con entrambi i genitori facendo la spola tra le due diverse abitazioni. Imporrebbe il ricorso obbligatorio a un mediatore familiare pagato dai genitori in via di separazione.

La prima considerazione è immediata e riguarda la disumanizzazione di tutti i protagonisti. Innanzitutto le prime vittime sono i figli che da bambini e ragazzi vengono trasformati in una sorta di pacchi, obbligati a vagare da una casa all’altra e magari da una città all’altra, con problemi evidentissimi, solo per citare i primi che balzano agli occhi, dal punto di vista di scuola, amicizie ed educazione. Ma ancora più grave appare il fatto che non avranno più una famiglia di riferimento, ma ne avranno due, magari in contrasto tra loro; quindi, praticamente nessuna. Senza contare il fatto che i 12 giorni a casa di uno dei due genitori potrebbero essere decisamente contrari alla loro volontà.

Disumanizzante è anche il meccanismo che fa cessare l’uguaglianza tra i coniugi e favorisce nettamente il genitore più ricco, statisticamente quasi sempre l’uomo, che potrà più facilmente ottemperare alla sua metà di contribuzione alle spese, ma che anche potrà, senza eccessivi sforzi, accollarsi la propria parte di spesa per la consulenza obbligatoria.

E qui merita sottolineare un particolare perché il senatore Pillon di professione è avvocato specializzato proprio nelle mediazioni familiari. Tanto che per promuovere la sua attività sul sito del proprio studio legale scrive: «È in corso di approvazione una modifica al codice civile che conferirà grande rilievo all’attività di mediazione nel corso dei procedimenti per la separazione dei coniugi». Nel Ddl proposto si prescrive che i coniugi con figli minori per separarsi dovranno essere, per legge, seguiti da un mediatore per una durata massima di sei mesi in un numero di sedute variabile di cui soltanto la prima sarebbe gratuita., mentre le altre sarebbero da pagare al mediatore e a carico delle due persone che si stanno separando con tariffe che evidentemente dipenderanno dai vari mediatori. Il mediatore, inoltre, dopo la prima seduta potrebbe escludere dagli incontri gli avvocati di parte. Sembra un’altra fulgida perla della ricchissima collana italiana di interessi privati in atti d’ufficio e di conflitti di interesse.

Forse il vecchio slogan di Borrelli, «Resistere! Resistere! Resistere!» è ormai inadeguato. Probabilmente è il momento di sostituire la resistenza con la ribellione. Assolutamente pacifica, per carità. Ma fondata su quell’esplosivo potenziale che è racchiuso nella disobbedienza civile, in quel “No” che sempre più appare come la più preziosa parola a nostra disposizione per difendere la democrazia e la società per la quale si è tanto lottato e combattuto. Per salvare, insomma, noi stessi e i nostri cari.


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lunedì 5 novembre 2018

Le friabilità di un Paese

Davanti ai disastri provocati dall’acqua e dal vento in Carnia, nel Bellunese e in altre parti d’Italia bisognerebbe riuscire a superare in fretta le prime, pur forti e stravolgenti, emozioni per cominciare a pensare immediatamente al futuro. Non può essere sufficiente per tutti noi, infatti, piangere per le vittime, o lamentarsi per i danni catastrofici da riparare e per le stagioni turistiche almeno in parte inevitabilmente compromesse. Né può bastare, per i politici, pensare di aver esaurito il proprio compito stanziando, pur faticosamente, qualche centinaio di milioni per ricostruire ciò che è andato perduto e per aiutare chi i danni li ha subiti in prima persona.
 
Ci sono, infatti, almeno due cose di ancor più grande importanza che tutti, sia i politici, sia coloro che ne determinano l’elezione, dovrebbero tener ben presente.

La prima consiste nel rendersi conto che la locuzione “mutamento climatico”, apparentemente legata soltanto a piccoli cambiamenti di abitudini meteorologiche, nasconde, invece, quella che è la maggiore e più terribile minaccia alla vera e propria sopravvivenza, se non del pianeta, almeno della nostra specie e della civiltà a essa legata. Non soltanto i disastri di questi giorni stanno cessando di essere eccezionali, per diventare una regola con episodi sempre più ravvicinati nel tempo, ma il progressivo innalzarsi della temperatura sta già spostando le necessità umane, animali e vegetali in maniera stravolgente e il cambiamento accelererà sempre di più. Sapere che tutto questo dipende quasi unicamente dall’incredibile aumento di emissioni nell’atmosfera di gas capaci di aumentare l’effetto serra dovrebbe farci capire che la strada sulla quale oggi stiamo camminando porta alla morte. Ma evidentemente sono tanti – e non sto parlando soltanto di Trump – a pensare soprattutto alla propria attuale comodità più che alla sopravvivenza di figli, nipoti e discendenti.

