I decreti
attuativi del Job Act – che, voglio ricordarlo, anche letteralmente si
occupa del lavoro e non di chi lavora – non soltanto hanno ulteriormente
infettato in maniera nefasta per tantissimi italiani e per le loro
famiglie l’atmosfera delle festività di Natale e hanno cancellato parte
delle speranze che solitamente si legano all’arrivo dell’anno nuovo, ma
ha perfettamente illuminato l’agonia della politica in Italia. Un’agonia
che porta con sé anche l’agonia della democrazia che, a differenza di
quanto dice Renzi, si basa sulla partecipazione di quel popolo che
sempre più largamente decide di non andare più nemmeno a votare. Sia
perché ritiene la politica legata soltanto alle posizioni di potere, sia
in quanto non vede più in nessun partito la volontà di difendere i
propri valori costitutivi, cedendo al miraggio di accaparrarsi più voti
attraverso il nascondere, o addirittura la cancellazione, di questi
valori.
Sempre più gente, però – e lo si
vede proprio dall’esplodere dell’astensionismo e dall’aumento di chi
vota per tradizione e non per convinzione – si sta rendendo conto di
vivere un momento di snodo in cui diventa assolutamente vitale smettere
di buttar via, o di nascondere i propri valori, e di illudersi che senza
valori ben definiti ci si possa avvicinare l’uno all’altro in una sorta
di fatale attrazione in un posto indistinto, paludoso, ma ritenuto
elettoralmente vincente.
Illudendosi di attrarre simpatie,
molti hanno imitato gli altri quando quelli stavano vincendo,
truccandosi e travisando, sia pur parzialmente, il proprio volto,
pensando che fosse più importante catturare un voto che compiere
un’azione degna. Ma, in definitiva, hanno ottenuto soltanto risultati
percentuali e non assoluti, perché non sono riusciti ad attrarre nessuno
in quanto il vuoto, dopo un primo senso di disorientante vertigine, non
attrae mai nessuno, ma, anzi, dà un senso di repulsione. E il risultato
è che sempre meno gente si avvicina al voto, alla politica, alla
partecipazione, al vivere sociale. Contemporaneamente nessuno si è
sentito più vicino agli avversari di una volta che sono rimasti
completamente estranei, ma, anzi, si sono perduti molti amici perché
senza valori di riferimento non ci si riconosceva più a vicenda. E
contemporaneamente si perdeva anche il rispetto per se stessi.
Soltanto quando si è percepito
questo vuoto, quando si è sentito il rodere del rimorso provocato dal
peccato di omissione legato all’astensione dalla politica, si è
cominciato timidamente a riprendere quota, a tornare a pieno titolo
umani, a ritenere nuovamente che la vita privata e pubblica non possano
esistere senza etica, che la politica non possa esistere senza etica,
che il lavoro non possa esistere senza etica, che l’economia non possa
esistere senza etica, che la finanza, raffinata e spietata usura
moderna, così com’è non possa esistere e basta. Come non dovrebbe più
esistere nemmeno quel capitalismo cieco e inutile che è soltanto spinta
irrazionale ad accaparrare per sé, in ogni modo, denaro e proprietà. A
prescindere da quante persone si fanno soffrire per raggiungere questo
squallido scopo.
sabato 27 dicembre 2014
venerdì 12 dicembre 2014
Le due ipotesi
Il ministro Lupi
ha dovuto fare marcia indietro e revocare la precettazione dei
lavoratori dei trasporti per lo sciopero generale di oggi. L’importante è
che l’ha fatto dopo una dichiarazione di Renzi che ricordava che il
diritto di sciopero è costituzionalmente inalienabile e che può aver
agito così, o perché ne è convinto, o in quanto sente che la corda si
sta tirando davvero troppo e che il rischio scissione all’interno del PD
si sta facendo davvero forte. Quale delle due ipotesi sia vera lo potrà
dire soltanto il prossimo futuro e il comportamento dello stesso Renzi
nei confronti di altri diritti.
Perché è proprio l’atteggiamento nei confronti dei diritti a essere fondamentale per distinguere la sinistra dalla destra. La sinistra punta, con la politica, ad allargare la sfera dei diritti. La destra, invece, sente i diritti come dei paletti, degli ostacoli che finiscono per limitare la libertà di manovra della politica. E, infatti, è la centralità dei diritti fondamentali nel sistema costituzionale che ha fatto parlare alcuni esponenti di destra di “diritti insaziabili”, che si impadroniscono di spazi della politica. Ed è anche in base a questo che, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati da sempre più persone come un lusso incompatibile con la crisi economica. Si nega, insomma, il diritto di avere diritti.
Ma è proprio nel momento in cui la promessa dei diritti è tradita, o quando si restringono o si cancellano i diritti già acquisiti, che si ferisce mortalmente una democrazia che non può essere soltanto un insieme di procedure. Perché non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell’economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con se stessa. Dunque, quando si ritiene che i diritti siano un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Quando si dice che i mercati “chiedono”, si conferiscono alla sfera economica le prerogative della politica e dell’organizzazione democratica della società.
I diritti non invadono mai la democrazia, ma impongono di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica. Ed è proprio in tempi di risorse scarse che è giusto rimettere al centro di tutto i diritti individuali per reagire alla spersonalizzazione di una società che non ha più visioni future, tenendo ben presente che questi diritti possono sostanziarsi soltanto in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Contrapponendo i diritti alla politica si corre il rischio di perdere i primi e di vivere con una politica svuotata di diritti, principi etici e valori. E allora il concetto di diritto perde sostanza e diventa soltanto un vuoto simbolo da sbandierare quando si vuole imporre altrove, in maniera imperialistica, la cultura occidentale – oggi il neoliberismo – mentre intorno crescono le diseguaglianze, la povertà, le discriminazioni, il rifiuto dell’altro, perché viene negata la dignità stessa della persona. Altri tempi rispetto a quando le più forti innovazioni furono decise dai vinti, l’Italia nel 1948 e la Germania nel ’49, che non si aprono con riferimenti a libertà e uguaglianza, ma al lavoro nella prima, e alla dignità nella seconda, per sottrarre l’uomo a qualsiasi potere esterno.
In crisi oggi sono i diritti al lavoro, all’istruzione, alla salute, alla sanità, alla parità di genere, all'identità, alla casa e così via. Desidero soffermarmi, invece, sul diritto alla democrazia che, come tutti i diritti, non è naturale, ma è stato conquistato con sofferenze e sacrifici dei disobbedienti, degli oppositori e dei resistenti e che deve essere sempre attentamente salvaguardato perché non è detto che la perdita della democrazia debba necessariamente essere un evento clamoroso e traumatico; anzi, per evitare reazioni, spesso assomiglia a un lento trascolorare verso una qualche forma di oligarchia. È quello che sta succedendo da un bel po’ di tempo, anche nel nome di quella cosa apparentemente magica e in realtà terrorizzante, che si chiama “governabilità”.
