giovedì 28 marzo 2019

lontano/lontano

A parlare di sorpresa si sarebbe ipocriti. Che a Fontanini vicino/lontano non andasse proprio giù era chiarissimo già ai tempi della campagna elettorale per le elezioni comunali e, quindi, non coglie di sorpresa l’attacco portato alla manifestazione di promozione culturale che contraddistingue Udine da quindici anni. Personalmente resto un po’ stupito che l’assessore Cigolot si sia prestato a una simile recita, ma questo resta una mia delusione personale sulla quale non vale la pena di insistere.

Uso la parola “recita”, perché il violento attacco alla figura di Tiziano Terzani è evidentemente soltanto strumentale: il vero obbiettivo, infatti, non è il valore del giornalista i cui libri sono stati tradotti in 15 lingue e che, quindi, probabilmente qualche merito ce l’ha, anche se Fontanini e i suoi fedeli ora dicono di non vederlo. Il vero obbiettivo è quello già dichiarato in campagna elettorale: depotenziare, se non proprio eliminare, l’intera manifestazione di cui il Premio Terzani è il momento di punta, ma che trae valore già da se stessa e che, con la serata al Giovanni da Udine, ottiene maggiore visibilità, ma non maggiore validità, visto che quella è già ad altissimi livelli.

L’attacco a vicino/lontano – pardon, il «contributo critico» che si estrinseca nella riduzione del contributo comunale da 30 a 10 mila euro – rientra perfettamente nel nuovo clima politico instauratosi in Italia, un clima nel quale la discussione è mal sopportata, se non decisamente avversata. E vicino/lontano è nato proprio per mettere a confronto non soltanto i vicini e i lontani, ma anche tutte le convinzioni diverse, o contrapposte, delle cui esplicitazioni svolte in questi anni, non soltanto nell’ex chiesa di San Francesco, l’elenco sarebbe troppo lungo. E, a riprova, basterebbe aver visto quanta gente non di sinistra ha affollato sempre gli incontri.

Cigolot dice con tono accusatorio che «vicino/lontano gode di una sconfinata ammirazione da parte dei media locali, soprattutto dalla stampa» e non gli viene neppure il dubbio che la concordanza di giudizio dei media, pur molto diversi tra loro, sia una prova della validità dell’iniziativa.

Ma probabilmente il dubbio non gli viene anche perché il centrodestra è abituato a ragionare non soltanto con i numeri, ma esclusivamente con i numeri che fanno comodo alla loro posizione del momento. Dire che 25 mila spettatori medi sono una realtà trascurabile è risibile. Sostenere che il ritorno di visibilità che i tre giorni regalano a Udine sul palcoscenico nazionale è poco importante, rivela o un’incapacità di valutazione, o, più probabilmente, un vano tentativo di arrampicarsi sugli specchi. Accusare di ripetitività quell’infinita serie di dibattiti svolti da quando l’ho visto nascere e che vivono sui fatti dell’attualità significa addirittura esporsi al ridicolo, anche perché il ritorno economico di una simile visibilità va ben oltre i tre giorni di incontri per riverberarsi sul tutto l’anno.

Il problema è che la destra ha sempre visto come il fumo negli occhi le manifestazioni di questo tipo, sia perché istigano a ragionare e il ragionamento è il maggiore pericolo che corre il “sì” a prescindere, sia in quanto, quando hanno tentato di mettersi in competizione sullo stesso livello, hanno clamorosamente fallito, sia sul piano della qualità, sia su quello della quantità: basterebbe ricordare la fugace e disastrosa avventura di “Bianco e nero” voluto da Tondo, costato molto di più e visto soltanto da pochissimi passanti.

Un’ultima nota: Cigolot a un certo punto sembra parlare anche a nome della Regione e questo non può non far temere ulteriori attacchi per il futuro.

Tutto sommato, però, bisognerebbe ringraziare la giunta Fontanini e il suo portavoce: in periodi in cui alcuni si sgolano a sostenere che destra e sinistra non esistono più, loro dimostrano a tutti che queste due categorie dello spirito esistono ancora e che, anzi, stanno riacquistando contorni ben definiti e sempre più lontani.

