In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Ogni
catastrofe, al di là delle distruzioni, porta inevitabilmente con sé,
come fa ben capire l’etimologia (katá: giù, e stréphein: voltare) anche
altri rovesciamenti in campo culturale, sociale e politico. Avevamo già
annotato che la storia insegna che di solito nei tempi di crisi cresce
la voglia di dare sempre più deleghe a chi governa, ma ammonisce anche
ricordando che una delle possibili vittime di questo modo di fare è la
democrazia, facile a perdersi e molto più difficile da riconquistare.
In questo senso quello che sta
accadendo in Ungheria è emblematico: con la scusa della lotta al
Covid-19 il presidente Viktor Orbán ha chiesto e ottenuto da un
Parlamento in cui aveva già una larghissima maggioranza, pieni poteri
senza limitazioni temporali: potrà prolungare a piacere lo stato
d’emergenza, governare soltanto con decreti, sciogliere il Parlamento,
abrogare leggi, farne nuove, sospendere le elezioni, non curarsi degli
altri poteri dello Stato e, ciliegina sulla torta, condannare
direttamente fino a 5 anni di carcere chi si azzarderà a criticare o,
addirittura a protestare.
Salvini, che fortunatamente invano
aveva richiesto i pieni poteri la scorsa estate, ovviamente ha
applaudito il leader ungherese, ma appare molto difficile non assimilare
questa situazione a una vera e propria dittatura; tanto difficile che
addirittura la sonnacchiosa e ultratollerante Unione Europea ha deciso
di sottoporre il caso all’apposita commissione per valutare se
l’Ungheria ha ancora le caratteristiche democratiche richieste per
restare nella UE.
Ma il fatto che le mire di Salvini
siano svanite, anche per l’incontrollata e frettolosa bulimia di potere
di Salvini stesso, non deve farci disinteressare a quello che sta
accadendo agli ungheresi. Non deve farlo sia perché qualunque democrazia
corre seri rischi quando ha almeno parzialmente stravolto se stessa,
sia in quanto l’Italia ha già dovuto patire un ventennio di dittatura e,
a vedere cos’è successo negli ultimi anni, pare che buona parte degli
italiani non lo sappiano, o trovino più comodo disinteressarsene, o,
ancora, , caso peggiore ma non raro, desiderino proprio poter delegare
se stessi a un teorico “uomo forte”.
Detto questo, e sottolineato che una
crisi come quella del coronavirus impone di concedere al governo un
surplus di quella che viene chiamata “governabilità”, ma che in realtà è
una dosa maggiore di decisionismo che soddisfi inedite esigenze di
velocità, chiarezza, flessibilità legate alla situazione, resta da
analizzare cosa deve succedere quando l’emergenza si attenua e poi
finisce. La risposta è evidente: si torna indietro. Ma sarà davvero così
facile tornare davvero al punto di partenza?
Non dimentichiamoci che la politica è
figlia della democrazia, e non viceversa e non dimentichiamo neppure
che nell’antica Atene non poco si è sofferto per togliere il potere agli
arconti e ai tiranni e passarlo al popolo, o, meglio, a una sua parte.
Con la democrazia è nata l’autonomia individuale accompagnata dal
diritto di avere un nome e di compiere imprese, cioè di partecipare, in
veste di rappresentanti di se stessi, alle decisioni collettive. Ed è
stato così che i sudditi sono diventati cittadini e che dal concetto di
individuo si è passati a quello di popolo, un concetto che, però, talora
è visto come un’entità collettiva con due caratteristiche
pregiudiziali. Da un lato può indurre a pensare che soltanto la
maggioranza rappresenti la parte buona della società, quella sana,
l’unica legittimamente autorizzata a prendere decisioni politiche.
Dall’altra può spingere a credere che il requisito fondamentale per
sentirsi parte del popolo che governa sia la normalizzazione, ossia la
rinuncia all’individualità: in pratica si pensa che il popolo abbia
piena autonomia perché i suoi elementi rinunciano ad averne.
Per evitare questi rischi che, come
si vede, sono ancora oggi concreti, ognuno di noi deve essere un
soggetto autonomo e attivo del divenire democratico, non dedicandosi a
dare ordini, o a obbedire in silenzio, ma discutendo costantemente con
gli altri, da pari a pari, dando vita, insomma a una vera democrazia
che, secondo un’esemplare definizione di Fernando Savater: «Consiste nel
trasformare gli individui in vettori del senso politico della società».
E questo impegno individuale è
diventato ancora più stringente dopo che i partiti hanno abdicato al
loro ruolo principale: quello di essere cinghia di trasmissione tra il
popolo, e i luoghi nei quali si decide per tutti; dopo che hanno voluto
fare democrazia, senza più essere democrazia, quella che ha come forza
dirompente la sua perfettibilità, la determinazione a un lento e
discontinuo incedere comune verso il meglio che, come nell’attuale
situazione, viene individuato su basi di fondamentale competenza e
filtri di esigenze sociali.
Una dittatura può infilarsi nelle
crepe di una democrazia stanca nei momenti di maggiore tensione; un
popolo può non avere la forza di respingerla, se perde la coscienza del
fatto che maggioranza non significa verità. E che il popolo sarà
comunque sempre molto più forte di qualunque cosiddetto uomo forte.
Le altre parole: Anonimo, Confine, Denaro, Dignità, Europeismo, Futuro, Infodemia, Libertà, Natura, Scelta, Solidarietà
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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