Per arrivare a questo scopo la nostra bella Costituzione viene ignorata, oppure si tenta di cambiarla. Per dare un solo esempio, non è forse un evidente colpo alla democrazia la cancellazione della rappresentatività diretta di quel Senato che serviva proprio a moderare quel potere che si sarebbe stabilizzato un’unica Camera?
E vediamo che anche le leggi elettorali possono servire ad allontanare sempre di più il démos, il popolo, dal kràtos, dal potere, come quell’Italicum, nato dall’unione delle menti di Renzi e del pregiudicato Berlusconi, che riesce a peggiorare anche il Porcellum, irridendo la sentenza della Corte Costituzionale. Lo smodato premio di maggioranza alla lista o alla coalizione ricorda molto da vicino la famosa “legge truffa” del 1953. Ma quella fu avversata dalla sinistra, mentre questa è sostenuta, oltre che dalla destra, anche da chi vorrebbe farsi passare per la sinistra.
Poi, mentre il concetto di rappresentanza assume contorni sempre più sfumati, fino quasi a scomparire, continua a essere proibita ai cittadini la possibilità di scegliersi i propri rappresentanti con le preferenze, lasciando la scelta tutta in mano ai capi di partiti sempre più personali. Dicono che le preferenze si prestano a maneggi illegittimi e illegali. Possibile, ma non è che le scelte dei capi abbiano brillato per trasparenza, saggezza e lungimiranza. Anche i videopoker si prestano a truffe e raggiri, e fanno ingrassare la malavita, ma in quel caso ci si limita ad arrestare quei pochi che si riescono a cogliere con le mani nel sacco. Di eliminare i videopoker nessuno parla. Come, in realtà, nessuno parla di combattere davvero l'evasione fiscale che è, assieme alla corruzione, la vera palla al piede del nostro Paese.
Perché è proprio l’atteggiamento nei confronti dei diritti a essere fondamentale per distinguere la sinistra dalla destra. La sinistra punta, con la politica, ad allargare la sfera dei diritti. La destra, invece, sente i diritti come dei paletti, degli ostacoli che finiscono per limitare la libertà di manovra della politica. E, infatti, è la centralità dei diritti fondamentali nel sistema costituzionale che ha fatto parlare alcuni esponenti di destra di “diritti insaziabili”, che si impadroniscono di spazi della politica. Ed è anche in base a questo che, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati da sempre più persone come un lusso incompatibile con la crisi economica. Si nega, insomma, il diritto di avere diritti.
Ma è proprio nel momento in cui la promessa dei diritti è tradita, o quando si restringono o si cancellano i diritti già acquisiti, che si ferisce mortalmente una democrazia che non può essere soltanto un insieme di procedure. Perché non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell’economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con se stessa. Dunque, quando si ritiene che i diritti siano un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Quando si dice che i mercati “chiedono”, si conferiscono alla sfera economica le prerogative della politica e dell’organizzazione democratica della società.
I diritti non invadono mai la democrazia, ma impongono di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica. Ed è proprio in tempi di risorse scarse che è giusto rimettere al centro di tutto i diritti individuali per reagire alla spersonalizzazione di una società che non ha più visioni future, tenendo ben presente che questi diritti possono sostanziarsi soltanto in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Contrapponendo i diritti alla politica si corre il rischio di perdere i primi e di vivere con una politica svuotata di diritti, principi etici e valori. E allora il concetto di diritto perde sostanza e diventa soltanto un vuoto simbolo da sbandierare quando si vuole imporre altrove, in maniera imperialistica, la cultura occidentale – oggi il neoliberismo – mentre intorno crescono le diseguaglianze, la povertà, le discriminazioni, il rifiuto dell’altro, perché viene negata la dignità stessa della persona. Altri tempi rispetto a quando le più forti innovazioni furono decise dai vinti, l’Italia nel 1948 e la Germania nel ’49, che non si aprono con riferimenti a libertà e uguaglianza, ma al lavoro nella prima, e alla dignità nella seconda, per sottrarre l’uomo a qualsiasi potere esterno.
In crisi oggi sono i diritti al lavoro, all’istruzione, alla salute, alla sanità, alla parità di genere, all'identità, alla casa e così via. Desidero soffermarmi, invece, sul diritto alla democrazia che, come tutti i diritti, non è naturale, ma è stato conquistato con sofferenze e sacrifici dei disobbedienti, degli oppositori e dei resistenti e che deve essere sempre attentamente salvaguardato perché non è detto che la perdita della democrazia debba necessariamente essere un evento clamoroso e traumatico; anzi, per evitare reazioni, spesso assomiglia a un lento trascolorare verso una qualche forma di oligarchia. È quello che sta succedendo da un bel po’ di tempo, anche nel nome di quella cosa apparentemente magica e in realtà terrorizzante, che si chiama “governabilità”.
Per arrivare a questo scopo la nostra bella Costituzione viene ignorata, oppure si tenta di cambiarla. Per dare un solo esempio, non è forse un evidente colpo alla democrazia la cancellazione della rappresentatività diretta di quel Senato che serviva proprio a moderare quel potere che si sarebbe stabilizzato un’unica Camera?
E vediamo che anche le leggi elettorali possono servire ad allontanare sempre di più il démos, il popolo, dal kràtos, dal potere, come quell’Italicum, nato dall’unione delle menti di Renzi e del pregiudicato Berlusconi, che riesce a peggiorare anche il Porcellum, irridendo la sentenza della Corte Costituzionale. Lo smodato premio di maggioranza alla lista o alla coalizione ricorda molto da vicino la famosa “legge truffa” del 1953. Ma quella fu avversata dalla sinistra, mentre questa è sostenuta, oltre che dalla destra, anche da chi vorrebbe farsi passare per la sinistra.
Poi, mentre il concetto di rappresentanza assume contorni sempre più sfumati, fino quasi a scomparire, continua a essere proibita ai cittadini la possibilità di scegliersi i propri rappresentanti con le preferenze, lasciando la scelta tutta in mano ai capi di partiti sempre più personali. Dicono che le preferenze si prestano a maneggi illegittimi e illegali. Possibile, ma non è che le scelte dei capi abbiano brillato per trasparenza, saggezza e lungimiranza. Anche i videopoker si prestano a truffe e raggiri, e fanno ingrassare la malavita, ma in quel caso ci si limita ad arrestare quei pochi che si riescono a cogliere con le mani nel sacco. Di eliminare i videopoker nessuno parla. Come, in realtà, nessuno parla di combattere davvero l'evasione fiscale che è, assieme alla corruzione, la vera palla al piede del nostro Paese.
giovedì 4 dicembre 2014
L’inglese per non far capire
Il Jobs Act è
legge. E chi l’ha voluto continua a ripetere questa frase come un mantra
in tutte le interviste, in tutte le trasmissioni, come se questa frase
potesse diventare garanzia che una legge, pur approvata a colpi di
fiducia, è anche una buona legge. Come se la gente potesse dimenticarsi
che tra le “buone leggi” ci sono stati anche, soltanto per fare due
esempi, la Cirielli e il Porcellum, che si sono confermate due veri e
propri cancri per il nostro Paese e che ancora adesso non è possibile
consegnare completamente alla storia degli errori, o, meglio, delle
mascalzonate deliberatamente volute.