Da anni invito tutti a leggere anche come forma di disobbedienza civile. Anche dimostrare con la propria presenza, dal 16 al 19 maggio agli incontri sul tema del “Contagio”, a Cigolot e soci quanto si sbagliano, sarà una prova che Udine non ha perduto la propria anima e che vicino/lontano non diventerà mai lontano/lontano.

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lunedì 25 marzo 2019

Il comma 22 di Salvini

Il dubbio è se accusarlo di cinica e beffarda crudeltà nei confronti dei più deboli, oppure di pesante ignoranza istituzionale. Poi, visto che l’oggetto del dubbio è il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, entrambe le ipotesi possono essere valide. Anzi, addirittura possono coesistere e assommarsi.
 
A dire il vero, però, si tende a propendere per la prima ipotesi, sia perché, se c’è da attaccare e sbertucciare un non italiano, Salvini non si tira mai indietro, sia in quanto la dose di ignoranza istituzionale necessaria per confezionare certe frasi sarebbe davvero eccessiva addirittura per un ministro dei 5stelle.

Più d’uno ha proposto di dare la cittadinanza italiana a Rami, il ragazzino che è riuscito a innescare l’operazione di salvataggio dei suoi compagni dal pullman che stava per essere incendiato, non si sa ancora se deliberatamente o per disequilibrio mentale, da un italiano di pelle scura che ora afferma di averlo fatto per vendicare i tanti bambini annegati nel Mediterraneo, o per protestare contro la politica del governo giallo-verde-bruno sui migranti.

Ecco cosa dice Salvini a Rami, rispondendo anche ai proponenti: «A Rami piacerebbe lo ius soli? Lo potrà fare quando sarà eletto al Parlamento. Per il momento la legge non cambia e non ci sono margini di discussione». E obbiettivamente sembra difficile che non si tratti di una beffarda presa in giro.

Intanto, la questione dell’età: Rami, 13 anni, dovrebbe aspettarne 12 soltanto per potersi candidare alla Camera. Se poi dovesse ambire al Senato, di anni dovrebbe aspettarne addirittura 27.

Ma, ancora, più beffardamente importante è il fatto che Rami, al di là del doversi comportare da eroe, dovrebbe prima diventare italiano per poi poter fare in modo di diventare italiano. Perché il diritto di candidarsi a ricoprire cariche elettive, di godere cioè dell’elettorato passivo, è riconosciuto a tutti i cittadini italiani maggiorenni. Quindi, se non sei già italiano e maggiorenne, non puoi candidarti.

Non so se Salvini lo abbia mai letto, ma quello che lui ha detto per Rami assomiglia straordinariamente al nucleo fondante di un famoso romanzo di Joseph Heller, “Comma 22” che effettuava una feroce critica contro la struttura militare partendo da un comma, il 22, appunto, dei regolamenti ai quali erano soggetti i piloti e gli avieri durante la Seconda guerra mondiale: «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo». Un paradosso dal quale non è possibile alcuna via d’uscita al di là di una sola possibilità. Durante la seconda guerra mondiale, quella di salire sugli aerei; nel mondo di Salvini, se non sei già anche figlio di italiani, restare per sempre straniero nella patria dove sei nato.

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lunedì 11 marzo 2019

Rappresentanza va cercando…

Se ci pensate, la soluzione è già evidente nell’enunciato del problema: quando parliamo di democrazia rappresentativa, infatti, è evidente che se non c’è rappresentanza non c’è più nemmeno democrazia.
 
E non sembra essere neppure una questione di schieramenti: tutti dicono di rappresentare i loro elettori, ma in realtà quasi sempre fanno soltanto quello che vogliono. Forse quello che appare meno in colpa è proprio quello peggiore: Matteo Salvini perché anche il suo elettorato non fa che rimestare tra le peggiori pulsioni dell’animo umano: fascismo, razzismo, eterofobia, sovranismo, nazionalismo deteriore, desiderio di vendetta come tossico surrogato della giustizia. E, poi, ogni buon fascista anela a obbedire molto più che a discutere. Anche Giorgia Meloni, tutto sommato, non sembra distanziarsi molto dal suo elettorato; sembra, perché il campione è talmente minuscolo e obbediente che ogni pretesa di valutazione sfugge a criteri di scientificità.