Ma se questa constatazione può darci qualche alibi di impotenza in quanto riguarda l’azione politica e sociale dell’intero pianeta, una seconda evidenza ci coinvolge molto più direttamente perché riguarda proprio i territori in cui viviamo e la loro amministrazione. Poche settimane fa, alla presentazione del libro “Sisma. Dal Friuli 1976 all’Italia di oggi”, geologi, ingegneri, tecnici e amministratori hanno convenuto che se il “modello Friuli” non è stato applicato anche in altre zone colpite dai terremoti, questo dipende in parte dal fatto che oggi non potrebbe più essere applicato nemmeno in Friuli. Nuove leggi, dilagare della burocrazia e ancora più aumentata attenzione a ciò che può procurare voti rispetto a quello che davvero potrebbe fare il bene della società hanno composto una miscela assolutamente esplosiva che dovrebbe essere disinnescata e che, invece, addirittura sta progressivamente aumentando la sua pericolosità.

Oggi tutti deprechiamo sdegnati che in Sicilia si sia lasciata in piedi una villetta nel greto di un corso d’acqua che, gonfiatosi, ha distrutto nove vite, ma vi invito a dare un’occhiata alle aree golenali dei corsi d’acqua nella nostra regione e a contare quanti edifici, abitativi, produttivi, o addirittura pubblici, vi sono stati costruiti. Senza contare le coltivazioni concesse su aree demaniali. E intanto la politica trucca la realtà con parole che hanno l’unico scopo di distogliere l’attenzione, di illudere che si sia fatto tutto, mentre – per bene che vada – si è appena cominciato a fare qualcosa.

Un esempio che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi è quello della “Protezione civile”, organizzazione più che benemerita, oltre che necessaria, ma che porta, però, un nome sicuramente sbagliato. “Protezione”, infatti, deriva da proteggere, dal latino pro (davanti, cioè prima) e tegere (coprire). Quindi proteggere vuol dire fare scudo, intervenire in anticipo e non a frittata già fatta, quando si tratta di raccogliere morti e feriti, di recuperare quel poco che non è stato distrutto, di fare i pesanti conti dei danni, di rattoppare alla bell’e meglio comunità che portano ferite tanto gravi da non riprendersi più, se non trasformandosi profondamente; e non sempre in meglio. In realtà la Protezione civile che conosciamo dovrebbe chiamarsi, più puntualmente, “Soccorso civile” e dovrebbe continuare a essere pronta a intervenire sui disastri perché mai l’uomo riuscirà a innalzarsi completamente sopra la natura e a evitarli del tutto. Ma accanto ci dovrebbe essere una vera e propria “Protezione civile” intesa non solo come organizzazione, ma anche e soprattutto come sincera filosofia politica che possa essere messa in condizioni di lavorare per la prevenzione. Una “Protezione civile” capace di conoscere, studiare, progettare, intervenire e di pretendere, con buone probabilità di successo, di avere i fondi, per adempiere ai propri compiti. E, insieme, solidalmente, dovrebbe muoversi una società conscia dei pericoli a cui va incontro, ben consapevole che mettere in sicurezza un versante è meno appariscente che costruire un nuovo ponte, ma che privilegia davvero la sicurezza, anche se fa ritardare la comodità.


Ed è difficile non pensare che i disastri provocati dalla natura, o dall’uomo, si avvicinano molto anche ai disastri sociali nei quali la natura c’entra davvero ben poco. Perché l’Italia è un Paese molto friabile fisicamente, ma anche socialmente. E se intervieni sempre in emergenza non puoi che stravolgere, mentre servirebbe gradualità e progettualità per innovare davvero, cioè cambiando, pur nel rispetto di ciò che di esistente merita di essere conservato, sia a livello materiale, sia a livello sociale; ma con la determinazione a non lasciarsi irretire da abitudini di apparenza e non di sostanza; di futile comodità e non di concreta sicurezza.

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sabato 3 novembre 2018

Il gatto e la volpe

Una marea di gente a Trieste in piazza contro il fascismo
Il 4 novembre, secondo Giorgia Meloni leader di Fratelli d’Italia, dovrebbe tornare a essere festa nazionale per celebrare l’anniversario della vittoria della guerra del 1915-18, quella che i cosiddetti patrioti hanno chiamato la “Grande Guerra” e che Papa Benedetto XIV aveva definito “l’inutile strage”. Non contenta, ha rincarato la dose affermando che «Saremo in piazza per ricordare che ancora oggi vale la pena di combattere per difendere la nostra sovranità. Il 4 novembre è una festa molto più unificante di altre feste che oggi sono festa nazionale». E il riferimento, reso esplicito dai parlamentari Francesco Lollobrigida e Giovanni Dozelli, presenti alla dichiarazione, va al 25 aprile e al 2 giugno. Naturalmente, la nostalgica Meloni, che intanto ha lanciato la campagna “Non passa lo straniero”, ha ottenuto subito il consenso di Salvini che si è detto pronto a candidarla come sindaca di Roma in caso di uscita anticipata dal Campidoglio della fallimentare e inquisita Virginia Raggi. Matteo Salvini che – merita ricordarlo – vorrebbe Fdi in maggioranza per avere l’ok al decreto sicurezza sul quale al Senato almeno quattro grillini, ascoltando la propria coscienza più che Grillo e Casaleggio sono decisi a votare contro anche accettando il rischio di espulsione dal partito.
 
