Poco mi
interessa discutere su chi abbia la colpa della spaccatura del PD: chi
legge Eppure… sa bene quanta poca simpatia e stima io abbia per Renzi
fin da quando, nel 2012, ha fatto campagna elettorale per le primarie
cavalcando un concetto di rottamazione che non distingueva tra bravi e
incapaci, onesti e disonesti, ma soltanto tra giovani e vecchi, amici e
non amici. E altrettanto inutile mi sembra questionare sulla scissione
del PD che appariva inevitabile fin da quando Bersani parlava della sua
“ditta”, senza accorgersi che quella “ditta” non produceva più carne in
scatola, ma nidi di rondine.
Ma il fatto che Lorenzo Guerini,
riferendosi a chi se n’è andato, dica: «Arriverà un giorno in cui
finalmente metteranno da parte l’odio per Matteo Renzi», che Debora
Serracchiani ripeta quasi esattamente le stesse parole, e che l’ex
presidente del Consiglio ed ex segretario del PD affermi che «la storia
della sinistra è più grande dei singoli leader che decidono quando
andarsene tradendo gli ideali della “ditta”», mi sembra obblighi a
riprendere in mano i concetti di destra e sinistra. Perché sulla
scissione si potranno avere mille idee diverse, ma è innegabile il fatto
che, al di là di possibili ambizioni o antipatie, quelli che se ne sono
andati lo hanno fatto proprio perché non si trovavano più a casa loro;
perché non si sentivano più a sinistra.
E allora tentiamo di riesumare
questi concetti che molti hanno tentato di seppellire perché scomodi, se
si vuol fare politica rincorrendo le convenienze del momento più che
gli ideali; e che, invece, continuano a essere preziosi, come un faro
nella notte per chi naviga. E tentiamo di farlo partendo dal “Destra e
sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” di Norberto
Bobbio, traendone un primo concetto e tentando di contestualizzarlo.
Nella sua analisi Bobbio sottolinea
che il criterio più frequentemente adottato per distinguere la sinistra
dalla destra è il diverso atteggiamento che gli uomini assumono di
fronte all’ideale dell’uguaglianza, che è, insieme a quello della
libertà e a quello della pace, uno dei fini ultimi che si propongono di
raggiungere e per i quali sono disposti a battersi». E poi aggiunge che
«a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai
per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra, da un lato il popolo
di chi ritiene che gli uomini siano più uguali che disuguali, dall’altro
il popolo di chi ritiene che siamo più disuguali che uguali».
E, proseguendo nell’analisi,
sottolinea che «La ragion d’essere dei diritti sociali come il diritto
all’istruzione, al lavoro, alla salute, è una ragione ugualitaria. Tutti
e tre mirano a rendere meno grande la disuguaglianza tra chi ha e chi
non ha, o a mettere in condizione un sempre maggior numero di persone di
essere meno disuguali rispetto a individui più fortunati per nascita e
condizione sociale». E, con questo, ribadisce «che se vi è un elemento
caratterizzante delle dottrine e dei movimenti che si sono chiamati e
sono stati riconosciuti universalmente come sinistra, questo è
l’ugualitarismo, inteso, ancora una volta, non come l’utopia di una
società in cui tutti gli individui siano uguali in tutto, ma come
tendenza a rendere più uguali i disuguali».
Tutto chiaro? Non del tutto perché
anche la destra afferma di richiamarsi a valori di uguaglianza che, se
negati esplicitamente, porterebbero inevitabilmente a un naufragio
elettorale. Ma il fatto è che sinistra e destra parlano di due
uguaglianze profondamente diverse. Potremmo quasi dire che, mentre la
destra caldeggia un’uguaglianza di partenza, la sinistra vorrebbe
realizzare un’uguaglianza di arrivo.
E tento di spiegarmi usando un
esempio frivolo. Le corse di cavalli sono di due tipi differenti: nelle
gare classiche, i par¬tecipanti partono dalla stessa linea; in quelle ad
handicap, si tenta di livellare le loro possibilità penalizzando con un
peso, o con una distanza maggiore, i cavalli che hanno ottenuto
risultati migliori. Nel primo caso, quello che più si attaglia ai valori
della destra, si parte dall’uguaglianza, allo scopo di scoprire
l’eccellenza del più dotato e accettando in partenza che i risultati
siano quasi scontati; nel secondo, che è vicino ai concetti della
sinistra, si comincia con una disuguaglianza compensatoria per dare a
tutti la possibilità di gareggiare alla pari e favorire un arrivo che
possa veder premiato anche colui che parte apparentemente svantaggiato,
ma che sa far valere i propri meriti.
Contestualizziamo ricordando anche
l’articolo 3 della Costituzione («È compito della Repubblica rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e l’uguaglianza dei cittadini…») e l’articolo 53 («Tutti sono
tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di
progressività»).
Togliere la tassa sulla prima casa a
tutti significa mantenere inalterate le differenze economiche tra i più
poveri e quelli più ricchi; proprio come a suo tempo aveva fatto la
destra di Berlusconi. Togliere la tassa sulla prima casa ai meno
abbienti vuol dire, invece, dare un minimo di aiuto a coloro che sono
svantaggiati per tentar di risalire. Renzi e i suoi hanno scelto la
prima opzione.
Un esempio piccolo, ma significativo
di come un concetto di sinistra sia stato messo in secondo piano per la
ricerca del consenso.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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