E poi, vi è mai sembrato che a Berlusconi sia interessato almeno un po’ degli interessi di chi votava per lui? Che a Grillo sia mai venuto in testa che ci fossero conflitti tra i suoi voleri e i desideri degli elettori dei 5stelle che non potessero essere appianati da un pseudosondaggio, minuscolo come quantità e inesistente quanto a controllo, praticato con la complicità della piattaforma Rousseau? Che in Renzi si sia mai fatta strada la constatazione che le idee della sinistra del suo partito non potessero essere messe sempre a tacere con un bel voto di fiducia? Che i teorici rappresentanti delle isolette dell’arcipelago della sinistra propriamente detta siano mai stati sfiorati dal dubbio che i loro elettori parlassero di unità in maniera seria e non soltanto per dare aria alle tonsille?

Ecco, in questo tra destra e sinistra, a differenza che in tanti altri settori, in questi ultimi decenni non c’è stata davvero molta differenza. Se ora Zingaretti vuole dare sul serio un segnale forte, addirittura profondamente rivoluzionario, oltre a mettere nomi, volti e cervelli nuovi e preparati alla guida del PD, e a parlare nuovamente di lavoro, di scuola, di salute, di diseguaglianze, di solidarietà, dovrebbe dare prova di voler ridare contorni di sostanziale realtà e non di fumosa fantasia al concetto di rappresentanza che è alla base della nostra Costituzione e di cui, mentre il Parlamento è sempre più svuotato dalle sue funzioni, sentiamo acuta la mancanza e la necessità.

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giovedì 7 marzo 2019

Sinistra, indios, Gulliver e Robinson

È già passato il momento di soddisfazione sia per aver visto che, con l’affluenza alle primarie del PD, la sinistra vuole far sapere che esiste ancora, sia in quanto ha largamente dominato l’unico candidato decisamente schierato contro le tentazioni centriste e destrorse di un partito più preoccupato di raccattare voti che di fare il bene della porzione di italiani che vi aveva riposto le speranze di vivere meglio. Se ora ci si guarda intorno ci si rende conto che bisogna comunque ripartire praticamente da zero perché i nodi irrisolti restano ancora lì, del tutto intatti: quella che Veltroni aveva chiamato “vocazione maggioritaria”; la sfiducia reciproca che spesso sconfina nell’intolleranza tra quelli che pensano a un partito di centrosinistra e i seguaci di Renzi; la necessità di riportare in primo piano il lavoro come unica arma per restringere il dilagante campo della povertà; l’obbligo di ridare fiato a un welfare che, con le sue progressive assenze, costringe, tra l’altro, oltre quattro milioni di italiani a rinunciare a curarsi; l’inderogabile obbligo di far tornare civile un popolo che oggi ha dimenticato che poveri, disperati e migranti possono diventare tutti, anche quelli che oggi stanno bene e che la giustizia è cosa troppo seria per lasciarla nelle mani di chiunque lo voglia.

Su tutto il resto si è già scritto molto e ancora si scriverà. Oggi mi interessa soffermarmi su quella “vocazione maggioritaria” che costringe la sinistra a un ruolo di subalternità apparentemente inevitabile. Dato per scontato che molto difficilmente il PD da solo può pensare di superare il 50% dei consensi, occorre pensare ad alleanze non soltanto elettoralistiche che cedano subito dopo la distribuzione dei seggi, ma a unioni serie di intendimenti politici e sociali che si pongano obbiettivi precisi e che privilegino alcuni scopi principali rinviando a momenti successivi la risoluzione dei motivi di attrito di importanza secondaria. Per capirci, penso a una reincarnazione del Comitato di Liberazione Nazionale, di quel CNL nato il 9 settembre del 1943 a Roma e che poi, nell’aprile 1944, a Salerno, è riuscito a far convergere quasi tutti, dai comunisti ai monarchici, sulla scelta di rinviare la soluzione delle divergenze al momento in cui sarebbe stato risolto il problema principale: la cacciata dei nazisti dal suolo dell’Italia e dei fascisti dalle sue istituzioni. Poi il secondo obbiettivo non è stato del tutto raggiunto, ma questo è un altro discorso.

