domenica 3 maggio 2020

Le parole del virus: Cultura

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Se ci avete fatto caso, da quando il Covid-19 si è temporaneamente impadronito delle nostre vite, si sono sentite perorazioni ripetute e sempre più argomentate sulla necessità di riaprire e ridare spazio a molte realtà che dal coronavirus sono state soffocate: l’economia, con produzione e distribuzione, la ristorazione in tutte le sue forme, i trasporti, il turismo, i servizi in genere, lo sport a livello apicale. Quello di cui si è sentito parlare davvero pochissimo, soprattutto da parte dei cosiddetti politici, è, invece, l’ambito della cultura e sarebbe importante riuscire a mettere a fuoco il perché di questo assordante silenzio che è responsabile anche del fatto che l’Italia, primo Paese al mondo per quantità e qualità di opere d’arte all’interno dei propri confini, non sia assolutamente al primo posto per il numero di turisti che riesce ad attirare.

Eppure è un settore vastissimo che comprende il teatro, la musica, il cinema, i festival di ogni tipo, la produzione di libri, i musei, la promozione dei patrimoni storico e artistico, i seminari, le conferenze, i dibattiti, le presentazioni e mille altre forme di comunicazione del sapere che, tra l’altro hanno per protagonisti non soltanto attori, musicisti e coloro che in qualche maniera appaiono, ma tutta una serie di altre persone che permettono la realizzazione di questi momenti, che, con il blocco totale delle attività di questo settore, non riescono a guadagnare neppure un soldo e che in molti casi non rientrano neppure tra coloro per i quali sono previsti gli aiuti economici statali.

Per capire il perché di questa scelta dissennata credo si debba partire da una famosa frase dell’allora ministro Giulio Tremonti: «Con la cultura non si mangia». È una frase detestabile oltre che imbecille, perché totalmente falsa, anche se è condivisa nei fatti da troppe persone. E, in più, manca di una seconda parte, molto più reale e anche molto più importante per coloro che desidererebbero venisse rispolverato e appeso un po’ dappertutto l’antico cartello che si vedeva sui tram: «Non disturbate il manovratore». Perché la cultura è un’efficientissima fabbrica di rompiscatole che – quel che è peggio – sanno anche argomentare il perché delle loro posizioni.

E, quindi, per tagliare alla base la possibile origine di tanti disturbi, anche la scuola, l’università e la ricerca da decenni sono vittime, come la cultura, non soltanto di sconsiderati tagli nei bilanci, ma anche della trasformazione di fondamentali pilastri della società in “aziende”, termine che sottintende che nel bilancio finale di ogni anno si debba dare la preminenza alla parte economica perseguendo una parità, se non – meglio – un guadagno. In aziende sono stati trasformati anche gli ospedali e i frutti avvelenati si sono visti proprio con l’arrivo della pandemia. Perché questa è una delle realtà più orrende della società odierna in quanto sottintende che la salvezza di una vita, o la crescita intellettuale ed etica di un cittadino, per il fatto stesso di non poter essere inserita come numero nella colonna dell’avere, non abbiano l’immenso valore che invece possiedono per l’intera comunità. Basterebbe questo per condannare un’intera classe politica che ha voluto, o quantomeno permesso, simili degenerazioni.

Alla base di tanti disastri e dei continui pericoli che la nostra società corre per l’incapacità di vedere cose più lontane di pochi chilometri, o poche settimane, c’è proprio l’ignoranza che difende strenuamente se stessa perché è conscia che se la cultura torna a essere considerata un valore, dovrebbero essere rinfoderate le velleità di molti che indicano Wikipedia come perfetto surrogato di libri, studi e pratiche. E i danni sono terribili perché è proprio la cultura, assieme ai valori etici, alle regole democratiche e al lavoro, uno dei quattro pilastri sui quali si regge una società moderna e giusta; quel pilastro che è innervato da due diritti fondamentali: il diritto all’errore e il diritto alla sconfitta che sono assolutamente fuori moda, ma restano insostituibili per poter avanzare nella ricerca dell’utopia, minuscola o gigantesca, personale o collettiva che sia.

Ma c’è anche una colpa del mondo stesso della cultura in cui in alcuni si avverte un certo senso di fastidio nel dover difendere le proprie ragioni che troppo spesso sono considerate naturali, mentre tali non sono, proprio come naturali non sono i diritti che prima sono stati conquistati, proprio grazie alla cultura, e poi devono sempre essere difesi. Invece, sarebbe il caso di ripetere ossessivamente che la cultura non è, come da fuori tentano di gabellarla, uno sfoggio elitario di nozioni, ma che va trattata e impiegata per quello che realmente è: un semplice e utile riuso organizzato di idee già distillate da altri. Se poi, da questa attività, che comunque resta faticosa anche se ricca di soddisfazioni personali, casualmente esce un nuovo stimolo, un nuovo spunto, tanto di guadagnato. Ma riorganizzare è già molto; anzi, è fondamentale per il bene comune.

E, vista in questo senso, la cultura è anche quell’insieme di strumenti che permettono di orientarsi nella vita e di comunicare con gli altri, di capirsi, aiutarsi e arricchirsi vicendevolmente per cambiare le cose, per pensare a un mondo diverso nelle parti in cui non funziona. Per continuare quel percorso di conoscenza che ha permesso ai nostri progenitori di cominciare a camminare sulla strada che ha portato l’essere umano a diventare quello che è oggi: il risultato di un lunghissimo progresso che non sempre è coinciso con lo sviluppo e che è stato costellato da un’infinita serie di errori e di orrori, ma ci ha dato la piena coscienza che, nel bene e nel male, siamo noi i padroni del nostro destino.

Infatti è difficile che la cultura, se non è mercificata, perda la sua caratteristica principale: quella di essere dialettica e, quindi, spesso oppositiva, quella di spingere a operare delle scelte, a prendere parte: a essere, appunto, “partigiani” dei propri valori.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Ansia, Anziano, Burocrazia, Competenza, Confine, Democrazia, Denaro, Dignità, Diritti, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Guerra, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.


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