Anche il Jobs Act è un abominio e i suoi frutti avvelenati si assaggeranno, purtroppo, in breve tempo perché l’unico effetto certo della sua pur ancora approssimativa formulazione sarà quello di dilatare ulteriormente l’abisso che sempre più divide i ricchi dai poveri e di cancellare ancora gran parte del residuo di quella che le memorie storiche ricordano come “classe media”.
Né può far sperare in qualcosa di buono il fatto che il ddl contiene cinque deleghe su ammortizzatori sociali, politiche attive, semplificazioni, riordino dei contratti e agevolazioni per la conciliazione vita-lavoro, i cui decreti delegati dovranno essere emanati entro sei mesi. La disponibilità economica è così esigua e l’impianto è tale che si possono prevedere soltanto peggioramenti . Almeno dal punto di vista dei lavoratori che, infatti, protestano, mentre gli imprenditori sono visibilmente soddisfatti.
Eppure è da tempo che si dice che già il nome di questa legge, volutamente espresso in inglese per dissimularne lo spirito, faceva capire la china sulla quale ci si stava dirigendo. Jobs Act, infatti, in italiano va tradotto come “Legge del lavoro”, e va a cancellare parti importanti dello “Statuto dei lavoratori”. Dall’attenzione ai diritti dei lavoratori, si torna, insomma a collocare al primo posto dell’attenzione il lavoro e i cosiddetti investitori. E tutto questo continuano a spacciarlo come intervento di sinistra.
L’unica continuità di questi ultimi decenni è la presa in giro degli elettori che, però, in numero sempre maggiore se ne sta rendendo conto e, sbagliando, non torna più alle urne. L’unica cosa davvero di sinistra sarebbe far riavvicinare la gente alla politica e ascoltare i suoi bisogni. Prima o poi qualcuno lo farà, la gente tornerà a votare, con convinzione, per qualcuno e questi ultimi decenni finiranno finalmente nell’armadio dei brutti ricordi assieme all’accettazione – come ha scritto Eyal Weizmann – che «il male minore costituisca il nuovo nome della nostra barbarie».
Anche il Jobs Act è un abominio e i suoi frutti avvelenati si assaggeranno, purtroppo, in breve tempo perché l’unico effetto certo della sua pur ancora approssimativa formulazione sarà quello di dilatare ulteriormente l’abisso che sempre più divide i ricchi dai poveri e di cancellare ancora gran parte del residuo di quella che le memorie storiche ricordano come “classe media”.
Né può far sperare in qualcosa di buono il fatto che il ddl contiene cinque deleghe su ammortizzatori sociali, politiche attive, semplificazioni, riordino dei contratti e agevolazioni per la conciliazione vita-lavoro, i cui decreti delegati dovranno essere emanati entro sei mesi. La disponibilità economica è così esigua e l’impianto è tale che si possono prevedere soltanto peggioramenti . Almeno dal punto di vista dei lavoratori che, infatti, protestano, mentre gli imprenditori sono visibilmente soddisfatti.
Eppure è da tempo che si dice che già il nome di questa legge, volutamente espresso in inglese per dissimularne lo spirito, faceva capire la china sulla quale ci si stava dirigendo. Jobs Act, infatti, in italiano va tradotto come “Legge del lavoro”, e va a cancellare parti importanti dello “Statuto dei lavoratori”. Dall’attenzione ai diritti dei lavoratori, si torna, insomma a collocare al primo posto dell’attenzione il lavoro e i cosiddetti investitori. E tutto questo continuano a spacciarlo come intervento di sinistra.
L’unica continuità di questi ultimi decenni è la presa in giro degli elettori che, però, in numero sempre maggiore se ne sta rendendo conto e, sbagliando, non torna più alle urne. L’unica cosa davvero di sinistra sarebbe far riavvicinare la gente alla politica e ascoltare i suoi bisogni. Prima o poi qualcuno lo farà, la gente tornerà a votare, con convinzione, per qualcuno e questi ultimi decenni finiranno finalmente nell’armadio dei brutti ricordi assieme all’accettazione – come ha scritto Eyal Weizmann – che «il male minore costituisca il nuovo nome della nostra barbarie».
lunedì 24 novembre 2014
Una banca spalancata e indifesa
È come se
qualcuno avesse lasciato una banca con la porta aperta, senza guardie
giurate in servizio e anche con la cassaforte spalancata. A un certo
punto è entrato qualcuno che si è impossessato di quello che nella banca
c’era e se n’è andato per la sua strada. È evidente che chi ha lasciato
le sue ricchezze indifese è, a essere buoni, uno sprovveduto, ma è
altrettanto evidente che chi di quelle ricchezze si è impossessato è
colpevole di furto, o, almeno, di appropriazione indebita.
Fuor di metafora e passando a parlare di politica, dove non ci sono reati penalmente perseguibili, e le parole hanno da sempre un valore relativo, è evidente a tutti che la sinistra ha trascurato i propri valori e non li ha difesi adeguatamente preferendo sprecare energie in baruffe interne, continue scissioni e meschini calcoli elettorali quasi sempre rivelatisi clamorosamente sbagliati. Ma è altrettanto evidente che Matteo Renzi di questa situazione si è approfittato sottraendo alla sinistra linguaggio, simbologia e partito.
Linguaggio perché ormai lui e i suoi hanno camuffato un bel po’ di parole sottraendone, per i tanti distratti, il vero significato. Così “sinistra”, nel suo linguaggio, non è più quella determinazione politica sui valori della quale per più di un secolo tutti sono stati d’accordo, ma soltanto la caratteristica di chi vuole cambiare tutto e velocemente; se in meglio o in peggio, è secondario. Simbologia in quanto i valori di riferimento non sono più gli stessi e comunque sono subordinati alla possibilità che i diritti delle persone, se in contrasto con gli appetiti delle aziende, debbano essere attenuati, se non cancellati, per il timore di tener lontani eventuali investitori. Partito perché molti di coloro che da sempre hanno votato a sinistra non sentono più di poter votare a cuor leggero per il PDin quanto lo avvertono come un partito che, per molti versi, ha abbandonato la sinistra.
