venerdì 3 marzo 2017

Sinistra e destra ci sono ancora

Poco mi interessa discutere su chi abbia la colpa della spaccatura del PD: chi legge Eppure… sa bene quanta poca simpatia e stima io abbia per Renzi fin da quando, nel 2012, ha fatto campagna elettorale per le primarie cavalcando un concetto di rottamazione che non distingueva tra bravi e incapaci, onesti e disonesti, ma soltanto tra giovani e vecchi, amici e non amici. E altrettanto inutile mi sembra questionare sulla scissione del PD che appariva inevitabile fin da quando Bersani parlava della sua “ditta”, senza accorgersi che quella “ditta” non produceva più carne in scatola, ma nidi di rondine.

Ma il fatto che Lorenzo Guerini, riferendosi a chi se n’è andato, dica: «Arriverà un giorno in cui finalmente metteranno da parte l’odio per Matteo Renzi», che Debora Serracchiani ripeta quasi esattamente le stesse parole, e che l’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del PD affermi che «la storia della sinistra è più grande dei singoli leader che decidono quando andarsene tradendo gli ideali della “ditta”», mi sembra obblighi a riprendere in mano i concetti di destra e sinistra. Perché sulla scissione si potranno avere mille idee diverse, ma è innegabile il fatto che, al di là di possibili ambizioni o antipatie, quelli che se ne sono andati lo hanno fatto proprio perché non si trovavano più a casa loro; perché non si sentivano più a sinistra.

E allora tentiamo di riesumare questi concetti che molti hanno tentato di seppellire perché scomodi, se si vuol fare politica rincorrendo le convenienze del momento più che gli ideali; e che, invece, continuano a essere preziosi, come un faro nella notte per chi naviga. E tentiamo di farlo partendo dal “Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” di Norberto Bobbio, traendone un primo concetto e tentando di contestualizzarlo.

Nella sua analisi Bobbio sottolinea che il criterio più frequentemente adottato per distinguere la sinistra dalla destra è il diverso atteggiamento che gli uomini assumono di fronte all’ideale dell’uguaglianza, che è, insieme a quello della libertà e a quello della pace, uno dei fini ultimi che si propongono di raggiungere e per i quali sono disposti a battersi». E poi aggiunge che «a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra, da un lato il popolo di chi ritiene che gli uomini siano più uguali che disuguali, dall’altro il popolo di chi ritiene che siamo più disuguali che uguali».

E, proseguendo nell’analisi, sottolinea che «La ragion d’essere dei diritti sociali come il diritto all’istruzione, al lavoro, alla salute, è una ragione ugualitaria. Tutti e tre mirano a rendere meno grande la disuguaglianza tra chi ha e chi non ha, o a mettere in condizione un sempre maggior numero di persone di essere meno disuguali rispetto a individui più fortunati per nascita e condizione sociale». E, con questo, ribadisce «che se vi è un elemento caratterizzante delle dottrine e dei movimenti che si sono chiamati e sono stati riconosciuti universalmente come sinistra, questo è l’ugualitarismo, inteso, ancora una volta, non come l’utopia di una società in cui tutti gli individui siano uguali in tutto, ma come tendenza a rendere più uguali i disuguali».

Tutto chiaro? Non del tutto perché anche la destra afferma di richiamarsi a valori di uguaglianza che, se negati esplicitamente, porterebbero inevitabilmente a un naufragio elettorale. Ma il fatto è che sinistra e destra parlano di due uguaglianze profondamente diverse. Potremmo quasi dire che, mentre la destra caldeggia un’uguaglianza di partenza, la sinistra vorrebbe realizzare un’uguaglianza di arrivo.

E tento di spiegarmi usando un esempio frivolo. Le corse di cavalli sono di due tipi differenti: nelle gare classiche, i par¬tecipanti partono dalla stessa linea; in quelle ad handicap, si tenta di livellare le loro possibilità penalizzando con un peso, o con una distanza maggiore, i cavalli che hanno ottenuto risultati migliori. Nel primo caso, quello che più si attaglia ai valori della destra, si parte dall’uguaglianza, allo scopo di scoprire l’eccellenza del più dotato e accettando in partenza che i risultati siano quasi scontati; nel secondo, che è vicino ai concetti della sinistra, si comincia con una disuguaglianza compensatoria per dare a tutti la possibilità di gareggiare alla pari e favorire un arrivo che possa veder premiato anche colui che parte apparentemente svantaggiato, ma che sa far valere i propri meriti.

Contestualizziamo ricordando anche l’articolo 3 della Costituzione («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini…») e l’articolo 53 («Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività»).

Togliere la tassa sulla prima casa a tutti significa mantenere inalterate le differenze economiche tra i più poveri e quelli più ricchi; proprio come a suo tempo aveva fatto la destra di Berlusconi. Togliere la tassa sulla prima casa ai meno abbienti vuol dire, invece, dare un minimo di aiuto a coloro che sono svantaggiati per tentar di risalire. Renzi e i suoi hanno scelto la prima opzione.


Un esempio piccolo, ma significativo di come un concetto di sinistra sia stato messo in secondo piano per la ricerca del consenso.


Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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