Quella volta, non senza difficoltà, l’iniziativa di Togliatti, con la mediazione di De Nicola, riuscì a far convergere verso il medesimo obbiettivo Nenni, Basso, La Malfa, Valiani, Sforza, Croce, Bonomi e tanti altri. Poi Togliatti fu accusato dai massimalisti di essersi reso impuro nel contatto con le altre forze politiche, ma intanto la Resistenza era riuscita non soltanto a cacciare gli invasori di terre e di diritti, ma anche a riscattare, almeno in parte il nome dell’Italia.

Ma come si può tentare, se finora si è sempre fallito, di mettere assieme tutti quelli che hanno in comune almeno la determinazione a non dare più il Paese in mano a fascisti, razzisti e spocchiosi incompetenti disposti a ogni compromesso pur di non mollare la una volta tanto vituperata poltrona? Dovrebbe essere già quasi sufficiente lo stato di necessità nel quale ci troviamo, ma sicuramente anche in questo campo un aiuto determinante può arrivarci dalla cultura, intesa non come sfoggio elitario, ma come semplice riuso organizzato di idee già distillate da altri.

Se è vero, infatti che ogni persona di centrosinistra vede il proprio simile che vota, però, per un’altra sigla, come un alieno, allora forse è davvero utile esplorare come questo contatto con gli alieni sia stato analizzato da grandi firme. La prima che vi propongo, molto brevemente, è quella di Tzvetan Todorov che nel suo libro “La conquista dell’America”, sottotitolato “Il problema dell’altro”, ripercorre le vicende immediatamente successive al 1492 quando la scoperta dell’America ha posto a contatto per la prima volta europei e indios, totalmente alieni gli uni per gli altri, e ha originato disastri di cui ancora oggi non abbiamo cessato di pagare le conseguenze. Todorov mette in rilievo che gli “alieni” sono stati considerati dagli europei, meglio armati e quindi più forti, o come esseri inferiori, e quindi da sfruttare, o come esseri umani e quindi da assimilare, anche con la forza. In entrambe le ipotesi questo ha comportato la distruzione della cultura altrui e, quindi, una resistenza iniziale e un impoverimento finale. Per uscirne indenni – scrive il sociologo e filosofo bulgaro – bisognerebbe saper «vivere la differenza nell’uguaglianza», cosa facile a dirsi, ma difficilissima a farsi. Eppure è l’unica strada, se si vuole operare insieme.

Altro suggerimento ci arriva da Jonathan Swift che nel suo “I viaggi di Gulliver” fa arrivare il protagonista del suo romanzo in quattro isole abitate da veri e proprio “alieni” di cui ricordiamo soprattutto i nanetti di Lilliput e i giganti di Brobdingnag. Swift scrive un aspro attacco allegorico alla vanità e all’ipocrisia della società dell’epoca, ma Marco Aime nel suo “Gli specchi di Gulliver”, sottotitolato “In difesa del relativismo”, mette acutamente in luce che Gulliver e i suoi stranissimi interlocutori, interrogando le proprie diversità, mettono in crisi le proprie certezze e finiscono per diventare altrettante facce dello stesso mondo: insomma si relativizzano specchiandosi gli uni negli altri.

