giovedì 2 aprile 2020

Le parole del virus: Democrazia

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Ogni catastrofe, al di là delle distruzioni, porta inevitabilmente con sé, come fa ben capire l’etimologia (katá: giù, e stréphein: voltare) anche altri rovesciamenti in campo culturale, sociale e politico. Avevamo già annotato che la storia insegna che di solito nei tempi di crisi cresce la voglia di dare sempre più deleghe a chi governa, ma ammonisce anche ricordando che una delle possibili vittime di questo modo di fare è la democrazia, facile a perdersi e molto più difficile da riconquistare.

In questo senso quello che sta accadendo in Ungheria è emblematico: con la scusa della lotta al Covid-19 il presidente Viktor Orbán ha chiesto e ottenuto da un Parlamento in cui aveva già una larghissima maggioranza, pieni poteri senza limitazioni temporali: potrà prolungare a piacere lo stato d’emergenza, governare soltanto con decreti, sciogliere il Parlamento, abrogare leggi, farne nuove, sospendere le elezioni, non curarsi degli altri poteri dello Stato e, ciliegina sulla torta, condannare direttamente fino a 5 anni di carcere chi si azzarderà a criticare o, addirittura a protestare.

Salvini, che fortunatamente invano aveva richiesto i pieni poteri la scorsa estate, ovviamente ha applaudito il leader ungherese, ma appare molto difficile non assimilare questa situazione a una vera e propria dittatura; tanto difficile che addirittura la sonnacchiosa e ultratollerante Unione Europea ha deciso di sottoporre il caso all’apposita commissione per valutare se l’Ungheria ha ancora le caratteristiche democratiche richieste per restare nella UE.

Ma il fatto che le mire di Salvini siano svanite, anche per l’incontrollata e frettolosa bulimia di potere di Salvini stesso, non deve farci disinteressare a quello che sta accadendo agli ungheresi. Non deve farlo sia perché qualunque democrazia corre seri rischi quando ha almeno parzialmente stravolto se stessa, sia in quanto l’Italia ha già dovuto patire un ventennio di dittatura e, a vedere cos’è successo negli ultimi anni, pare che buona parte degli italiani non lo sappiano, o trovino più comodo disinteressarsene, o, ancora, , caso peggiore ma non raro, desiderino proprio poter delegare se stessi a un teorico “uomo forte”.

Detto questo, e sottolineato che una crisi come quella del coronavirus impone di concedere al governo un surplus di quella che viene chiamata “governabilità”, ma che in realtà è una dosa maggiore di decisionismo che soddisfi inedite esigenze di velocità, chiarezza, flessibilità legate alla situazione, resta da analizzare cosa deve succedere quando l’emergenza si attenua e poi finisce. La risposta è evidente: si torna indietro. Ma sarà davvero così facile tornare davvero al punto di partenza?

Non dimentichiamoci che la politica è figlia della democrazia, e non viceversa e non dimentichiamo neppure che nell’antica Atene non poco si è sofferto per togliere il potere agli arconti e ai tiranni e passarlo al popolo, o, meglio, a una sua parte. Con la democrazia è nata l’autonomia individuale accompagnata dal diritto di avere un nome e di compiere imprese, cioè di partecipare, in veste di rappresentanti di se stessi, alle decisioni collettive. Ed è stato così che i sudditi sono diventati cittadini e che dal concetto di individuo si è passati a quello di popolo, un concetto che, però, talora è visto come un’entità collettiva con due caratteristiche pregiudiziali. Da un lato può indurre a pensare che soltanto la maggioranza rappresenti la parte buona della società, quella sana, l’unica legittimamente autorizzata a prendere decisioni politiche. Dall’altra può spingere a credere che il requisito fondamentale per sentirsi parte del popolo che governa sia la normalizzazione, ossia la rinuncia all’individualità: in pratica si pensa che il popolo abbia piena autonomia perché i suoi elementi rinunciano ad averne.

Per evitare questi rischi che, come si vede, sono ancora oggi concreti, ognuno di noi deve essere un soggetto autonomo e attivo del divenire democratico, non dedicandosi a dare ordini, o a obbedire in silenzio, ma discutendo costantemente con gli altri, da pari a pari, dando vita, insomma a una vera democrazia che, secondo un’esemplare definizione di Fernando Savater: «Consiste nel trasformare gli individui in vettori del senso politico della società».

E questo impegno individuale è diventato ancora più stringente dopo che i partiti hanno abdicato al loro ruolo principale: quello di essere cinghia di trasmissione tra il popolo, e i luoghi nei quali si decide per tutti; dopo che hanno voluto fare democrazia, senza più essere democrazia, quella che ha come forza dirompente la sua perfettibilità, la determinazione a un lento e discontinuo incedere comune verso il meglio che, come nell’attuale situazione, viene individuato su basi di fondamentale competenza e filtri di esigenze sociali.

Una dittatura può infilarsi nelle crepe di una democrazia stanca nei momenti di maggiore tensione; un popolo può non avere la forza di respingerla, se perde la coscienza del fatto che maggioranza non significa verità. E che il popolo sarà comunque sempre molto più forte di qualunque cosiddetto uomo forte.

Le altre parole: Anonimo, Confine, Denaro, Dignità, Europeismo, Futuro, Infodemia, Libertà, Natura, Scelta, Solidarietà

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