Le elezioni di ieri lo indicano chiaramente, anche se Renzi continua a strombazzare che il PD ha vinto in entrambe le regioni e che soltanto questo ha importanza. Non è vero e il campanello d’allarme dovrebbe suonare, anche per lui, fortissimo. Perché il risultato percentuale non può non essere traguardato combinandolo con il pazzesco crollo dell’affluenza alle urne. In Emilia Romagna, dove una volta andavano a votare quasi tutti e dove la sinistra otteneva quasi sempre la maggioranza assoluta, l’affluenza è stata del 37,7 per cento e questo dato va combinato con il 44,52 per cento del voto di lista ottenuto del PD. Questo vuol dire che soltanto il 16,78 per cento degli aventi diritto al voto se l’è sentita di spendersi per il sedicente centrosinistra. Quello che i dirigenti del PD dovrebbero chiedersi, è quanti elettori non se la sono più sentita di votare per quel partito e che, visto che altre scelte accettabili non vedevano, hanno deciso di restare a casa.
E questo non è un pessimo segnale soltanto per il PD, ma per l’intera democrazia che dovrebbe chiedersi soprattutto perché i cittadini non sentono più di partecipare alle scelte che poi faranno dirigere questo Paese. Del resto, l’uso della democrazia tirata in ballo soltanto se si sa già in partenza di poter avere a disposizione più voti degli avversari non è certamente un atteggiamento che possa far riavvicinare il popolo della sinistra a chi governa.
Fuor di metafora e passando a parlare di politica, dove non ci sono reati penalmente perseguibili, e le parole hanno da sempre un valore relativo, è evidente a tutti che la sinistra ha trascurato i propri valori e non li ha difesi adeguatamente preferendo sprecare energie in baruffe interne, continue scissioni e meschini calcoli elettorali quasi sempre rivelatisi clamorosamente sbagliati. Ma è altrettanto evidente che Matteo Renzi di questa situazione si è approfittato sottraendo alla sinistra linguaggio, simbologia e partito.
Linguaggio perché ormai lui e i suoi hanno camuffato un bel po’ di parole sottraendone, per i tanti distratti, il vero significato. Così “sinistra”, nel suo linguaggio, non è più quella determinazione politica sui valori della quale per più di un secolo tutti sono stati d’accordo, ma soltanto la caratteristica di chi vuole cambiare tutto e velocemente; se in meglio o in peggio, è secondario. Simbologia in quanto i valori di riferimento non sono più gli stessi e comunque sono subordinati alla possibilità che i diritti delle persone, se in contrasto con gli appetiti delle aziende, debbano essere attenuati, se non cancellati, per il timore di tener lontani eventuali investitori. Partito perché molti di coloro che da sempre hanno votato a sinistra non sentono più di poter votare a cuor leggero per il PDin quanto lo avvertono come un partito che, per molti versi, ha abbandonato la sinistra.
Le elezioni di ieri lo indicano chiaramente, anche se Renzi continua a strombazzare che il PD ha vinto in entrambe le regioni e che soltanto questo ha importanza. Non è vero e il campanello d’allarme dovrebbe suonare, anche per lui, fortissimo. Perché il risultato percentuale non può non essere traguardato combinandolo con il pazzesco crollo dell’affluenza alle urne. In Emilia Romagna, dove una volta andavano a votare quasi tutti e dove la sinistra otteneva quasi sempre la maggioranza assoluta, l’affluenza è stata del 37,7 per cento e questo dato va combinato con il 44,52 per cento del voto di lista ottenuto del PD. Questo vuol dire che soltanto il 16,78 per cento degli aventi diritto al voto se l’è sentita di spendersi per il sedicente centrosinistra. Quello che i dirigenti del PD dovrebbero chiedersi, è quanti elettori non se la sono più sentita di votare per quel partito e che, visto che altre scelte accettabili non vedevano, hanno deciso di restare a casa.
E questo non è un pessimo segnale soltanto per il PD, ma per l’intera democrazia che dovrebbe chiedersi soprattutto perché i cittadini non sentono più di partecipare alle scelte che poi faranno dirigere questo Paese. Del resto, l’uso della democrazia tirata in ballo soltanto se si sa già in partenza di poter avere a disposizione più voti degli avversari non è certamente un atteggiamento che possa far riavvicinare il popolo della sinistra a chi governa.
sabato 22 novembre 2014
I valori non sono solo parole
Nella lettera di risposta da parte del presidente del Consiglio a “Repubblica” che ne metteva fortemente in dubbio la sua collocazione politica, Renzi sostiene di essere di sinistra e di agire in tal senso. Ebbene, questa lettera chiarifica molte cose, nel senso che non può più essere messa in dubbio né la netta cesura tra dichiarazioni e fatti, né la sua capacità di usare le parole non per rispettarne il loro significato, ma per usarle – soprattutto nelle aggettivazioni – come specchi deformanti che abbiano la capacità di catturare e riflettere un bagliore distraendo dal buio del contesto.
È vero: bisogna dargli atto che nel Parlamento europeo oggi il PD è «dentro la famiglia socialista», ma questo è avvenuto per «scelte strategiche» che sembrano riguardare più la sua personale collocazione iniziale in seno a un partito giustamente sospettoso, che la politica effettiva del partito stesso.
Dice che non «c’è un uomo solo al comando», ma come altrimenti si potrebbe spiegare la pochezza di un consiglio dei ministri che, tranne poche eccezioni, sembra fatto apposta per non aver la forza di tirare fuori le proprie idee e i propri eventuali dissensi? Quella del Pd sarà anche una «una sfida plurale», ma sta di fatto che ogni dichiarazione programmatica esce sempre e soltanto da una sola bocca e che da quella stessa bocca esce anche ogni reprimenda contro chi non è d’accordo.
Davanti all’accusa di una mancanza di rispetto nei confronti di una storia e di una rappresentanza, risponde: «Non è la mia intenzione, ho un profondo rispetto per il lavoro e per i lavoratori che il sindacato rappresenta». Viene da chiedersi: non fosse così, non si sarebbe limitato a non ascoltarli mai, ma li avrebbe cancellati? E continua: «Sono pronto sempre al confronto, da mesi giro l’Italia in lungo e largo, visitando aziende, stringendo le mani di chi lavora». È vero: da mesi gira per le aziende a stringere le mani agli imprenditori e, se ne stringe qualcuna a chi lavora – ammesso che non sia stato messo in ferie coatte nel giorno in cui era in visita e questo ricorda quel ventennio in cui ai dissidenti era tolta temporaneamente la libertà di movimento quando arrivava il capo del momento – si limita a stringerla. Fare politica seriamente non è stringere mani, ma ascoltare davvero i bisogni di tutti per tentare di migliorare la situazione.
Si lamenta giustamente che il sindacato non ha manifestato contro la Legge Fornero e oggi manifesta contro il Jobs Act. Ma l’errore è stato quello e non questo. E se dice che il sindacato oggi fa politica, dimostra di conoscere poco la Costituzione e anche che cos’è una democrazia compiuta in cui tutti i cittadini, individualmente o tramite rappresentanza, hanno il diritto-dovere di fare politica, di tentare di far star meglio se stessi e tutti gli altri. La democrazia non è soltanto andare a votare ogni cinque anni, anche se in una di quelle occasioni si riesce a raccogliere quasi il 41 per cento.