Un ulteriore aiuto ci arriva da Daniel Defoe che colloca il suo "Robinson Crusoe" in un’isola deserta nella quale il naufrago si rende conto che il primo alieno da conoscere è proprio il se stesso che cambia in maniera sostanziale nella solitudine, nella perdita delle comodità abituali e nella necessità di difendere la propria esistenza intesa non soltanto come corpo pulsante, ma anche e soprattutto come grumo di idee e valori. E in questa situazione di continua e angustiante necessità, Robinson impara a distinguere non dico il bene dal male, ma almeno il male dal non male. E così combatte senza esitazioni sia i cannibali dalla pelle scura, sia i pirati dalla pelle chiara, ma capisce anche che proprio un uomo dalla pelle scura, pur apparentemente lontanissimo, può essere il suo vicino più vicino, quello che evangelicamente è chiamato “il prossimo”. E così a Venerdì insegna, ma da Venerdì anche impara. E poi con Venerdì affronta il rientro in patria dopo 17 anni, quando si rende conto che anche lui è diventato un alieno per i suoi compatrioti.

Ecco, con l’aiuto di quattro grandi firme, abbiamo percorso velocemente un tratto di quel sentiero che sinistra e centrosinistra dovrebbero seguire insieme se si vuole davvero far finire questa maledetta notte, se si vuole davvero liberare l’Italia dal tallone di fascisti, razzisti e spocchiosi incompetenti disposti a ogni compromesso pur di non mollare la una volta tanto vituperata poltrona.

È indubbiamente un percorso stretto, difficile, spesso respingente, o addirittura repellente, ma dobbiamo renderci conto che, sperando ancora nell’uomo, in questo momento è l’unica strada possibile per tornare in un mondo più umano e meno alieno.

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lunedì 4 marzo 2019

La scialuppa di salvataggio

Alla fine i motivi per andare a votare alle primarie mi sono apparsi prevalenti rispetto a quelli che mi inducevano a starmene a casa e ho espresso la mia preferenza per il candidato segretario che più mi dava garanzie di portare avanti valori e idee di sinistra. Quindi sono molto contento per il successo di Zingaretti, quello che appare il più lontano dalle idee di Renzi, quelle che hanno portato al naufragio del PD e di tutto il centrosinistra per il quale queste primarie si spera possano fungere da scialuppa di salvataggio.

E, visto che a remare per portate questa scialuppa verso la salvezza sono state circa un milione e 800 mila persone c’è la speranza che si riesca ad arrivare sulla terraferma e che questa maledetta notte possa davvero finalmente finire.

Enorme errore, però, sarebbe quello di pensare di avere già fatto il più, mentre, invece, si è fatto soltanto il primo passo, quello che permette di capire che si è davvero ancora vivi. Si è riusciti soltanto a toccare un’isola sulla quale finalmente si possa stare in piedi per combattere con efficacia belve feroci e pericolosissime come il fascismo, il razzismo, l’incapacità eletta a vanto.

Se volessimo trovare un paragone letterario, potremmo riferirci a “L’isola misteriosa” di Jules Verne in cui alcuni naufraghi riescono a toccare terra dal mare in burrasca e cominciano subito a lavorare insieme, ognuno mettendo in comune le proprie competenze. E di gerarchie, se non di quelle fissate dalle diverse abilità e, quindi, - diciamo così – a geometria variabile, non se ne parla perché tutti sanno fin da subito che l’importante non è chi comanda, ma che tutti lavorino insieme su progetti ben tracciati dapprima per sopravvivere e poi per vivere davvero bene.

Senza mai dimenticare, anzi avendoli costantemente in testa, coloro che stanno peggio. A prescindere dal sesso, dal colore della pelle, dalla religione e da altre differenze simili e del tutto inessenziali.


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venerdì 1 marzo 2019

I pro e i contro

Domenica si voterà per le primarie del PD e le discussioni tra la gente di sinistra e centrosinistra sul senso, o meno, di andare a esprimersi sul prossimo segretario di quel partito sono molto diffuse; sicuramente più della pubblicità che viene fatta a questo appuntamento.
 
Pur non essendo stato mai iscritto al PD, come del resto a nessun altro partito, ho sempre partecipato al momento di democrazia interna di una formazione politica che, nella speranza di allargarsi, ha lasciato che il suo destino potesse essere deciso da estranei. Poi abbiamo visto com’è andata a finire. Questa volta non ho ancora scelto se votare, o meno e, per tentare di far ordine nel mio pensiero in questi ultimissimi giorni, e magari riuscendo ad aiutare anche voi, ho deciso di mettere nero su bianco i pro e i contro – ovviamente solo quelli che sento dentro di me, quindi una lista necessariamente limitata – della prima scelta da fare.

