In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Nel
2012 Stefano Rodotà scriveva: «Nello spazio globale i diritti si
dilatano e scompaiono, si moltiplicano e si impoveriscono, offrono
opportunità collettive e si rinserrano nell’ambito individuale,
redistribuiscono poteri e subiscono soggezioni, soprattutto agli
imperativi della sicurezza e alla prepotenza del mercato». Sembrerebbe
scritto oggi per spiegare come la nostra realtà democratica si stia
distorcendo sotto diversi tipi di pressione di cui quella imposta dal
Covid-19 è la più recente e, quindi, appare la più forte, ma non è
certamente né unica, né dominante.
È da anni che stiamo assistendo a
reiterati tentativi, da moltissime delle parti in causa, quando sono al
potere, di andare a scovare norme poco usate in qualche anfratto della
mastodontica montagna di norme che regolano l’attività legislativa per
riuscire a forzare la mano alla ricerca di maggiore velocità, o di
minori controlli. Nei due casi, la gravità etica appare diversa, ma
assolutamente identico è il danno che viene procurato allo spirito della
nostra splendida Costituzione che ha, come suo primo obbiettivo, quello
di difendere i diritti dei cittadini, pur armonizzandoli con il bene
collettivo. E, tra tutti, quello fondamentale: il diritto di avere
diritti.
Non è la prima volta che si assiste
alla temporanea sospensione – pur se mai esplicitamente dichiarata – di
alcune prerogative dei cittadini liberi e va detto che la popolazione ha
sempre accettato, quando ne ha capito la necessità, come all’epoca del
terrorismo e delle stragi, di trattenere il fiato fino al termine
dell’emergenza. Ma va anche ricordato che qualche scoria delle
legislazioni, o delle prassi emergenziali ha continuato a restare
attaccata a parti dello Stato anche a emergenza dichiaratamente
conclusa. Non altrimenti si potrebbe spiegare la vergognosa vicenda del
G8 di Genova.
Ora l’emergenza è quella del
coronavirus e lo spingersi al limite della trasgressione legislativa,
per la ripetitività di strumenti che dovrebbero essere circoscritti, è
costituito dai Dpcm, “Decreti del presidente del Consiglio dei
ministri”, che hanno il merito di essere rapidi e quindi particolarmente
adatti alle situazioni di emergenza, ma, a differenza dei decreti
legge, non coinvolgono il Parlamento, e quindi sono espressione della
volontà della sola maggioranza politica.
Si potrebbe dire che nel nostro
Parlamento è quasi scontato che alle decisioni del governo corrisponda
il sostegno della maggioranza che gli ha dato vita, ma a ragionare così
si ripeterebbe l’errore fondamentale che ha guastato la nostra
democrazia: ritenere non soltanto il voto più importante della
discussione, ma addirittura pensare che sia superfluo il confronto di
idee diverse che è, invece, proprio alla base di ogni sistema politico
che si vanta di dare vita a una reale sovranità popolare.
Non penso assolutamente che
l’attuale presidente del Consiglio punti a minare le regole democratiche
per smanie di potere personale, ma è incontrovertibile che anche con il
coronavirus alcuni diritti sono stati limitati: quelli di movimento, di
riunione e manifestazione, quelli al lavoro e al mercato, anche se
contemporaneamente si è tentato di porre rimedio a profonde ferite che
già precedentemente erano state inferte, con tagli vergognosi e
criticatissimi, ad altri diritti fondamentali come quelli alla salute e
alla vita. E ora sono sempre di più coloro che non accettano
ulteriormente che decisioni che limitano i diritti siano prese con la
medesima urgenza e assenza di discussioni dei primi giorni dell’arrivo
in Italia della pandemia.
Potrebbe far sorridere il fatto che i
più scatenati contro i Dpcm siano, dalla parte dell’opposizione, Matteo
Salvini, Giorgia Meloni e i loro seguaci che si ergono a paladini del
pluralismo democratico: proprio coloro che meno di un anno fa
reclamavano per sé i “pieni poteri”, con uno strano concetto che fa
ritenere valide le garanzie democratiche soltanto quando si è in
minoranza, mentre nel caso opposto è preferibile praticare
l’autoritarismo.
E altrettanto bizzarro è che nella
stessa maggioranza a fare la voce grossa, addirittura a lanciare
ultimatum, sia quel Matteo Renzi che si era messo in testa perfino di
cambiare la Costituzione pur di risparmiarsi la fatica di dover
discutere a lungo con il Parlamento ogni cosa che gli potesse passare
per la mente prima di farla diventare legge.
Potrebbe far sorridere, ma in realtà
è il caso di preoccuparsi, perché, anche se gli ultimi sondaggi
sembrano tranquillizzare, se un giorno quei signori tornassero al potere
in prima persona, probabilmente troverebbero qualche efficace sistema
per attuare il loro auspicato decisionismo addirittura senza dover
neppure usare i Dpcm. Ma anche e soprattutto in quanto in una situazione
nella quale sono gli stessi giuristi a discutere, in punta di diritto,
se questo sistema è del tutto legittimo, o ha qualche pecca, si finisce
per veder crescere i dubbi e far scemare quella coesione che ha finora
permesso di ottenere qualche risultato contro un nemico subdolo, ma
mortale.
Inoltre, al di là dell’indebolimento
dello spirito collettivo, un altro forte pericolo è costituito dal
fatto che ogni eccezione, quando si ripete tante volte da diventare
quasi abituale, rischia di scavare un canale nel quale, prima o dopo, si
farà strada un’altra eccezione più grande ancora. E, a prescindere
dalla sua natura, la certezza è che le sue vittime saranno ancora una
volta alcuni diritti.
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