sabato 13 luglio 2019

La prima vittima

La notizia che Massimiliano Fedriga ha disertato l’inaugurazione del Mittelfest merita sicuramente l’apertura della prima pagina del giornale: non certamente perché sia un notizia sorprendente, ma in quanto è estremamente descrittiva del pericolo che sta correndo questo Paese, pericolo che non diminuisce minimamente anche se i sondaggi continuano a premiare i deliri del ministro degli Inferni. Anzi, se possibile, aumenta perché ricorda sempre più da vicino quanto è accaduto negli anni Venti in Italia e nel decennio successivo in Germania. E contemporaneamente sottolinea efficacemente ancora una volta quello che la storia, se si volesse ogni tanto ascoltarla, ha già abbondantemente insegnato e cioè che non sempre la maggioranza ha ragione e che non basta essere in tanti per essere nel giusto.
Non stupisce perché, in definitiva, il comportamento del luogotenente regionale, obbediente al “capitano” nazionale, non si discosta per nulla da quello del sindaco udinese Fontanini che ha dato ordine all’assessore Cigolot di tentare di affossare vicino/lontano. Preoccupa fortemente perché ricalca strade già percorse nelle quali sono evidenti le tracce sporche che sono invariabilmente lasciate da ogni tentativo – riuscito o meno che sia – di impostare una dittatura: operare con una propaganda asfissiante e applicare la censura dove la propaganda non attecchisce.

A ogni livello il pensiero leghista afferma che chi non appoggia il ministro degli Inferni deve tacere, o, meglio, andarsene via. Se non lo fa, la prima reazione sarà quella di tagliargli i finanziamenti pubblici. Poi, se insisterà, si farà ancora qualcos’altro.

Haris Pasovic, direttore artistico del Mittelfest non è italiano, e già questo non credo sia molto gradito a Fedriga, ma, dimenticando di fare il suo mestiere in questa maledetta notte italiana, ha addirittura osato dire che è meglio costruire ponti che muri e che Carola Rackete e assolutamente paragonabile ad Antigone la cui storia sarà il perno del festival cividalese. È evidente che un gruppo che vive di slogan e di propaganda e che teme come il demonio il libero pensiero non può starsene tranquillo ad ascoltare, ma deve reagire. Il problema è che anche per reagire decentemente ci vogliono cultura e idee e che entrambe latitano terribilmente, e non da oggi, nella destra.

Già in partenza ci sono delle difficoltà ineliminabili perché se nella destra il culto dell’obbedienza occupa il primo posto nella scala liturgica, ne consegue direttamente che il libero pensiero non può essere ammesso perché può causare dubbi e addirittura dissensi, realtà che possono far perdere tempo all’operoso vicepremier, che di vice ha davvero poco, o addirittura metterne insopportabilmente in dubbio le sue geniali soluzioni.

Ma perché combattere la cultura soltanto cercando di soffocarla e togliendole ogni finanziamento? Semplice perché l’attuale destra non ha altri mezzi accettabili: riesce a confezionare soltanto slogan di indubbia presa, ma di altrettanto indubitabile vuotezza; deve assumere un intero gruppo di “pensatori” addirittura per riuscire a confezionare un twitter che già era terribilmente esteso con 140 caratteri e che da circa un anno e mezzo qualche pericoloso intellettuale di sinistra è riuscito a far dilatare fino alla complicatissima estensione di 280.

Se è vero che la cultura è qualcosa che non si costruisce in pochi mesi e neppure in pochi anni, ma che richiede applicazione e fatica, allora è evidente che, tranne che per poche eccezioni, la destra non ha munizioni per combattere ad armi pari sul piano dell’etica e del ragionamento e allora l’unico sistema è quello di censurare, di cancellare, di proibire con il soffocamento economico. Ne sanno qualcosa – per ora a livello di minacce, ma non tanto aleatorie – vicino/lontano, il Mittelfest e molte altre iniziative più piccole che si sono viste azzerare i contributi.

