In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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All’inizio della serie “Le parole del virus”
mai avrei pensato di inserirvi anche il vocabolo “guerra”, perché con
la pandemia non c’entra davvero nulla. L’hanno detto in tanti, eppure
abbiamo continuato a sentir usare, senza alcun motivo, questa metafora
semplificativa che vorrebbe essere drammatizzante, ma che anche in
questo senso è superflua visto che quello che ha provocato il Covid-19 è
già sommamente drammatico di per sé. A tale proposito basterebbe
ricordare quello che il 18 aprile è stato rilevato dal commissario
all’emergenza, Domenico Arcuri: «Tra l’11 giugno 1940 e il 1° maggio
1945 a Milano sono morti sotto i bombardamenti della seconda guerra
mondiale duemila civili in 5 anni; in due mesi in Lombardia per il
coronavirus sono morti, a tutt’oggi, 11.851 civili, 5 volte di più».
I motivi per i quali è impossibile
paragonare la pande¬mia che stiamo vivendo a una guerra sono molteplici.
In un conflitto si conosce non soltanto il nemi¬co, ma si possono
arguire anche le strategie più adatte per combatter-lo, mentre noi non
conosciamo ancora a fondo il virus e tanto meno i rimedi possi¬bili. La
guerra, il male asso¬luto ripudiato dalla nostra Costituzione, è
provocata esclusivamente dagli uomini e, nel suo complesso, è
addirittura più distruttiva del coronavirus, non soltanto per la
quantità di persone a cui toglie la vita, ma anche per la distesa di
macerie che lascia al posto dei centri abitati. Anche del coronavirus si
dice che se n’è andato lasciando una distesa di macerie, ma intanto non
se n’è andato ancora e poi quelle che oggi sono chiamate macerie
potrebbero essere rimesse in piedi se ci fossero aiuti economici
congrui, veloci ed efficaci.
Se poi andiamo alla limitazione
delle nostre libertà personali, è vero che dobbiamo restare a casa, ma
in guerra si doveva correre nei rifugi, altrimenti si rischiava di
restare sepolti dalle case stesse. E se ci si lamenta delle file per
entrare nei supermercati, bisognerebbe ricordare che una delle
caratteristiche di ogni conflitto è la fame causata anche dalla
scomparsa della maggior parte dei generi alimentari dalle scansie dei
negozi che oggi, invece, sono ancora colme di merce.
Ma se queste sono le differenze di
quella che gli affezionati alle iperboli definiscono “la guerra
combattuta”, a me interessa molto di più guardare al dopo, ammesso che
di “dopo” si possa parlare pensando di collocarlo in tempi vicini.
Intanto perché, a differenza di un conflitto armato contro nemici umani,
in questo caso nessuno potrà mai firmare una pace, ma nemmeno un
armistizio con quel Covid-19 che non ha alcuna intenzione di scendere a
patti con noi, anche perché di intenzioni coscienti non può proprio
averne. Ma soprattutto in quanto, esclusa qualsiasi possibilità di
dichiarare la resa, non sapremo mai con esattezza quando e se riusciremo
a dire: «La guerra è finita e l’abbiamo vinta».
Non siamo ancora in grado di sapere
se e quando un vaccino sarà realizzato, né se chi ha già contratto la
malattia ne resta immunizzato, e neppure una miriade di altre cose che
alla fine saranno essenziali per collocare il Covid-19 nell’armadio
della storia dove vengono accumulati i ricordi più brutti.
Se proprio dobbiamo tenere in piedi
dei paragoni guerreschi, allora potremmo rifarci piuttosto a una
situazione di guerriglia che continuerà ben oltre la cosiddetta Fase 2 e
che farà durare a lungo anche la Fase 3, fino a quando un vaccino
efficace non sarà trovato, sperimentato, prodotto massicciamente e
inoculato a tutti, come una volta si faceva contro il vaiolo, più
recentemente contro la poliomielite e come si continua a fare contro
tutta una serie di malattie con dei vaccini che incredibilmente riescono
a trovare oppositori che, evidentemente, prima d’ora non avevano mai
vissuto un’epidemia capace di provocare tante vittime, o di lasciare sui
corpi lesioni in grado di rovinare una vita.
Fino al vaccino sarà necessario
convivere con il coronavirus, sarà necessario difendersi da lui e dai
suoi agguati con quei pochi mezzi che per ora abbiamo a disposizione: il
“distanziamento sociale”, decisamente brutto sia nell’espressione, sia
nella sostanza, le mascherine che finalmente, visto che sono necessarie,
hanno un prezzo imposto che mette al riparo loro e noi dalle grinfie
degli approfittatori, i guanti monouso che ancora scarseggiano e i
disinfettanti che, invece, sono scomparsi nella fascia di prezzo bassa e
medio-bassa, mentre sono ancora tranquillamente reperibili in quella
alta.
Mi rendo benissimo conto che quello
che ho appena dipinto non è un quadro piacevole; anzi, è decisamente
bruttino. Ma – ulteriore differenza con la guerra – in una pandemia una
propaganda che renda più rosee le notizie serve davvero a poco, visto
che non ci sono truppe delle quali è necessario tenere alto il morale.
Come a ben poco serve innescare
gelosie reciproche perché certe libertà arrivano prima delle altre: in
ogni guerriglia la sorveglianza è più importante di quelli che siamo
soliti chiamare “armamenti”. E la sorveglianza e l’autodisciplina, pur
con gli ammaestramenti di chi ne sa più di noi e con il filtro di coloro
che hanno la responsabilità di governo e devono tener conto anche nelle
esigenze economiche , toccano soltanto a noi; a ognuno di noi.
Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Anziano, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.
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