In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Il
Covid-19 è essenzialmente un ladro, piccolissimo, ma terribile e
spietato. In un paio di mesi, o poco più, ci ha portato via innanzitutto
l’insostituibile presenza e ricchezza umana di decine di migliaia di
persone che ha ucciso subdolamente, ma ci ha strappato anche molte altre
cose alle quali forse normalmente non pensavamo, ma di cui oggi
sentiamo acutamente la mancanza.
A troppi ha rubato il lavoro e, con
lui, i mezzi di sussistenza. A tutti ha sottratto elementi fondamentali
del vivere in una comunità: la possibilità di riunirsi, di andare a
stare a contatto con altri in luoghi dove si celebra qualcosa, dove si
guarda, si ascolta, si commenta; a teatro, per esempio, dove non
soltanto ci impedisce di divertirci e arricchirci ascoltando e
guardando, ma sta riducendo allo stremo, materialmente e
psicologicamente, coloro che di teatro, di musica, di parole vivevano,
che di questo vogliono tornare a vivere e che meritano la nostra
gratitudine per tutto quello che ci hanno sempre dato.
A molti ha lasciato in cambio tanto
tempo libero, ma ci ha tolto la possibilità di riempirlo con la maggior
parte delle realtà con cui avremmo voluto farlo e che si esprimono con
verbi che diventano più appetibili, più ricchi, se sono accompagnati
dall’avverbio “insieme”: trovarci, discutere, giocare, mangiare,
correre, e così via. In pochi mesi sono scomparse possibilità,
abitudini, consolazioni perché probabilmente il bottino maggiore lo ha
fatto non portando via soltanto aspetti materiali della nostra vita, ma
facendo man bassa di sentimenti, emozioni ed esternazioni.
Pensate a come ci ha rubato
l’abbraccio. Forse di primo acchito non ne percepiamo la mancanza in
maniera tanto acuta come la sentiamo per altre cose, ma sicuramente,
almeno a livello inconscio, non vediamo l’ora che ci sia restituita la
possibilità di darne e riceverne, anche perché sarà quello il segno che
l’era del coronavirus è finita, che potremo tornare a essere una
comunità non più limitata nelle sue espressioni, non più costituita da
tante individualità che devono restare separate, ma da un gruppo che può
diventare unico, ma indistinto, come indistinte, ma uniche, sono le
folle che si radunano per celebrare o festeggiare qualche ricorrenza o
qualche avvenimento. Come apparentemente separate ma uniche sono le
persone che si vogliono bene, perché, come ha scritto Alda Merini, «Ci
si abbraccia per ritrovarsi interi». Non per niente nei disegni dei
bambini, le facce sono quasi sempre sorridenti perché un abbraccio vuol
dire: «Tu non sei una minaccia. Non ho paura di starti così vicino.
Posso rilassarmi, sentirmi a casa. Sono protetto, e qualcuno mi
comprende».
E con l’abbraccio il maledetto
Covid-19, ci ha portato via anche la gran parte dei sorrisi che agli
abbracci sono sempre uniti, che sempre li precedono, ma che possono
anche vivere di vita propria e che, se non sono sogghigni, ne fanno
immancabilmente nascere altri. La mascherina potrebbe far ritenere che
un sorriso in strada oggi sia inutile perché, tanto, nessuno lo vede. Ma
non è così perché un sorriso vero, non artefatto, non impegna soltanto
le labbra, ma anche gli occhi.
Qualcuno ha detto: «Non aspettare di
essere felice per sorridere. Ma sorridi per essere felice». E allora
viene da chiedersi perché non riusciamo quasi mai a squarciare quel velo
di tristezza che ci attanaglia quasi costantemente. D’accordo, ci sono
motivi seri per essere così: basterebbe ascoltare il bollettino
pomeridiano della Protezione civile, o pensare a chi è rimasto senza
lavoro e senza denaro, mentre l’INPS, davanti al crash del suo sistema
informatico, dice ineffabilmente a chi chiede aiuto economico: «Non vi
preoccupate: il 15 aprile avrete tutti i vostri aiuti». E fino al 15
aprile come si vivrà?
Ma c’è anche qualcos’altro che ci
blocca nel piegare all’insù gli angoli della bocca: un’educazione che si
modella su una seriosità imposta in cui appare più spesso la
preoccupazione che la gaiezza; l’angustia che segue molti fin da bambini
e che si nutre di una graduatoria di colpe terrene e pene ultraterrene.
Del resto la saggezza popolare è piena di intemerate contro la
spensieratezza e l’allegria, e soltanto nella Costituzione americana è
statuito il diritto alla ricerca della felicità. E in quel Paese
certamente l’obbiettivo, dopo la schiavitù e la segregazione razziale,
sembra ben lontano dall’essere raggiunto anche oggi, viste le tante
stragi a colpi di arma da fuoco, o la morte di un diciassettenne
aggredito dal coronavirus e rifiutato dagli ospedali perché non era
titolare di un’assicurazione.
Il diritto alla felicità, poi,
porterebbe con sé anche quello all’allegria, il diritto all’errore, il
diritto alla sconfitta, il diritto di avere diritti. Sarebbe tutto
diverso.
Jim Morrison diceva: «Sorridi
sempre, anche se è un sorriso triste, perché più triste di un sorriso
triste c’è soltanto la tristezza di non saper sorridere». Eppure da noi
il principale esempio della negazione del sorriso è il più alto
possibile, visto che nelle grandi religioni monoteiste domina quello che
vorrei definire “il cipiglio del Signore”. Perché uno che mi crea deve
poi guardarmi sempre con i sopraccigli aggrottati? Perché deve passare
una certa pur piccola parte dell’eternità a scrutarmi ossessivamente,
pronto a cogliermi in fallo e poi a punirmi? Perché nessuno dei tanti e
bravissimi artisti che hanno lavorato sul sacro lo ha mai immaginato e
dipinto con gli angoli della labbra rivolti all’insù e con gli occhi
luminosi? Perché nel mondo musulmano addirittura non può essere
raffigurato? Perché in quello ebraico il suo vero nome non può essere
neppure pronunciato?
Provate a pensare, invece, a un Dio, come quello che è raccontato da
Papa Francesco, che è sorridente pur mentre scruta le difficoltà di una
vita terrena che per troppi assomiglia perfettamente a un terribile
percorso a ostacoli. In questo Dio si può scorgere un sorriso di
indulgenza davanti a chi sbaglia, un sorriso di soddisfazione se
qualcosa di buono viene realizzato, un sorriso di incoraggiamento quando
qualcuno si muove per fare qualcosa che merita di essere fatto, un
sorriso d’amore per chi riesce a scambiare amore con un proprio simile,
un sorriso di solidarietà per chi vive lo strazio del dolore. Un sorriso
che, come si diceva, se non offende, ne fa sempre nascere un altro e
che può contribuire in maniera più efficace di un mare di parole a
cambiare questo mondo.
Provate a pensare a un Dio ben
descritto da quel profeta di nome Fabrizio De Andrè quando, in una delle
sue poetiche genialità, ha cantato che «l’inferno esiste solo per chi
ne ha paura». A me sembra molto più credibile. E, se è vero che l’uomo è
fatto a sua immagine e somiglianza, anche l’intero mondo sarebbe
diverso. Utopia? Forse, ma è per le utopie che è bello lottare per dare
corpo a speranze realizzabili.
Le altre parole: Anonimo, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Europeismo, Futuro, Infodemia, Libertà, Natura, Scelta, Solidarietà
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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