Andare o non andare: questo è il problema.

Ecco i motivi del contro.
1. Perché il Pd sembra un morto che si illude di camminare ancora; e uno zombie non può essere capace di costruire qualcosa di buono e di nuovo.
2. Perché ogni volta si è chiesto di votare dicendo che tutti contribuivano a decidere la linea e ogni volta poi le decisioni sono state prese invece da un gruppo ristretto, o addirittura da uno soltanto.
3. Perché io sono di sinistra e il Pd non è un partito di sinistra.
4. Perché Renzi non soltanto è ancora lì dentro, ma tenta di dirigere la baracca con il suo fedele Giacchetti.
5. Perché non mi sento totalmente vicino a nessuno dei tre candidati e mi sono stufato di votare sempre per il meno peggio.
6. Perché non si può dare credito a un partito che ci mette un anno per fare un Congresso dopo la batosta subita alle ultime elezioni politiche e che presenta più o meno sempre le stesse persone dando l’idea di non aver ancora capito che serve cambiare decisamente strada.
7. Perché anche nella campagna per le primarie si è sentito parlare più degli equilibri interni che delle disuguaglianze sociali esterne.


Questi i motivi del pro.
1. Non è che a sinistra qualcuno stia scoppiando di salute e non so quanto utile sia dare un’ultima mazzata a un partito che comunque – visto che altri di quelle dimensioni non ce ne sono – dovrebbe svolgere il ruolo di necessaria massa gravitazionale tale da tenere vicine le mille altre anime della sinistra; almeno nelle occasioni elettorali.
2. Perché siamo sicuramente esposti al rischio di una nuova e sempre più terribile delusione, ma rinunciare già in partenza a qualsiasi speranza sicuramente non ci aiuterebbe a star meglio.
3. Perché se Renzi è ancora potente e non si facesse nulla per tentare di disinnescare il suo egocentrismo in cui la politica non è un arte per far star bene la gente, soprattutto quelli che lavorano, ma soltanto per alimentare il suo potere, ci si sentirebbe colpevoli di omissione. Quindi, un’eventuale vittoria di Giacchetti sarebbe una vittoria sua e, mentre il meno peggio, come sempre, non soddisfa, il peggio finisce per distruggere quel poco che ancora resta.
4. Permettere una vittoria renziana toglierebbe ogni ipotesi che si torni a fare analisi e autocritiche interne e alla pur flebile speranza che rinasca un partito che sappia rappresentare le diverse anime del centrosinistra: Era nato soltanto per questo.
5. Perché lasciare il Paese in mano a razzisti, fascisti, sovranisti, elitaristi e a incapaci è colpevole e, quindi, non è accettabile e qualunque possibilità, pur piccola, di esprimere il nostro “No” non va sprecata.
6. Perché, almeno per coloro che vivono a Udine, il voto alle primarie corrisponde a uno schiaffo metaforico in faccia al sindaco Pietro Fontanini e alla sua maggioranza, segnatamente all’assessora Daniela Perissutti, ridicolmente titolare del referato alle “Politiche dell'ascolto”, che hanno fatto il possibile per rendere difficili queste primarie negando in quasi tutti i casi le sedi di competenza del Comune di Udine. Anche per questo vi segnalo il sito dove potete trovare i posti di tutta la provincia nei quali, se lo vorrete, andare a votare: http://www.pd.udine.it/ cliccando poi sopra “QUI I SEGGI PER LE PRIMARIE”.


I pro e i contro non sono pari come numero e neppure come peso d’importanza e, inoltre, ognuno avrà sicuramente anche altre motivazioni in un senso o nell’altro. Come sempre, visto che non siamo tra quelli che scelgono i partiti in cui si rinuncia a pensare per seguire i voleri del “capo politico”, o del “capitano”, continuiamo a pensarci per fare una scelta che in coscienza sentiremo quella più giusta. Io, almeno, continuerò a pensarci. Fatemi sapere.

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