È un libretto piccolissimo, ma non può non attirare l’attenzione perché l’unione del nome dell’autore con il titolo del volumetto edito da Garzanti appare come l’esemplificazione del concetto di ossimoro. Sopra il titolo “Ribellatevi!”, infatti, campeggia il nome del Dalai Lama colui che universalmente è indicato come l’esempio del pacifismo. E allora non può non venire in mente che ribellione e pacifismo non sono assolutamente termini antitetici.
Tra l’altro è un titolo che non può non far tornare in mente quel piccolo pamphlet liberatorio e corrosivo “Indignatevi!”, scritto nel 1998 da Stéphane Hessel, partigiano, allora novantatreenne ancora combattivo, al quale poco dopo Pietro Ingrao aveva risposto con un altro piccolo saggio: “Indignarsi non basta!”. Ingrao non aveva torto, ma già l’indignazione sarebbe stata – e a maggior ragione sarebbe oggi – un grande successo sociale.
Pensateci: negli anni Sessanta e Settanta l’indignazione era generale e palpabile, si inalava con ogni respiro, dava corpo a idee e a fatti. Poi, pian piano, tutto si è illanguidito, tranne certi estremismi sanguinari che mai avrebbero dovuto apparire. Poi, con l’arrivo del reaganismo, del thatcherismo, del berlusconismo, l’indignazione è apparsa come un vocabolo desueto. Tanto che il successo di Hessel ha colto quasi tutti di sorpresa, anche se non avrebbe dovuto sorprendere nessuno in quanto era come vedersi offrire a prezzi bassissimi un raro oggetto di antiquariato, davvero autentico: chi avrebbe rinunciato a quell’occasione? Inoltre buona parte degli acquirenti erano proprio quelli che avevano smesso da tempo di entrare in quei negozi di riferimenti etici e sociali che sono i seggi elettorali dove non trovavano più alcun simbolo che indicasse il proprio valore di riferimento.
A leggere oggi il libretto del Dalai Lama non si può non pensare che anche oggi i motivi per scende in piazza a protestare, a indignarsi, a ribellarsi sarebbero moltissimi: dalle discriminazioni razziali che oggi non hanno alcuna legge a sostenerle, eppure sono ancora fortissime, alla distruzione del valore del lavoro sostituito dall’idolatria della finanza e dell’arricchimento; dalla rinuncia a regolamentare seriamente settori strategicamente sensibili come la comunicazione e l’informazione, alla noncuranza con la quale si accetta che una parte sempre maggiore della società sia emarginata, se non addirittura esclusa, sia per censo, sia per questioni legate al sesso, o alla religione. Non si manifesta praticamente più nemmeno davanti ai tentativi di distruzione di importanti principi costituzionali.
Eppure a scendere nelle piazze sono soltanto i no-vax e i no-pass, proprio coloro che non ne avrebbero diritto perché le manifestazioni sono accettabili, se non addirittura auspicabili, quando postulano un impegno per il bene comune; non quando si sbandierano termini sacri come “libertà” per difendere i propri egoismi a scapito degli altri.
La domanda è inevitabile: questa inazione, questa timidezza nell’agire deriva da rassegnazione, insensibilità, individualismo egoista e miope? Oppure – ed è la cosa che più mi fa paura perché mette in crisi il concetto stesso di democrazia – si tratta un eccesso di abitudine alla delega?
Il quesito è drammatico perché la democrazia rappresentativa è insostituibile visto che quella diretta, basata sul supporto informatico, non ha il minimo senso in quanto la democrazia non si nutre soltanto di voti, ma prima di tutto è confrontarsi, parlare, discutere, mettere a paragone idee diverse, trovare mediazioni che possano risolvere i problemi della maggior parte della popolazione possibile. La democrazia, poi, vive per mettere a confronto idee e ideologie, non personaggi e leader.
La democrazia rappresentativa si regge sulla delega, ma il problema è che non molti si rendono conto che il concetto di delega può riguardare l’ambito decisionale, ma non quello della responsabilità: se sbagliano quelli che abbiamo delegato, siamo noi i responsabili perché abbiamo sbagliato a sceglierli e, quindi, dobbiamo intervenire al più presto. Anche scendendo in strada, o in piazza. Anche tornando a parlare un po’ più di politica e un po’ meno di calcio e di gossip. Anche lasciando perdere gli slogan e illustrando concetti che richiedono più di pochi secondi per poter essere compresi.
Anche per questo non amo la cosiddetta “governabilità” e il maggioritario che elargisce deleghe a lungo termine che devono vivere con pochi controlli e che hanno come caratteristica voluta proprio quella di non cambiare, anche se la scelta, a mandato ancora ben lontano dalla fine, si rivela drammaticamente sbagliata.
Adesso, dopo una lunga interruzione riprendono i periodi elettorali, sia a livello amministrativo, sia a livello politico. Per risvegliare un po’ di speranza ci sarebbe bisogno di persone che dicano davvero quello che pensano non soltanto nelle aule dove si riuniscono gli eletti e nelle stanze dei raggruppamenti politici, ma anche e soprattutto, faccia a faccia, in luoghi che non siano lo schermo di un computer, o di un telefonino. E, soprattutto, di persone disposte nuovamente a indignarsi, a ribellarsi e magari a scendere in piazza. I motivi e le occasioni non mancano anche perché la gestione della nostra coscienza non possiamo continuare a delegarla ad altri.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
Nessun commento:
Posta un commento