Come sempre, al di là delle considerazioni di sostanza, occorre apprezzare quando qualcuno parla con chiarezza perché dirada immediatamente le fumosità con cui altri cercano di dissimulare e travisare la realtà. Va in briciole, ove ve ne fosse stato ancora bisogno, infatti, uno degli slogan dei 5stelle – «La destra e la sinistra sono due realtà ormai superate» – che è stato furbescamente fatto proprio nelle parole, ma non nei fatti, anche da Salvini. Ed è difficile non illuminare dei collegamenti tra la voglia di rinfrescare la retorica sulla prima guerra mondiale e lo sfilare di camicie nere in anchilosato saluto fascista a braccia tese a Predappio per celebrare la marcia su Roma, mentre qualche imbecille sfoggiava vergognosamente una maglietta con la scritta “Auschwitzland”. Come è difficile non percepire una voglia di censura e di autoritarismo anche nel nuovo presidente della Provincia di Trento, il leghista Maurizio Fugatti che, appena eletto, ha detto che bisognerà cambiare il Festival Economia di Trento perché troppo di sinistra.
 

E che destra e sinistra esistano ancora lo dimostra anche la contemporanea presenza di due cortei a Trieste, uno inqualificabilmente autorizzato a esporre il proprio credo fascista; l’altro praticamente obbligato a scendere in strada per rivendicare orgogliosamente che l’antifascismo, nonostante i Salvini e le complicità dei Di Maio, esiste ancora ed è ben vivo; molto di più dei partiti che dovrebbero rappresentarlo.

Ma, se preferisce far finta di niente, forse Di Maio neppure sa che la prima guerra mondiale ha voluto dire per l’Italia oltre 600 mila morti direttamente per motivi bellici e altre centinaia di migliaia di civili deceduti per malattie e per fame, come Amal, quella povera bimba di 7 anni morta d’inedia a causa della guerra nello Yemen e che noi oggi compiangiamo, increduli che questo possa avvenire da qualche parte del mondo mentre succedeva, e spesso, nei luoghi dove abitiamo, anche se cento anni più indietro nel tempo. E che l’inutile strage ha cancellato intere generazioni in combattimento e migliaia di ragazzi e uomini fucilati soltanto per mantenere la disciplina, magari per decimazione.

Quando Giorgia Meloni parla di vittoria dovrebbe ricordarsi che buona parte del territorio conquistato non era mai stato italiano e che poco più di due decenni dopo ha cessato nuovamente di essere italiano. Quando parla di 25 aprile e del 2 giugno come «feste divisive» dovrebbe ricordarsi che hanno diviso soltanto i fascisti dal resto degli italiani che hanno combattuto insieme, pur con idee politiche molto diverse, per liberare la patria tanto amata a parole dai fascisti da coloro, i nazisti, che l’avevano invasa e che usavano i fascisti soltanto come spregevoli lacchè.

Se Salvini appoggia la Meloni lo fa un po’ per lucrare qualche voto e un po’ perché segue il razzista che è in lui. Se Di Maio, complice, tace, lo fa un po’ perché non sa nemmeno di cosa si parla e un po’ per non perdere le poltrone sulle quali lui e i suoi stanno tanto comodi.

Ma da Di Maio tutto questo ce lo si poteva attendere: per lui, infatti, le parole hanno un senso molto relativo visto che è il “capo politico” di un partito, anche se si fa chiamare “movimento”, che continua a scandire «Onestà! Onestà!» e contemporaneamente diffonde una falsa intervista video all’ex presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem in cui le immagini sono vere, ma le parole di chi teoricamente traduce sono largamente travisate. Del tutto inventata, per esempio è la frase secondo cui Dijsselbloem inviterebbe apertamente i mercati a «lanciare un attacco alle finanze italiane», spiegando loro anche come devono fare, e cioè orchestrando un danno ai titoli italiani, facendo così salire gli interessi sul debito all’Italia. Qualcuno dovrebbe spiegare a Di Maio che disonestà non significa soltanto appropriarsi dei soldi di qualcun altro, ma anche falsificare la realtà per ottenere vantaggi, anche se non direttamente economici, per sé e per il proprio gruppo.

Certo è che il gatto e la volpe di Pinocchio oggi ci appaiono come poveri dilettanti: la realtà, come sempre, supera di gran lunga la fantasia.

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