«Per noi – dice ancora – la sinistra è storia e valori; certo, è Berlinguer e Mandela, Dossetti e Langer, La Pira e Kennedy, Calamandrei e Gandhi. Ma è soprattutto un futuro su cui lavorare insieme per risolvere i problemi delle persone, per dare orizzonte e dignità, per sentirsi parte e avere orgoglio di essere non solo di sinistra, ma italiani». Mi piacerebbe molto che buona parte dei personaggi nominati da Renzi, che sono dei veri monumenti dell’umanità, ma che ho difficoltà a definire “di sinistra” e alcuni dei quali probabilmente in vita avrebbero avuto l’orticaria a sentirsi definire “di sinistra”, potessero esprimersi sulla politica di Renzi, soprattutto nel campo del lavoro e nella destrutturazione del nostro sistema democratico e costituzionale.
Vorrei ricordare che c’è anche gente di destra che onestamente pensa che le sue idee possano migliorare la situazione. Ma con la sinistra c’entrano ben poco perché sono proprio i valori cui fumosamente e fugacemente Renzi accenna di tanto in tanto a essere fortemente diversi.
venerdì 7 novembre 2014
La rabbia e il disprezzo
Ai primissimi posti della hit parade delle caratteristiche più
disdicevoli di Matteo Renzi, praticamente alla pari con l’abitudine di voler
far passare come “di sinistra” idee e provvedimenti indubitabilmente di destra,
trova posto il suo modo di rivolgersi agli italiani come se stesse parlando a
una banda di persone incapaci di discernimento.
Lo fa spesso, ma talvolta esagera davvero.
Alla Piaggio Aerospace, dopo
aver dovuto ascoltare, sia pur distrattamente, le proteste di un gruppo di lavoratori, all’esterno
del nuovo stabilimento di Villanova di Albenga, che stavano protestando contro le
esternalizzazioni previste dal gruppo, ha detto con incredibile faccia tosta al
pubblico presente all’interno dello stabilimento – e, quindi, selezionata e
plaudente – che «è normale avere idee diverse ma guai a pensare che si possa fare
del mondo del lavoro il terreno dello scontro».
Bella, questa. Cioè i
lavoratori dovrebbero stare zitti anche se i licenziamenti collettivi sono
diventati frequentissimi; anche se, per la maggior parte, i contratti sono
bloccati da anni mentre i prezzi, le tasse e le imposte continuano a crescere,
mentre i servizi diminuiscono; anche se gli 80 euro toccano soltanto una
piccola fascia di lavoratori e il provvedimento non si occupa minimamente di
quelli che stanno ancora peggio; anche se la quasi totalità delle disposizioni
della legge di stabilità si preoccupa delle aziende e non di chi vi lavora;
anche se lo steso Renzi si rifiuta di parlare con i rappresentanti dei
lavoratori mentre cinguetta con quelli degli imprenditori.
E poi ha detto, ma qui probabilmente non si è neppure reso
conto della cinica assurdità della sua frase: «Quando si sta un un'azienda ci
lega qualcosa di più che lo stipendio, ma l'idea di appartenere a una storia».
Personalmente conosco tantissima gente che ha lavorato ben al di là di quanto
richiesto dal contratto per ricevere lo stipendio e che si è sentita parte
fondamentale della storia dell’azienda per cui ha operato con orgoglio e
dedizione. E ho conosciuto anche degli imprenditori – non tutti, per fortuna –
che, appena la propria azienda ha cominciato a scricchiolare ha pensato a
mettere al sicuro se stessi fregandosene tranquillamente della propria azienda,
della sua storia e, soprattutto, della gente che vi lavorava con quell’orgoglio
di cui dicevo prima.
Renzi dovrebbe capire, prima o poi, che le uova che gli
lanciano contro e sulle quali scherza esprimono sì rabbia, ma soprattutto disprezzo.
venerdì 31 ottobre 2014
Il punto di vista
Colpisce molto non soltanto che dopo gli scontri di Roma della
Polizia contro operai di Terni, con cinque manifestanti costretti a ricorrere
alle cure ospedaliere, il ministro degli Interni Angelino Alfano solidarizzi
con tutti, ma che addirittura inviti il sindacato a controllare insieme a lui i
cortei. Ora, a prescindere dal fatto che ogni manganellata data a chi manifesta
con disperazione, ma pacificamente, finisce per far tornare alla memoria il G8
di Genova, e che il sindacato non ha ne forze dell’ordine, né manganelli, la
cosa che più colpisce è l’ipocrisia di questa posizione teoricamente
equidistante.
Non è vero che tutti siano vittime. Forse si tratta di un eccesso
di difesa da parte di chi non aveva i nervi saldi, ma sta di fatto che qualcuno
– soprattutto a livello di comando – ha sbagliato e che è giusto che gli errori,
anche senza successive punizioni, siano messi in rilievo perché, come sempre, è
soltanto la giustizia che può allontanare quelle tensioni sociali paventate e che
si tenta di esorcizzare nascondendo le responsabilità e tentando di dire siamo
tutti buoni e tutti abbiamo ragione.
Ho smesso già da molto giovane l’illusione di poter essere
simpatico a tutti e che tutti potessero essere simpatici a me. E non per altezzosa
misantropia, ma perché l’unico modo per accettare tutto e tutti è quello di rinunciare
a pensare, ad avere un proprio punto di vista, a prendere parte, a essere se
stessi. Talvolta può essere scomodo, ma questa scomodità tocca a tutti: pensate
a Papa Francesco che è costretto a specificare che lui non è comunista, ma che si
limita a seguire i dettami del Vangelo.
Essere tutti dalla stessa parte è politicamente e
socialmente molto pericoloso e anche questa idea è una delle cose che non
riesco proprio a digerire tra i progetti di Matteo Renzi che vorrebbe aprire le
porte del PD a tutti, dimenticando qualsiasi valore, perché la cosa importante
non è far avanzare i propri principi e le proprie idee, ma vincere le elezioni e
vincere sempre più nettamente. E se per questo bisogna spostarsi su posizioni
distantissime da quelle di partenza, allora pazienza. Forse perché le idee di
partenza tanto solide proprio non erano.
Renzi ora parla di “Partito nazionale” usando un aggettivo
che storicamente non ha una buona fama, visto che era ripreso nel Partito nazionale fascista e nel Partito
nazionalsocialista tedesco. È sempre questione di punti di vista, ma quello che
osservo dal mio, mi fa rabbrividire.
domenica 26 ottobre 2014
Le parole e i silenzi
Come sempre in politica le differenze sostanziali tra due posizioni sono segnate dalle parole, ma anche dai silenzi; e tra piazza San Giovanni e la Leopolda queste differenze sono state tantissime, anche se i silenzi hanno trovato posto più a Firenze che a Roma.
Confesso subito, per chi già non lo avesse intuito, che le mie maggiori simpatie vanno decisamente verso la piazza della Cgil, ma non credo che alcune mie considerazioni siano influenzate e falsate da queste mie simpatie.