Ebbene anche in questo caso l’unica via di salvezza si chiama Resistenza e consiste in un doppio impegno: quello da parte dei protagonisti di ridurre al minimo i costi che li riguardano e quello degli spettatori di essere presenti e, magari, se possono, di contribuire in qualche modo alla sopravvivenza di una specie umana che è tale soltanto se pensa e se ha una dirittura etica.

Verrebbe da estendere l’invito anche ai 5stelle, ma come si fa a chiedere una cosa simile a chi sostiene che la politica non è una cosa seria e che, quindi, a differenza dei mestieri utili e importanti, deve costare poco, deve essere praticata da sempre meno persone e che queste persone devono essere scelte non a seconda della loro competenza, ma soltanto con una ventina di voti da parte delle cerchie di amici più numerose?

Ricordatelo: la cultura è sempre stata la prima vittima dei dittatori, dei loro servi e di coloro che volevano starsene in disparte credendo di non sporcarsi le mani.

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Italiani brava gente?

Ogni generalizzazione può eventualmente avere qualche utilità soltanto a livello burocratico: italiani, per esempio, dovrebbero essere tutti i nati in Italia, o da almeno un genitore italiano, o tutti coloro che hanno ottenuto la cittadinanza del nostro Paese; ma già a questo livello non c'è unanimità di pensiero.
 
Le generalizzazioni, poi, possono diventare pericolosissime ed essere l'anticamera del razzismo se raggruppano gli esseri umani per caratteristiche religiose, etniche, fisiche e così via: se non ci credete, andate a vedere cos'è successo agli ebrei in Germania, ai neri negli Stati Uniti e in Sudafrica, alle donne con i capelli ricci durante la caccia alle streghe, agli esseri umani che si permettevano di pensare con il proprio cervello durante l'inquisizione e anche in moltissimi altri periodi, neanche molto lontani, della storia.

Le generalizzazioni accompagnate da valutazioni qualitative, infine, sono le peggiori perché, oltre a essere irreali come le altre, hanno in sé un'evidente intenzione truffaldina. Al caso di cui oggi scrivo, tra l'altro, non può essere applicata come attenuante neppure la palese e abissale ignoranza di chi parla perché, vista la posizione che occupa, dovrebbe preoccuparsi almeno di non influenzare falsamente altri ignoranti come lui, istigandoli a radicalizzazioni che portano sempre a conseguenze drammatiche.

Questa volta a fare la figura del truffatore ignorante è l'indegnamente sottosegretario agli Esteri, il deputato grillino Manlio Di Stefano che riporta in primo piano un concetto che potrebbe essere condensato nell'antico, abusato e falso "Italiani bava gente". Intendiamoci: negare la validità di questa frase fatta non vuol dire che gli italiani sono cattivi, ma semplicemente che ce ne sono di buoni e di cattivi; come in tutti i popoli del mondo.

Se l'ineffabile Di Stefano si fosse limitato a questa banalità, nessuno probabilmente ci avrebbe fatto caso, ma, orgoglioso della propria pochezza, ha voluto esporla sotto i riflettori scrivendo che, come italiani, «non abbiamo scheletri nell'armadio, non abbiamo una tradizione coloniale, non abbiamo sganciato bombe e non abbiamo messo il cappio al collo a nessuna economia».

Ebbene, sarebbe il caso di segnalare all'onorevole (quante prese in giro permette la lingua italiana!) Di Stefano che, quanto a bombe, gli italiani sono stati gli inventori del bombardamento aereo nel 1910 in Libia e che nello stesso anno e negli stessi posti hanno inaugurato anche la pratica dell'uso dei gas asfissianti poi ripreso su scala industriale anche in Etiopia dal maresciallo Graziani.

Bisognerebbe ricordargli che l'Italia è stata ferocemente coloniale esprimendosi in tal modo non soltanto in Libia, Eritrea, Somalia ed Etiopia dove non si contano le donne prima violentate e poi uccise assieme a civili maschi di ogni età dai soldati italiani occupanti, ma si è estrinsecata anche in Slovenia dove i generali Robotti e Roatta si lamentavano per iscritto con i loro soldati che «si ammazza troppo poco», come in Albania e nel Dodecanneso dove le smanie imperialiste di Mussolini e del re si sono sfogate senza troppo rispetto per albanesi e greci..

