venerdì 17 aprile 2020

Le parole del virus: Uguaglianza

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Poche cose sono così diseguali come il concetto di uguaglianza che ogni essere umano porta nel proprio cervello. Intanto bisogna vedere a cosa ci si riferisce: se alla «compresenza in due o più persone o cose, di attribuzioni, caratteristiche o proprietà identiche»; oppure all’ideale etico, giuridico e politico «secondo cui i membri di una collettività devono essere considerati allo stesso modo relativamente a determinati diritti o valori». E poi, soprattutto dipende dalle eccezioni che ognuno accetta come lecite da applicare senza che questi concetti ne siano, a suo parere, inficiati.

Appare chiaro che proprio sulle eccezioni possono scatenarsi dibattiti lunghi e violenti, ma alcune distorsioni appaiono davvero troppo forti per poter essere accettate anche soltanto come oggetto di discussione. Prendete questa frase apparsa su un sito internet del cui autore, per carità di patria, taccio il nome: «Una cosa l’abbiamo ottenuta con questo coronavirus: l’uguaglianza sociale. Di fronte al virus siamo tutti uguali».

Qui non si tratta di eccezioni da accettare, o meno, ma semplicemente di guardare la realtà con occhi non pregiudizialmente predisposti. È evidente per tutti, infatti, che il Covid-19 non è assolutamente ugualitario. Anzi, la vulnerabilità davanti alle sue azioni varia molto a seconda delle caratteristiche della vittima. Le statistiche dimostrano che è decisamente più letale con gli anziani che con i giovani; che infierisce soprattutto con chi ha già la sfortuna di portare dentro di sé patologie pregresse; che i più poveri – basti pensare alle possibilità di scelta dei mezzi di trasporto individuali o collettivi – sono esposti molto più dei benestanti; che addirittura la residenza può essere determinante visto che vivere in un condominio popolare sicuramente espone a più rischi che andare ad abitare, come ha fatto Berlusconi, in una villa appartata in Costa Azzurra. Altro che ugualitario: il coronavirus è tremendamente classista.

Ma se le disuguaglianze sono assolutamente inevitabili nella fase di contagio, dovrebbero sparire, perché l’essere umano ha i mezzi per appianarle, nella fase della cura.

Queste constatazioni riportano alla memoria antiche discussioni filosofiche nelle quali si contrapponevano la tesi che l’uguaglianza fosse una caratteristica naturale e quella che sosteneva, invece, che fosse il frutto del progresso sociale dell’uomo. E credo ci possano essere pochi dubbi che il concetto rivoluzionario di uguaglianza sia comparso nella Grecia antica e che la sua nascita sia stata legata all’esigenza di una giustizia che fosse uguale per tutti, o quasi: schiavi e metechi ne erano ancora esclusi. E ancora oggi, infatti, la giustizia, di per sé, è uguale per tutti, mentre non è uguale per tutti la possibilità di raggirarla.

Soltanto pochi hanno creduto a un’uguaglianza naturale. Tra questi Thomas Hobbes che, però, proprio partendo da questa base e da una frase scritta da Plauto della sua “Asinaria”, ha costruito la sua teoria dell’“Homo homini lupus”, una delle più pessimistiche sul destino dell’umanità.

Ma torniamo al coronavirus, sommamente discriminatorio e alla possibilità di cancellarne alcuni effetti con la cura. E ancora una volta ci troviamo di fronte a una netta divisione del mondo.

Da una parte ci sono coloro che credono che l’uguaglianza, come tante altre cose che hanno reso meno difficile e più lunga la nostra vita, sia una benefica conseguenza del progresso e si adoperano per farla diventare realtà: mi riferisco a medici, alcuni dei quali rientrati dalla pensione in corsia per senso del dovere infermieri, volontari, sacerdoti, persone di buon cuore in genere che fanno il possibile e l’impossibile per soccorrere, curare e, se tutto questo non va a buon fine, almeno per essere vicino a chi dal Govid-19 è rapito alla vita e ai suoi cari che non possono assisterlo.

Dall’altra, per dare un esempio, si vedono invece coloro che hanno considerato già in partenza – colpevolmente o colposamente, non importa – gli anziani delle case di riposo già perduti perché inevitabili conseguenze della pandemia, mentre avrebbero avuto il diritto di essere difesi e protetti prima, proprio per evitare di doverli curare, con pochissime speranze di farcela, dopo. È forse una delle manifestazioni di quella “cultura dello scarto” citata pochi giorni fa da Papa Francesco, riprendendola da una sua udienza generale del 2013: «Questa “cultura dello scarto” – aveva detto allora – tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti. La vita umana, la persona non sono più sentite come valore primario da rispettare e tutelare, specie se è povera o disabile, se non serve ancora – come il nascituro –, o non serve più – come l’anziano».

Ben lontano dall’essere ugualitario il coronavirus ha dimostrato una volta di più che la strada per l’uguaglianza è ancora lunga e difficile e passa, almeno in questo campo, attraverso un riequilibrio tra il pubblico che deve occuparsi di tutto e il privato che tende a occuparsi soprattutto di quello che porta un ricavo.

E anche – non stanchiamoci di ripeterlo – attraverso la constatazione che l’evasione delle tasse, impedendo alla Stato di avere da spendere il necessario, non soltanto non è una furbata, ma può essere considerata complicità, sia pur involontaria, nella morte di tantissime persone.


Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Burocrazia, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Infodemia, Libertà, Memoria, Natura, Paesaggio, Quarantena, Scelta, Sogno, Solidarietà, Tempo, Vulnerabilità.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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