mercoledì 29 aprile 2020

Le parole del virus: Guerra

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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All’inizio della serie “Le parole del virus” mai avrei pensato di inserirvi anche il vocabolo “guerra”, perché con la pandemia non c’entra davvero nulla. L’hanno detto in tanti, eppure abbiamo continuato a sentir usare, senza alcun motivo, questa metafora semplificativa che vorrebbe essere drammatizzante, ma che anche in questo senso è superflua visto che quello che ha provocato il Covid-19 è già sommamente drammatico di per sé. A tale proposito basterebbe ricordare quello che il 18 aprile è stato rilevato dal commissario all’emergenza, Domenico Arcuri: «Tra l’11 giugno 1940 e il 1° maggio 1945 a Milano sono morti sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale duemila civili in 5 anni; in due mesi in Lombardia per il coronavirus sono morti, a tutt’oggi, 11.851 civili, 5 volte di più».

I motivi per i quali è impossibile paragonare la pande¬mia che stiamo vivendo a una guerra sono molteplici. In un conflitto si conosce non soltanto il nemi¬co, ma si possono arguire anche le strategie più adatte per combatter-lo, mentre noi non conosciamo ancora a fondo il virus e tanto meno i rimedi possi¬bili. La guerra, il male asso¬luto ripudiato dalla nostra Costituzione, è provocata esclusivamente dagli uomini e, nel suo complesso, è addirittura più distruttiva del coronavirus, non soltanto per la quantità di persone a cui toglie la vita, ma anche per la distesa di macerie che lascia al posto dei centri abitati. Anche del coronavirus si dice che se n’è andato lasciando una distesa di macerie, ma intanto non se n’è andato ancora e poi quelle che oggi sono chiamate macerie potrebbero essere rimesse in piedi se ci fossero aiuti economici congrui, veloci ed efficaci.

Se poi andiamo alla limitazione delle nostre libertà personali, è vero che dobbiamo restare a casa, ma in guerra si doveva correre nei rifugi, altrimenti si rischiava di restare sepolti dalle case stesse. E se ci si lamenta delle file per entrare nei supermercati, bisognerebbe ricordare che una delle caratteristiche di ogni conflitto è la fame causata anche dalla scomparsa della maggior parte dei generi alimentari dalle scansie dei negozi che oggi, invece, sono ancora colme di merce.

Ma se queste sono le differenze di quella che gli affezionati alle iperboli definiscono “la guerra combattuta”, a me interessa molto di più guardare al dopo, ammesso che di “dopo” si possa parlare pensando di collocarlo in tempi vicini. Intanto perché, a differenza di un conflitto armato contro nemici umani, in questo caso nessuno potrà mai firmare una pace, ma nemmeno un armistizio con quel Covid-19 che non ha alcuna intenzione di scendere a patti con noi, anche perché di intenzioni coscienti non può proprio averne. Ma soprattutto in quanto, esclusa qualsiasi possibilità di dichiarare la resa, non sapremo mai con esattezza quando e se riusciremo a dire: «La guerra è finita e l’abbiamo vinta».

Non siamo ancora in grado di sapere se e quando un vaccino sarà realizzato, né se chi ha già contratto la malattia ne resta immunizzato, e neppure una miriade di altre cose che alla fine saranno essenziali per collocare il Covid-19 nell’armadio della storia dove vengono accumulati i ricordi più brutti.

Se proprio dobbiamo tenere in piedi dei paragoni guerreschi, allora potremmo rifarci piuttosto a una situazione di guerriglia che continuerà ben oltre la cosiddetta Fase 2 e che farà durare a lungo anche la Fase 3, fino a quando un vaccino efficace non sarà trovato, sperimentato, prodotto massicciamente e inoculato a tutti, come una volta si faceva contro il vaiolo, più recentemente contro la poliomielite e come si continua a fare contro tutta una serie di malattie con dei vaccini che incredibilmente riescono a trovare oppositori che, evidentemente, prima d’ora non avevano mai vissuto un’epidemia capace di provocare tante vittime, o di lasciare sui corpi lesioni in grado di rovinare una vita.

Fino al vaccino sarà necessario convivere con il coronavirus, sarà necessario difendersi da lui e dai suoi agguati con quei pochi mezzi che per ora abbiamo a disposizione: il “distanziamento sociale”, decisamente brutto sia nell’espressione, sia nella sostanza, le mascherine che finalmente, visto che sono necessarie, hanno un prezzo imposto che mette al riparo loro e noi dalle grinfie degli approfittatori, i guanti monouso che ancora scarseggiano e i disinfettanti che, invece, sono scomparsi nella fascia di prezzo bassa e medio-bassa, mentre sono ancora tranquillamente reperibili in quella alta.

Mi rendo benissimo conto che quello che ho appena dipinto non è un quadro piacevole; anzi, è decisamente bruttino. Ma – ulteriore differenza con la guerra – in una pandemia una propaganda che renda più rosee le notizie serve davvero a poco, visto che non ci sono truppe delle quali è necessario tenere alto il morale.

Come a ben poco serve innescare gelosie reciproche perché certe libertà arrivano prima delle altre: in ogni guerriglia la sorveglianza è più importante di quelli che siamo soliti chiamare “armamenti”. E la sorveglianza e l’autodisciplina, pur con gli ammaestramenti di chi ne sa più di noi e con il filtro di coloro che hanno la responsabilità di governo e devono tener conto anche nelle esigenze economiche , toccano soltanto a noi; a ognuno di noi.


Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Anziano, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.


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