Occorrerebbe segnalargli che, quanto a scheletri nell'armadio, abbiamo avuto addirittura un "armadio della vergogna" che voleva celare le complicità tra italiani e nazisti. Che forse l'Italia non ha stretto il cappio al collo di nessuna economia, ma sicuramente lo ha teso, come possono testimoniare i parenti dei morti di Marcinelle, attorno al collo dei suoi figli inviati con il ricatto della povertà, in miniera per ricevere in cambio carbone.

Curiosamente, se si vogliono trovare degli italiani buoni, è più facile trovarli, pur con le debite eccezioni mafiose, tra i milioni di italiani migranti, o per loro dote personale, o per paragone con altri sovranisti e razzisti.

Come dimenticare, per esempio, gli italiani uccisi dai francesi nel massacro delle saline di Aigues-Mortes, nella regione di Linguadoca? Di questa strage si sa per certo il luogo, la data (16 e 17 agosto 1893), e il motivo che consisteva nella rabbia scatenata dalla falsa accusa che gli italiani fossero delinquenti abituali e da quella vera di lavorare per stipendi da fame, facendo però credere che quei salari fossero richiesti e non imposti per lavori che comunque i francesi non gradivano. Nessuno, invece, ha mai saputo il bilancio delle vittime: l'ufficio turistico di Aigues-Mortes parla di 17 morti e 150 feriti, mentre gli studiosi dell'emigrazione italiana si riferiscono a una ventina di vittime e ad almeno 400 feriti. C'è però un'altra certezza: tutti gli imputati francesi furono assolti e se ne andarono liberi tra gli applausi dei sovranisti transalpini dell'epoca.

Del resto, è spesso il paragone a salvare chi altrimenti vincerebbe la classifica dei peggiori. Pensate a Salvini e a quanto il nostro ministro degli Inferni può godere di un po' di ombra mediatica internazionale grazie a Trump che fa rischiare una guerra nucleare perché senza alcun motivo, se non per propaganda interna, decide di rompere l'accordo con l'Iran inducendo quel Paese a infrangere anch'esso il patto raggiunto con tanta fatica da Obama.

Ma francamente c'è poco di più stupido di una classifica della cattiveria, studiata o voluta che sia: oltre un certo livello meritano tutti un disumano ex aequo. Ma bisogna assolutamente dirglielo.

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giovedì 4 luglio 2019

Democrazia, politica e altri fastidi

Nel pur limitato repertorio verbale di Salvini sono tante le cose che dovrebbero suscitare riprovazione per la protervia, rabbia per i concetti espressi, o sorrisini di compatimento per gli abissi di ignoranza che le sue parole rivelano. Non può non indignare, per esempio, il concetto che «la Libia è un porto sicuro», mai smentito, nemmeno dopo che oltre cento uomini, donne e bambini sono stati cancellati da un bombardamento del generale Haftar su un campo di detenzione di migranti; né può non offendere il grande repertorio di frasi fatte mussoliniane rispolverato dal ministro degli Inferni. Ma quello che più mi colpisce, sia per la truffaldina furbizia di chi esprime questo concetto, sia per la stolida ignoranza di chi l’accetta senza ribattere, è l’idea che se qualcuno vuole fare politica, prima deve farsi eleggere.
 
Lo ha ripetuto anche dopo che la gip di Agrigento, Alessandra Vella, ha liberato, dopo quattro giorni trascorsi agli arresti domicilari, Carola Rackete, capitana della Sea-Watch, perché «Una nave che soccorre migranti – ha scritto la giudice – non può essere giudicata offensiva per la sicurezza nazionale e il comandante di quella nave ha l'obbligo di portare in salvo le persone soccorse».

