giovedì 7 maggio 2020

Le parole del virus: Rispetto

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Tra le tante parole che il Covid-19 ha riportato alla ribalta, alcune sono subito tornate, dopo essere salite brevemente alla ribalta, a essere bellamente ignorate, o per fastidio, o per deliberato calcolo. Una di queste è il sostantivo “rispetto”, in tutte le sue molteplici sfumature di significato. Perché, al di là dei giudizi di merito su come è stata affrontata la pandemia dal punto di vista medico ed epidemiologico, è incontestabile che, pur con moltissime giustificazioni legate all’emergenza, il concetto di rispetto è stato troppo spesso sacrificato su altri altari.

Può essere anche vero quello che Lev Tolstoj ha fatto dire ad Anna Karenina – «Hanno inventato il rispetto per nascondere il posto vuoto dove dev’esserci l’amore» – eppure, pur in questa connotazione negativa e se davanti ai lutti e ai contagi il rispetto potrebbe sembrare un orpello inutile, in una società che si è deformata sotto le spinte di esasperati interessi e visioni di parte, il recupero del rispetto reciproco sarebbe fondamentale perché, se molti tipi di società ne hanno fatto deliberatamente a meno, nessuna democrazia può dirsi veramente tale se viene a mancare stima, o almeno considerazione, tra i cittadini che ne sono l’anima. Purtroppo, però, questo obbiettivo è ancora molto lontano se non si riesce ad applicarlo neppure nei confronti dei più deboli.

È ben difficile, per esempio, credere che potranno essere dimenticate le immagini, ma soprattutto le emozioni, legate alla morte di tantissimi anziani, sia per il fatto che poco rispetto è stato usato nei loro confronti quando si è deciso di lasciar trasformare molte RSA e case di riposo in veri e propri lazzaretti nei quali sono stati troppi coloro che hanno perduto la vita. Né è possibile dimenticare che la quasi totalità delle vittime ha passato gli ultimi istanti di vita da sole, senza neppure il conforto, se non arrivavano da umanissimi medici, infermieri e operatori socio-sanitari, di una voce amica, di una carezza partecipe, di una lacrima che non può salvare il corpo, ma può fare miracoli con lo spirito. Sono diventati inumanamente soltanto numeri, statistiche.

E rispetto non c’è stato neppure – anche se non c’erano alternative – nel vedere quelle lunghe colonne di camion militari che trasportavano verso forni crematori lontani cataste di feretri, quasi a ricordare – anche se così fortunatamente non è stato – il triste retaggio delle fosse comuni che ha contrassegnato i momenti più bui della storia dell’uomo.

Ma se nel momento più drammatico, molte di queste assenze di rispetto umano possono essere perdonate, decisamente meno digeribili sono alcune decisioni prese in questi giorni, come quella di confinare su una nave alla fonda a Trieste tanti anziani che sono stati contagiati dal virus, anche se non nella forma più grave. Una nave traghetto, per di più, non certamente da crociera, e, quindi, decisamente spartana. Si è detto che altrimenti sarebbe stato necessario spostarli lontano da Trieste. Ma confinarli su una nave – dall’affitto salatissimo tra l’altro – non mi sembra poco estraniante. Visto che non possono ricevere visite e che il personale destinato a prendersi cura di loro è stato raccolto in fretta da una cooperativa con annunci sui giornali e sul web, i malati avrebbero potuto anche finire in Nuova Zelanda; ma magari con qualche comodità in più e anche con maggiori certezze sulla qualità dell’assistenza.

È da accogliere con gratitudine il suggerimento di fermarsi tutti e di dedicare al ricordo dei morti e delle sofferenze dei sopravvissuti qualche minuto di silenzio, in un giorno da stabilire, al suono di una sirena. Se lo si farà, sarà la doverosa condivisione di un dramma che ha impoverito non soltanto le famiglie direttamente colpite, ma tutti. Però sarà anche l’occasione per impegnarsi a guardare con maggiore rispetto chiunque, anche quando quello che sta succedendo sembrerebbe poter giustificare trascuratezze e incurie.

E, pur tra mille giustificazioni, il rispetto è stato carente anche nei confronti di molti altri malati non di coronavirus che hanno dovuto inghiottire le loro paure e preoccupazioni perché una sanità troppo sotto pressione per le carenze indotte da tagli indiscriminati, non poteva materialmente dedicarsi con la solita sollecitudine alla loro cura. E anche in questo la sanità privata ha mostrato i suoi terribili limiti come pubblica utilità. Pur senza arrivare ai vertici di assurdità di quelli che hanno pensato, in piena crisi sanitaria nazionale, di mettere il proprio personale in ferie o in cassa integrazione, quasi nessuna struttura non pubblica è riuscita a dare sollievo, o aiuto, né agli ospedali oberati di lavoro, né alle tante persone gravate da dolori e preoccupazioni.

Del resto, sarebbe stato strano il contrario. Quale rispetto può imparare una società che vede uno di coloro ai quali ha delegato – fortunatamente soltanto pro tempore – la propria guida, che pensa di punire chi salva le vite di chi sta annegando e che derubrica la drammatica morte di migliaia di migranti a semplice esempio dissuasivo? Sarebbe il caso di riportare in primo piano il vecchio e fuori moda, ma sempre valido «Non fare agli altri, quello che non vorresti fosse fatto a te».

Il fatto è che il rispetto nasce dalla conoscenza, e la conoscenza richiede impegno, investimento, sforzo, mentre la nostra società sta sempre più dividendo gli esseri umani a seconda della loro produttività e, quindi, “rottamando” non soltanto con l’uso di criteri ben lontani da qualsiasi rispetto per il prossimo, ma operando anche scelte fatte con l’accetta della generalizzazione, penalizzando a gruppi indiscriminati i più vecchi, i meno forti, i malati, i deboli, i poveri, gli stranieri, gli ultimi. Non è piacevole, ma inevitabilmente si agitano davanti alla mente quelle lugubri scelte che venivano fatte all’arrivo dei treni piombati nei Lager: i forti, quelli ancora in grado di lavorare, verso le baracche; gli altri alle “docce” di Zyclon B e poi ai forni crematori. Un paragone esagerato? Sicuramente sì, ma forse può riuscire ad attrarre un po’ l’attenzione su queste discriminazioni asociali.

Lord George Byron disse che «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore». È giusto; e noi non riusciremo mai a dimenticare quanto è accaduto in questi mesi orrendi, ma se questo servirà a far tornare il rispetto protagonista nella nostra società, allora anche da questa pandemia potrebbe uscire qualcosa di buono.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Ansia, Anziano, Burocrazia, Competenza, Confine, Coraggio, Cultura, Democrazia, Denaro, Dignità, Diritti, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Guerra, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Pubblico, Quarantena, Regole, Resistenza, Responsabilità, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.


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