Più che arrabbiarmi, infatti, resto male se sento che Matteo Renzi, segretario del maggior partito di centrosinistra, afferma che «Qui parla la gente che ha creato posti di lavoro», come se il benessere delle aziende, e quindi l’esistenza dei posti di lavoro,non dipendesse anche, e forse soprattutto, da chi vi lavora.
Resto male e comincio ad arrabbiarmi, invece, quando lo sento dire che «Ci confronteremo, ma poi andremo avanti, non è pensabile che una piazza blocchi paese», perché la sua frase, tradotta dal politichese, significa: «Va bene: perderemo un po’ di tempo ad ascoltare questi rompiscatole, ma, qualunque cosa dicano i rappresentanti dei lavoratori, andremo avanti lo stesso perché siamo noi ad avere in mano la verità».
Sono decisamente arrabbiato, poi, quando sento Davide Serra – il finanziere proprietario del Fondo Algebris creato nel paradiso fiscale delle Cayman e grande fiancheggiatore anche economico di Matteo Renzi – che sostiene a piena voce che apprezza il cosiddetto “Job Act” ma lo avrebbe voluto più deciso e sbilanciato perché, secondo lui, il diritto di sciopero va limitato in quanto «Dico che è un diritto; cerchiamo di capire che è un costo».
Intanto sembrano parole pronunciate intorno alla metà dell’800 da un illuminato latifondista della Confederazione quando in America si discuteva se dare la libertà agli schiavi: un loro diritto, ma sicuramente anche un costo “insostenibile” per i produttori di cotone e affini. Però sono anche parole di una persona che sicuramente si è laureata con il massimo dei voti alla Bocconi, che ha avuto enorme successo nel suo lavoro, ma che evidentemente non ha mai trovato il tempo per sfogliare con attenzione la nostra Costituzione che nell’articolo 1 afferma bizzarramente che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, che nel 39 statuisce che «L’organizzazione sindacale è libera» e «Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge» e nel 40 sottolinea che «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». E le leggi lo regolamentano soltanto per motivazioni di pubblico interesse e limitatamente ai soli servizi pubblici essenziali. Cioè quando i diritti collettivi di alcuni possono andare a ledere i diritti collettivi di tanti. E tra i diritti collettivi – credo che in questi tristissimi tempi vada sottolineato – non è mai annoverato quello di tagliare i diritti altrui per poter spendere di meno.
Resto nuovamente malissimo quando sento che alle parole di Serra a Firenze risponde un generale silenzio interrotto soltanto dalle parole di Graziano Del Rio («Io non la penso come lui») e di Debora Serracchiani («Non è uno dei problemi del Paese»). Credo davvero che nel PD le parole di Serra meriterebbero un «Non può dire cose del genere e restare tra di noi» e che sono proprio queste parole uno dei problemi del Paese.
sabato 18 ottobre 2014
La comandabilità
Potrà sembrare bizzarro, ma mi sto convincendo sempre di più che, al netto delle pur importanti contingenze internazionali, una delle maggiori cause della nostra crisi economica risiede nella perdita di democrazia del nostro Paese.
Cerco di spiegarmi specificando subito che di questo non attribuisco colpe soltanto a Renzi che non ha creato questa situazione, ma che la sta portando avanti e cerca di perfezionarla dando sempre più sostanza a un tipo di regime che di democratico porta quasi soltanto il nome. È da molti anni, infatti, che – con le brevi eccezioni degli esecutivi presieduti da Prodi – non si governa più, ma si comanda; che si tenta di limitare sempre più il momento democratico al solo esercizio del voto, mentre è sempre più marginalizzata la vera essenza della democrazia e cioè la discussione e la faticosa ricerca della soluzione migliore, ma anche più equilibrata, che possa aiutare più gente possibile e danneggiarne il meno possibile.
Perché la base della democrazia ha ben presente il concetto laico che nessuno possiede la verità assoluta e che, quindi, chi ha il maggior numero di voti riesce sicuramente a imporre le proprie leggi, ma anche che il possesso di una maggioranza non corrisponde al dono dell’infallibilità e che chi vince non sempre ha ragione. E infatti la democrazia prevede il cambiamento.
Da molto tempo, invece, vediamo che, o per motivazioni politiche, o per supposte necessità “tecniche”, si procede a strappi, senza aprirsi a consultazioni e discussioni, a meno che non si sappia che, o per totale assenza di obiezioni da parte di parlamentari-dipendenti, o per numeri di voti già certi a prescindere dalla discussione prima dell’inizio della discussione stessa, che il risultato sarà assolutamente scontato e aderente alla volontà del presidente del Consiglio in carica pro tempore.
E tutto questo non procura soltanto un danno diretto nel promulgare leggi che hanno in sé una quantità di errori inevitabili quando qualcuno, in nome della propria supposto infallibilità, rifiuta di confrontarsi con coloro che hanno opinioni diverse, ma soprattutto si innesca un disastro a lungo termine perché nella testa dei cittadini entra inevitabilmente il concetto che le discussioni sono inutili, che esporre le proprie idee non porta neppure all’apertura di una discussione, che è del tutto inutile partecipare e che, quindi, parafrasando il celebre «libertà è partecipazione» di Giorgio Gaber, siamo sempre meno liberi.
So che a molti sembrerà una bestemmia, ma sono terribilmente pentito di aver votato per il maggioritario nel referendum sul sistema elettorale che ha abolito quel metodo proporzionale che faceva diventare importanti anche le variazioni dello 0,5 per cento e che, quindi, rendeva molto più sensibili ai bisogni e alle opinioni della gente i vari partiti che potevano diventare o meno determinanti nella composizioni dei governi che si susseguivano a ritmi forse un po’ troppo veloci, ma che, comunque, erano capaci di portare l’Italia fuori dal disastro della guerra, di dare vita al boom economico e di portare l’intero Paese a un grado di benessere prima inimmaginabile.
Quella volta pensare e discutere era considerato un pregio e non un fastidioso difetto. Oggi anche la Boldrini, come i suoi predecessori di oltre due decenni lamenta il fatto che nel Parlamento non si parlamenti più, ma soltanto si ratifichi, a colpi di fiducia su decreti governativi ciò che si decide altrove. Oggi le Regioni protestano perché i pretesi tagli delle tasse sono, in realtà, o spostamenti delle tasse dallo Stato centrale alle amministrazioni decentrate, oppure corrispondono a forti tagli dei servizi e, dunque, a maggiori spese per i cittadini.
È da decenni che si sente parlare della necessità di governi stabili, ma, in realtà, più che la governabilità viene rincorsa – scusate il neologismo – la comandabilità.
martedì 14 ottobre 2014
Renzi, la sinistra e Lupi
Matteo
Renzi torna tronfio dall’incontro con la Confindustria di Bergamo e
afferma di aver presentato «una manovra di sinistra» e che «se questo
discorso l’avesse fatto qualcun altro, la Cgil avrebbe applaudito».