Inoltre, sempre nella sentenza della gip, «Le unità navali della Guardia di finanza sono da considerarsi navi da guerra solo quando operano al di fuori dalle acque territoriali», mentre «Da quanto emerge dal video deve essere molto ridimensionata nella sua portata offensiva rispetto alla prospettazione accusatoria fondata solo sulle rilevazioni della polizia giudiziaria», la manovra in porto della Sea Watch che non aveva alcuna intenzione di colpire la motovedetta della Finanza.

Ebbene, come sempre quando qualcuno smonta con solide argomentazioni, i suoi decreti, Salvini se ne esce con la frase «Se qualche giudice vuole fare politica si toglie la toga, si candida in Parlamento con la sinistra e cambia le leggi che non gli piacciono». E questo è un concetto di una pericolosità tale che ogni altra uscita del ministro degli Inferni può essere assimilata a semplice battuta.

È pericolosa non tanto perché svela una mentalità da dittatorello che crede che ogni cosa decisa da lui stesso sia perfetta e infallibile e, quindi, accoglie come inaccettabile offesa personale, le parole di chi con lui non è d’accordo. Ma perché, così facendo, mina alla base il concetto stesso di democrazia che, ben prima di essere voto, è pensiero, confronto e discussione con la costante certezza che non è detto che chi raccoglie più voti abbia anche contemporaneamente ragione. E che, proprio grazie a questa incontestabile realtà, la democrazia offre la possibilità di migliorare costantemente, nella sostanza e non soltanto nei particolari.

Ma ancor più grave del fatto di mettere in discussione la democrazia è il fatto che questa frase mina alla base anche il concetto stesso di politica, l’agire per il bene della polis. Non mi riferisco all’agire della gip di Agrigento che, dall’alto del suo sapere giuridico, è incaricata di decidere se un’azione è un reato, oppure no, e che in questo suo agire deve avere un’indipendenza di giudizio garantita da quella Costituzione che Salvini – ammesso che se la sia letta – sente come una specie di camicia di forza. Penso, invece, al fatto che, se fosse vera la tesi che soltanto gli eletti possono fare politica, potremmo già abdicare alla nostra pretesa dignità di esseri umani perché la caratteristica di ogni cittadino è di fare politica in ogni sua azione, sia nel fare, sia nel non fare.

Pur senza essere necessariamente eletti, per esempio, fanno assolutamente politica coloro che evadono, in toto o in parte, le tasse e costringono un’intera società a subire le conseguenze della loro scelta; fanno politica sia coloro che lavorano coscienziosamente, sia quelli che si defilano in quanto concepiscono il lavoro soltanto come un momentaneamente inevitabile fastidio per poter incassare uno stipendio; fanno politica quelli che agiscono sentendosi parte di una comunità, ma anche coloro che si muovono pensando di essere l’unica persona che merita di essere rispettata; e la fanno sia quelli che accettano di discutere con chi non ha le loro stesse idee, sia quelli che, invece, rifiutano sempre il confronto e che, se fossero eletti e arrivassero nei posti di comando, agirebbero il più possibile per decreto, anche per evitare il fastidio che le loro idee possano essere anche soltanto valutate da un Parlamento di cui pur detengono la larga maggioranza: la valutazione altrui, infatti, la considerano una specie di “diminutio” propria. E potrei continuare a lungo.

Per fortuna non sono ancora arrivati a dire che in campagna elettorale, se non si è già eletti, non si può fare politica; ma non mettiamo loro fretta.

Solo un consiglio al ministro degli Inferni che ha avuto da ridire anche sul pensiero di molti preti e vescovi: non dica al Papa che, secondo i parametri Salviniani, può essere accusato di fare quotidianamente politica, che per fare politica, bisogna farsi eleggere: Francesco è stato eletto. E il Papa non insiste neppure sul fatto che per brandire il rosario e il Vangelo durante i comizi, un minimo di conoscenza del Vangelo stesso e di carità cristiana bisognerebbe pur averle. Però, se non ha mai accettato di riceverlo, qualche motivo ci sarà.

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