venerdì 3 aprile 2020

Le parole del virus: Abbraccio

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Il Covid-19 è essenzialmente un ladro, piccolissimo, ma terribile e spietato. In un paio di mesi, o poco più, ci ha portato via innanzitutto l’insostituibile presenza e ricchezza umana di decine di migliaia di persone che ha ucciso subdolamente, ma ci ha strappato anche molte altre cose alle quali forse normalmente non pensavamo, ma di cui oggi sentiamo acutamente la mancanza.

A troppi ha rubato il lavoro e, con lui, i mezzi di sussistenza. A tutti ha sottratto elementi fondamentali del vivere in una comunità: la possibilità di riunirsi, di andare a stare a contatto con altri in luoghi dove si celebra qualcosa, dove si guarda, si ascolta, si commenta; a teatro, per esempio, dove non soltanto ci impedisce di divertirci e arricchirci ascoltando e guardando, ma sta riducendo allo stremo, materialmente e psicologicamente, coloro che di teatro, di musica, di parole vivevano, che di questo vogliono tornare a vivere e che meritano la nostra gratitudine per tutto quello che ci hanno sempre dato.

A molti ha lasciato in cambio tanto tempo libero, ma ci ha tolto la possibilità di riempirlo con la maggior parte delle realtà con cui avremmo voluto farlo e che si esprimono con verbi che diventano più appetibili, più ricchi, se sono accompagnati dall’avverbio “insieme”: trovarci, discutere, giocare, mangiare, correre, e così via. In pochi mesi sono scomparse possibilità, abitudini, consolazioni perché probabilmente il bottino maggiore lo ha fatto non portando via soltanto aspetti materiali della nostra vita, ma facendo man bassa di sentimenti, emozioni ed esternazioni.

Pensate a come ci ha rubato l’abbraccio. Forse di primo acchito non ne percepiamo la mancanza in maniera tanto acuta come la sentiamo per altre cose, ma sicuramente, almeno a livello inconscio, non vediamo l’ora che ci sia restituita la possibilità di darne e riceverne, anche perché sarà quello il segno che l’era del coronavirus è finita, che potremo tornare a essere una comunità non più limitata nelle sue espressioni, non più costituita da tante individualità che devono restare separate, ma da un gruppo che può diventare unico, ma indistinto, come indistinte, ma uniche, sono le folle che si radunano per celebrare o festeggiare qualche ricorrenza o qualche avvenimento. Come apparentemente separate ma uniche sono le persone che si vogliono bene, perché, come ha scritto Alda Merini, «Ci si abbraccia per ritrovarsi interi». Non per niente nei disegni dei bambini, le facce sono quasi sempre sorridenti perché un abbraccio vuol dire: «Tu non sei una minaccia. Non ho paura di starti così vicino. Posso rilassarmi, sentirmi a casa. Sono protetto, e qualcuno mi comprende».

E con l’abbraccio il maledetto Covid-19, ci ha portato via anche la gran parte dei sorrisi che agli abbracci sono sempre uniti, che sempre li precedono, ma che possono anche vivere di vita propria e che, se non sono sogghigni, ne fanno immancabilmente nascere altri. La mascherina potrebbe far ritenere che un sorriso in strada oggi sia inutile perché, tanto, nessuno lo vede. Ma non è così perché un sorriso vero, non artefatto, non impegna soltanto le labbra, ma anche gli occhi.

Qualcuno ha detto: «Non aspettare di essere felice per sorridere. Ma sorridi per essere felice». E allora viene da chiedersi perché non riusciamo quasi mai a squarciare quel velo di tristezza che ci attanaglia quasi costantemente. D’accordo, ci sono motivi seri per essere così: basterebbe ascoltare il bollettino pomeridiano della Protezione civile, o pensare a chi è rimasto senza lavoro e senza denaro, mentre l’INPS, davanti al crash del suo sistema informatico, dice ineffabilmente a chi chiede aiuto economico: «Non vi preoccupate: il 15 aprile avrete tutti i vostri aiuti». E fino al 15 aprile come si vivrà?

Ma c’è anche qualcos’altro che ci blocca nel piegare all’insù gli angoli della bocca: un’educazione che si modella su una seriosità imposta in cui appare più spesso la preoccupazione che la gaiezza; l’angustia che segue molti fin da bambini e che si nutre di una graduatoria di colpe terrene e pene ultraterrene. Del resto la saggezza popolare è piena di intemerate contro la spensieratezza e l’allegria, e soltanto nella Costituzione americana è statuito il diritto alla ricerca della felicità. E in quel Paese certamente l’obbiettivo, dopo la schiavitù e la segregazione razziale, sembra ben lontano dall’essere raggiunto anche oggi, viste le tante stragi a colpi di arma da fuoco, o la morte di un diciassettenne aggredito dal coronavirus e rifiutato dagli ospedali perché non era titolare di un’assicurazione.

Il diritto alla felicità, poi, porterebbe con sé anche quello all’allegria, il diritto all’errore, il diritto alla sconfitta, il diritto di avere diritti. Sarebbe tutto diverso.

Jim Morrison diceva: «Sorridi sempre, anche se è un sorriso triste, perché più triste di un sorriso triste c’è soltanto la tristezza di non saper sorridere». Eppure da noi il principale esempio della negazione del sorriso è il più alto possibile, visto che nelle grandi religioni monoteiste domina quello che vorrei definire “il cipiglio del Signore”. Perché uno che mi crea deve poi guardarmi sempre con i sopraccigli aggrottati? Perché deve passare una certa pur piccola parte dell’eternità a scrutarmi ossessivamente, pronto a cogliermi in fallo e poi a punirmi? Perché nessuno dei tanti e bravissimi artisti che hanno lavorato sul sacro lo ha mai immaginato e dipinto con gli angoli della labbra rivolti all’insù e con gli occhi luminosi? Perché nel mondo musulmano addirittura non può essere raffigurato? Perché in quello ebraico il suo vero nome non può essere neppure pronunciato?
 

Provate a pensare, invece, a un Dio, come quello che è raccontato da Papa Francesco, che è sorridente pur mentre scruta le difficoltà di una vita terrena che per troppi assomiglia perfettamente a un terribile percorso a ostacoli. In questo Dio si può scorgere un sorriso di indulgenza davanti a chi sbaglia, un sorriso di soddisfazione se qualcosa di buono viene realizzato, un sorriso di incoraggiamento quando qualcuno si muove per fare qualcosa che merita di essere fatto, un sorriso d’amore per chi riesce a scambiare amore con un proprio simile, un sorriso di solidarietà per chi vive lo strazio del dolore. Un sorriso che, come si diceva, se non offende, ne fa sempre nascere un altro e che può contribuire in maniera più efficace di un mare di parole a cambiare questo mondo.

Provate a pensare a un Dio ben descritto da quel profeta di nome Fabrizio De Andrè quando, in una delle sue poetiche genialità, ha cantato che «l’inferno esiste solo per chi ne ha paura». A me sembra molto più credibile. E, se è vero che l’uomo è fatto a sua immagine e somiglianza, anche l’intero mondo sarebbe diverso. Utopia? Forse, ma è per le utopie che è bello lottare per dare corpo a speranze realizzabili.


Le altre parole: Anonimo, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Europeismo, Futuro, Infodemia, Libertà, Natura, Scelta, Solidarietà

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