La frase tipica con cui si tenta di darsi un contegno di equanimità davanti a un giudizio che non si condivide è: «Ovviamente attendo di leggere il dispositivo della sentenza, ma…», come se questa frase concedesse un lasciapassare assoluto a qualsiasi critica non soltanto al giudizio, ma anche ai giudici che lo hanno emesso. Ecco: davanti alla sentenza di primo grado che ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni e due mesi di carcere, quasi raddoppiando le richieste del pubblico ministero, questa frase mi sembra del tutto inutile e non soltanto perché per chi non ha fatto studi giuridici spesso i dispositivi delle sentenze hanno un grado di comprensibilità simile a quello di un antico documento in sanscrito, ma soprattutto in quanto ci sono alcuni elementi di critica che mi sembrano oggettivi e incontestabili.
Ovviamente non mi riferisco a una possibile lettura politica della sentenza perché una simile critica sarebbe esposta a una controcritica uguale e contraria e, in quanto, insieme con l’altrettanto trita accusa di “giustizia a orologeria”, l’ho sempre ritenuta del tutto inutile, se non a contribuire a far crollare la fiducia nel sistema giudiziario delle democrazie, con gli inevitabili corollari che buona parte della popolazione finirebbe per auspicare l’avvento di una cosiddetta “giustizia” in cui le sentenze seguono sempre i voleri del capo al potere e la nascita di realtà sul tipo dei Lager o dei Gulag, o all’altrettanto improbabile “giustizia” basata su sondaggi di opinioni eseguiti tra gente che sa poco, o nulla dei fatti, e che portano a realtà simili ai linciaggi, fisici o morali che siano.
Le mie critiche si appuntano su due realtà. La prima riguarda il fatto sostanziale che probabilmente nulla sarebbe mai successo se non fossero stati in vigore dei dispositivi di legge sull’immigrazione clandestina voluti da Salvini, Meloni e loro seguaci, non per limitare i clandestini, ma per combattere l’immigrazione tout court. Non ci fossero state queste leggi disumane che addirittura volevano punire chi salvava una vita dall’annegamento, nulla sarebbe successo. Intanto perché tutto il procedimento contro l’allora sindaco di Riace nasce proprio da quelle leggi, anche se poi proprio da quelle accuse è stato assolto perché «il fatto non sussiste», mentre per altre è stato inevitabilmente condannato. E poi perché molto probabilmente, se non ci fossero state quelle leggi criminali, Mimmo Lucano non avrebbe sentito la necessità etica di infrangere quelle e altre leggi di tipo amministrativo per tentare di salvare alcune vite, non dalla morte per annegamento, ma dall’abbandono a una vita fatta di stenti, emarginazione e, con buone probabilità, destinata ad andare a ingrossare la malavita; in forma attiva, da delinquenti, o passiva, da schiavi.
La seconda realtà riguarda il fatto che – sembra incredibile – nella cattolicissima Italia si sia persa la capacità di distinguere tra il concetto di “peccato mortale” e di “peccato veniale”, che, per chi ci crede, può comportare la non piccola diversità di destinazione tra l’inferno e il purgatorio. Che Mimmo Lucano abbia infranto leggi amministrative e regolamenti burocratici falsificando alcuni atti e documenti non lo nega nessuno, come è inevitabile la critica che la disobbedienza civile deve essere accompagnata – anche se per un sindaco può essere molto più difficile che per un parlamentare, o anche per un privato cittadino – dalla dichiarazione palese che questo atteggiamento di protesta esiste proprio per opporsi a una legge ritenuta ingiusta. Ma francamente appaiono incomprensibili i 13 anni e due mesi comminati per una serie di reati amministrativi, oltretutto senza che nelle tasche del condannato sia rimasto impigliato neppure un centesimo, mentre per una tentata strage ne sono stati inflitti 12 e per altri omicidi realizzati le pene siano scese addirittura a 5 anni, o anche meno.
Quelli che sono felici che Mimmo Lucano sia stato condannato affermano che così deve essere perché le “tariffe” della giustizia sono quelle, ma dimenticano che proprio nella quantificazione delle pene i giudici possono esprimere al massimo la loro discrezionalità e se non lo fanno dimostrano quantomeno di aver perduto, appunto, la cognizione dei significati di “veniale” e “mortale” e finiscono per far ricordare una frase di François Mauriac che scrisse: «Quel che v’è di più orrendo al mondo è la giustizia separata dalla carità».
Se l’applicazione delle pene dovesse essere sempre rigida i giudici potrebbero essere sostituiti da dei computer. A qualcuno potrebbe sembrare una cosa auspicabile perché potrebbe garantire una costanza nel metro di giudizio, ma vorrei ricordare che ogni computer deve essere programmato e in quel caso saremmo in balia del programmatore.
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