Ad ascoltare Renzi spesso si resta sorpresi, ma questa volta non posso evitare di chiedermi se sia possibile che mi sia sbagliato tanto nel criticare il suo operato ritenendolo assolutamente squilibrato a destra? È sicuramente possibile perché non possiedo il dono dell’infallibilità di cui lui si ritiene, invece, dotato. Ma a questo punto diventa obbligatorio analizzare un po’ meglio il suo programma.
Abbassare l’Irap può essere considerato di sinistra? Probabilmente sì, ma visto che era anche tra i desideri di Berlusconi e Monti, oltre che in quelli di Prodi e Letta, può essere considerato anche di destra. O, forse, è soltanto una necessità economica a prescindere da chi sia al governo. Poi sicuramente conviene alle imprese; soltanto sperabilmente ai lavoratori.
Anche l’idea di togliere l’obbligo di versare i contributi per i primi tre anni di lavoro per gli assunti a tempo indeterminato sembra una bella idea, anche se pure i predecessori di Renzi avevano messo in progetto alcune ipotesi simili. Ma due sono le obiezioni ed entrambe minacciano molto di più la felicità del dipendente piuttosto che quella del datore di lavoro.
La prima si riassume in una domanda: chi mai assumerà qualcuno, se non avrà lavoro da far fare a un nuovo assunto? Della seconda ho già scritto recentemente e considera il fatto che tre anni senza contributi da versare con contratti a tutele crescenti e che nei primi anni saranno debolissime, e con la quasi totale cancellazione dell’articolo 18, se non in casi estremi, potrebbe far accelerare la già triste giostra dei turnover aziendali anche se nominalmente nessuno – tranne i lavoratori e i sindacati – parlerà più di precariato, ma soltanto di necessità aziendali contingenti.
Difficile, dunque, dare credito a Renzi quando si erge a campione della sinistra nel campo del lavoro. Se possiamo permettercelo, gli suggeriamo di investirsi di questo onore e onere quando arriveranno al pettine gli enormi nodi del Decreto Lupi che, in termini di edilizia e di opere pubbliche, continua imperterrito su quella strada che la destra ha sempre voluto chiamare libertà e che, invece, ha la sostanza dell’arbitrio. Le cosiddette liberalizzazioni previste da Lupi consistono, infatti, in cancellazioni di quei controlli e di quelle garanzie che, se applicate a suo tempo, avrebbero impedito lo scempio portato a Genova, ma non solo lì, da un’acqua costretta in tante condotte forzate a cielo aperto create dalla dilagante cementificazione.
Ecco, un governo che tenta di qualificarsi con politiche che dice di essere di sinistra dovrebbe opporsi strenuamente a quella distruzione dell’ambiente che porta morti e a immense spese pubbliche non per proteggere i cittadini, ma soltanto per riparare i danni. Dicono: “Ma Lupi e di destra”. Davvero? Ve ne sietre accorti ora? E accettare i suoi vaneggiamenti è forse di un governo di centrosinistra?
Ad ascoltare Renzi spesso si resta sorpresi, ma questa volta non posso evitare di chiedermi se sia possibile che mi sia sbagliato tanto nel criticare il suo operato ritenendolo assolutamente squilibrato a destra? È sicuramente possibile perché non possiedo il dono dell’infallibilità di cui lui si ritiene, invece, dotato. Ma a questo punto diventa obbligatorio analizzare un po’ meglio il suo programma.
Abbassare l’Irap può essere considerato di sinistra? Probabilmente sì, ma visto che era anche tra i desideri di Berlusconi e Monti, oltre che in quelli di Prodi e Letta, può essere considerato anche di destra. O, forse, è soltanto una necessità economica a prescindere da chi sia al governo. Poi sicuramente conviene alle imprese; soltanto sperabilmente ai lavoratori.
Anche l’idea di togliere l’obbligo di versare i contributi per i primi tre anni di lavoro per gli assunti a tempo indeterminato sembra una bella idea, anche se pure i predecessori di Renzi avevano messo in progetto alcune ipotesi simili. Ma due sono le obiezioni ed entrambe minacciano molto di più la felicità del dipendente piuttosto che quella del datore di lavoro.
La prima si riassume in una domanda: chi mai assumerà qualcuno, se non avrà lavoro da far fare a un nuovo assunto? Della seconda ho già scritto recentemente e considera il fatto che tre anni senza contributi da versare con contratti a tutele crescenti e che nei primi anni saranno debolissime, e con la quasi totale cancellazione dell’articolo 18, se non in casi estremi, potrebbe far accelerare la già triste giostra dei turnover aziendali anche se nominalmente nessuno – tranne i lavoratori e i sindacati – parlerà più di precariato, ma soltanto di necessità aziendali contingenti.
Difficile, dunque, dare credito a Renzi quando si erge a campione della sinistra nel campo del lavoro. Se possiamo permettercelo, gli suggeriamo di investirsi di questo onore e onere quando arriveranno al pettine gli enormi nodi del Decreto Lupi che, in termini di edilizia e di opere pubbliche, continua imperterrito su quella strada che la destra ha sempre voluto chiamare libertà e che, invece, ha la sostanza dell’arbitrio. Le cosiddette liberalizzazioni previste da Lupi consistono, infatti, in cancellazioni di quei controlli e di quelle garanzie che, se applicate a suo tempo, avrebbero impedito lo scempio portato a Genova, ma non solo lì, da un’acqua costretta in tante condotte forzate a cielo aperto create dalla dilagante cementificazione.
Ecco, un governo che tenta di qualificarsi con politiche che dice di essere di sinistra dovrebbe opporsi strenuamente a quella distruzione dell’ambiente che porta morti e a immense spese pubbliche non per proteggere i cittadini, ma soltanto per riparare i danni. Dicono: “Ma Lupi e di destra”. Davvero? Ve ne sietre accorti ora? E accettare i suoi vaneggiamenti è forse di un governo di centrosinistra?
venerdì 3 ottobre 2014
I giochini con le parole
Il problema è sempre quello, fin
da prima che don Lorenzo Milani lo codificasse dicendo che «l'operaio conosce
300 parole, il padrone 1000; per questo lui è il padrone». E continuerà per
sempre così fino a quando, con l’istruzione e con la diffusione della cultura,
non saranno dotati tutti di un vocabolario di pari estensione. Innalzando le
capacità dell’operaio, ovviamente, e non calando quella del padrone. Agendo,
insomma, in maniera opposta a quella che sta portando avanti il nostro governo
in materia di diritti, e cioè tentando di rendere tutti uguali togliendo
diritti a quei pochi che li hanno già.
