In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Poche
cose sono così diseguali come il concetto di uguaglianza che ogni
essere umano porta nel proprio cervello. Intanto bisogna vedere a cosa
ci si riferisce: se alla «compresenza in due o più persone o cose, di
attribuzioni, caratteristiche o proprietà identiche»; oppure all’ideale
etico, giuridico e politico «secondo cui i membri di una collettività
devono essere considerati allo stesso modo relativamente a determinati
diritti o valori». E poi, soprattutto dipende dalle eccezioni che ognuno
accetta come lecite da applicare senza che questi concetti ne siano, a
suo parere, inficiati.
Appare chiaro che proprio sulle
eccezioni possono scatenarsi dibattiti lunghi e violenti, ma alcune
distorsioni appaiono davvero troppo forti per poter essere accettate
anche soltanto come oggetto di discussione. Prendete questa frase
apparsa su un sito internet del cui autore, per carità di patria, taccio
il nome: «Una cosa l’abbiamo ottenuta con questo coronavirus:
l’uguaglianza sociale. Di fronte al virus siamo tutti uguali».
Qui non si tratta di eccezioni da
accettare, o meno, ma semplicemente di guardare la realtà con occhi non
pregiudizialmente predisposti. È evidente per tutti, infatti, che il
Covid-19 non è assolutamente ugualitario. Anzi, la vulnerabilità davanti
alle sue azioni varia molto a seconda delle caratteristiche della
vittima. Le statistiche dimostrano che è decisamente più letale con gli
anziani che con i giovani; che infierisce soprattutto con chi ha già la
sfortuna di portare dentro di sé patologie pregresse; che i più poveri –
basti pensare alle possibilità di scelta dei mezzi di trasporto
individuali o collettivi – sono esposti molto più dei benestanti; che
addirittura la residenza può essere determinante visto che vivere in un
condominio popolare sicuramente espone a più rischi che andare ad
abitare, come ha fatto Berlusconi, in una villa appartata in Costa
Azzurra. Altro che ugualitario: il coronavirus è tremendamente
classista.
Ma se le disuguaglianze sono
assolutamente inevitabili nella fase di contagio, dovrebbero sparire,
perché l’essere umano ha i mezzi per appianarle, nella fase della cura.
Queste constatazioni riportano alla
memoria antiche discussioni filosofiche nelle quali si contrapponevano
la tesi che l’uguaglianza fosse una caratteristica naturale e quella che
sosteneva, invece, che fosse il frutto del progresso sociale dell’uomo.
E credo ci possano essere pochi dubbi che il concetto rivoluzionario di
uguaglianza sia comparso nella Grecia antica e che la sua nascita sia
stata legata all’esigenza di una giustizia che fosse uguale per tutti, o
quasi: schiavi e metechi ne erano ancora esclusi. E ancora oggi,
infatti, la giustizia, di per sé, è uguale per tutti, mentre non è
uguale per tutti la possibilità di raggirarla.
Soltanto pochi hanno creduto a
un’uguaglianza naturale. Tra questi Thomas Hobbes che, però, proprio
partendo da questa base e da una frase scritta da Plauto della sua
“Asinaria”, ha costruito la sua teoria dell’“Homo homini lupus”, una
delle più pessimistiche sul destino dell’umanità.
Ma torniamo al coronavirus,
sommamente discriminatorio e alla possibilità di cancellarne alcuni
effetti con la cura. E ancora una volta ci troviamo di fronte a una
netta divisione del mondo.
Da una parte ci sono coloro che
credono che l’uguaglianza, come tante altre cose che hanno reso meno
difficile e più lunga la nostra vita, sia una benefica conseguenza del
progresso e si adoperano per farla diventare realtà: mi riferisco a
medici, alcuni dei quali rientrati dalla pensione in corsia per senso
del dovere infermieri, volontari, sacerdoti, persone di buon cuore in
genere che fanno il possibile e l’impossibile per soccorrere, curare e,
se tutto questo non va a buon fine, almeno per essere vicino a chi dal
Govid-19 è rapito alla vita e ai suoi cari che non possono assisterlo.
Dall’altra, per dare un esempio, si
vedono invece coloro che hanno considerato già in partenza –
colpevolmente o colposamente, non importa – gli anziani delle case di
riposo già perduti perché inevitabili conseguenze della pandemia, mentre
avrebbero avuto il diritto di essere difesi e protetti prima, proprio
per evitare di doverli curare, con pochissime speranze di farcela, dopo.
È forse una delle manifestazioni di quella “cultura dello scarto”
citata pochi giorni fa da Papa Francesco, riprendendola da una sua
udienza generale del 2013: «Questa “cultura dello scarto” – aveva detto
allora – tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti. La vita
umana, la persona non sono più sentite come valore primario da
rispettare e tutelare, specie se è povera o disabile, se non serve
ancora – come il nascituro –, o non serve più – come l’anziano».
Ben lontano dall’essere ugualitario
il coronavirus ha dimostrato una volta di più che la strada per
l’uguaglianza è ancora lunga e difficile e passa, almeno in questo
campo, attraverso un riequilibrio tra il pubblico che deve occuparsi di
tutto e il privato che tende a occuparsi soprattutto di quello che porta
un ricavo.
E anche – non stanchiamoci di
ripeterlo – attraverso la constatazione che l’evasione delle tasse,
impedendo alla Stato di avere da spendere il necessario, non soltanto
non è una furbata, ma può essere considerata complicità, sia pur
involontaria, nella morte di tantissime persone.
Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Infodemia, Libertà, Memoria, Natura, Paesaggio, Quarantena, Scelta, Sogno, Solidarietà, Tempo, Vulnerabilità.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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