Adesso a sfruttare gli equivoci
sulle parole ci si mette anche mister John R. Phillips, ambasciatore degli
Stati Uniti in Italia, che dichiara che l’Italia può farcela a uscire dalla
crisi, a meno che il sistema politico italiano non resti «troppo rigido, troppo
diviso tra gruppi di interessi». E qui tutti fanno cenno di sì con il capo
perché il concetto di «gruppi di interesse» fa inevitabilmente venire in mente
delle confraternite di potere che sono state capaci di indirizzare la politica
italiana lungo la discesa che ci ha portato sull’orlo del baratro; che ha spinto,
soltanto per fare un esempio, a distruggere il sistema del trasporto pubblico,
e soprattutto quello ferroviario, a favore dell’industria automobilistica e di
chi la possedeva.
E a nessuno viene in testa che
tra i «gruppi di interesse», possono esserci anche quelle associazioni – più o
meno codificate – che vorrebbero che i più poveri non morissero di fame; o che
i diseredati potessero mantenere almeno un po’ di dignità; che anche i malati poveri
potessero essere curati come quelli ricchi e non dovessero evitare alcuni esami
perché non possono permettersi il ticket; che i ragazzi delle scuole pubbliche
avessero aule decenti come quelli delle scuole private; che i cinquantenni disoccupati
loro malgrado potessero ancora avere una speranza di vita; che i giovani italiani
non dovessero andare all’estero per trovare uno straccio di lavoro. Sì. Anche
questi sono «gruppi di interesse». Eppure sono convinto che a questi gruppi di
interesse sarebbe del tutto onorevole dare una mano.
Mister John R. Phillips, insomma,
dovrebbe ricordare che alcuni «gruppi di interesse» italiani sono spesso
soltanto «gruppi di sopravvivenza» e, quindi, molto diversi dalle lobby
statunitensi e dalle “cupole” italiane. Su una cosa della da Philipps, però
sono assolutamente d’accordo: quando lui, che lo conosce da cinque anni (curioso:
da ben prima che diventasse presidente del Consiglio), afferma che Matteo Renzi
gli ricorda Ronald Reagan.
E, per restare a casa nostra, non
mi stancherò mai di ripetere che il giochino con cui Renzi accusa la sinistra
di essere conservatrice è puerile, se non del tutto stupido. Renzi, infatti,
appiccica alla sinistra l’appellativo di “conservatori” riservando a se stesso
e ai suoi quello di “riformatori”. Io, invece a Renzi e ai suoi appiccicherei
il titolo di “restauratori”. Provate a pensarci: davanti al tentativo di
reintrodurre alcune forme di schiavitù, dando per accettato che chi vuole
mantenere la libertà conquistata possa essere chiamato “conservatore”, vi
rivolgereste a chi questa libertà la vuole limitare chiamandolo “riformatore”,
o “restauratore”?
giovedì 21 agosto 2014
Ideologie e idee
Colpisce molto,
perché ottimamente descrittiva di una situazione, la dichiarazione di
Maurizio Lupi che, per giustificare l’assenza di altri esponenti del
governo al meeting di Comunione e liberazione, platea tradizionalmente
di centrodestra, ha detto: «Con la crisi le barriere ideologiche si
superano: non si tratta di destra o sinistra, ma delle risposte da
dare».
Appunto: ci sono risposte da dare. Ma o sono di destra, o sono di sinistra. Possono anche essere mediazioni, ma deve essere chiaro che di accomodamenti temporanei si tratta. Tra l’altro, la convinzione, non soltanto mia, è che, proprio perché finora sono state date risposte che puzzano di destra lontano un miglio, la crisi non soltanto non si sta allentando, ma, anzi, si sta acuendo sempre di più, approfondendo le differenze tra ceti sociali e categorie economiche, rendendo sempre più ricchi i ricchi e sempre più poveri i poveri, inneggiando alla ricerca del bene proprio e non interessandosi del bene altrui fino a quando non appare evidente che senza la collaborazione degli altri il bene proprio va a farsi benedire. E se queste non sono idee di destra…
Si può capire che Lupi cerchi di difendere la propria posizione di ministro di destra in un esecutivo di teorica centrosinistra, ma non può essergli consentito di sparare gratuitamente stupidaggini, come quella di tentare di far coincidere la fine delle ideologie con la fine delle idee che, fortunatamente, continuano a esistere.
Le ideologie, infatti, sono assolute e, come tutte le cose umane, non perfette. Alla fine, quindi, mostrano la corda inciampando sui tanti inevitabili difetti di una pratica scritta a tavolino su un canovaccio ideato su un concetto di base che, invece, può essere condiviso, oppure avversata, ma che ha in sé un nucleo di partenza che può apparire soltanto totalmente giusto, o totalmente sbagliato. Un po’ come le religioni.
Le idee, invece, continuano a nutrirsi delle forza di quei concetti di base, ma evitando gli errori di applicazione che si sono già palesati nel corso delle storia.
E le idee che escono dal concetto di sinistra, sono di uguaglianza, di solidarietà, di giustizia uguale per tutti, di democrazia reale, di lavoro come fondamento della dignità. Chi dice che queste sono le stesse basi del concetto di destra, o non sa cosa dice, o lo sa benissimo e cerca soltanto di imbrogliare l’uditorio.
Appunto: ci sono risposte da dare. Ma o sono di destra, o sono di sinistra. Possono anche essere mediazioni, ma deve essere chiaro che di accomodamenti temporanei si tratta. Tra l’altro, la convinzione, non soltanto mia, è che, proprio perché finora sono state date risposte che puzzano di destra lontano un miglio, la crisi non soltanto non si sta allentando, ma, anzi, si sta acuendo sempre di più, approfondendo le differenze tra ceti sociali e categorie economiche, rendendo sempre più ricchi i ricchi e sempre più poveri i poveri, inneggiando alla ricerca del bene proprio e non interessandosi del bene altrui fino a quando non appare evidente che senza la collaborazione degli altri il bene proprio va a farsi benedire. E se queste non sono idee di destra…
Si può capire che Lupi cerchi di difendere la propria posizione di ministro di destra in un esecutivo di teorica centrosinistra, ma non può essergli consentito di sparare gratuitamente stupidaggini, come quella di tentare di far coincidere la fine delle ideologie con la fine delle idee che, fortunatamente, continuano a esistere.
Le ideologie, infatti, sono assolute e, come tutte le cose umane, non perfette. Alla fine, quindi, mostrano la corda inciampando sui tanti inevitabili difetti di una pratica scritta a tavolino su un canovaccio ideato su un concetto di base che, invece, può essere condiviso, oppure avversata, ma che ha in sé un nucleo di partenza che può apparire soltanto totalmente giusto, o totalmente sbagliato. Un po’ come le religioni.
Le idee, invece, continuano a nutrirsi delle forza di quei concetti di base, ma evitando gli errori di applicazione che si sono già palesati nel corso delle storia.
E le idee che escono dal concetto di sinistra, sono di uguaglianza, di solidarietà, di giustizia uguale per tutti, di democrazia reale, di lavoro come fondamento della dignità. Chi dice che queste sono le stesse basi del concetto di destra, o non sa cosa dice, o lo sa benissimo e cerca soltanto di imbrogliare l’uditorio.
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