In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Tra
le tante parole che il Covid-19 ha riportato alla ribalta, alcune sono
subito tornate, dopo essere salite brevemente alla ribalta, a essere
bellamente ignorate, o per fastidio, o per deliberato calcolo. Una di
queste è il sostantivo “rispetto”, in tutte le sue molteplici sfumature
di significato. Perché, al di là dei giudizi di merito su come è stata
affrontata la pandemia dal punto di vista medico ed epidemiologico, è
incontestabile che, pur con moltissime giustificazioni legate
all’emergenza, il concetto di rispetto è stato troppo spesso sacrificato
su altri altari.
Può essere anche vero quello che Lev
Tolstoj ha fatto dire ad Anna Karenina – «Hanno inventato il rispetto
per nascondere il posto vuoto dove dev’esserci l’amore» – eppure, pur in
questa connotazione negativa e se davanti ai lutti e ai contagi il
rispetto potrebbe sembrare un orpello inutile, in una società che si è
deformata sotto le spinte di esasperati interessi e visioni di parte, il
recupero del rispetto reciproco sarebbe fondamentale perché, se molti
tipi di società ne hanno fatto deliberatamente a meno, nessuna
democrazia può dirsi veramente tale se viene a mancare stima, o almeno
considerazione, tra i cittadini che ne sono l’anima. Purtroppo, però,
questo obbiettivo è ancora molto lontano se non si riesce ad applicarlo
neppure nei confronti dei più deboli.
È ben difficile, per esempio,
credere che potranno essere dimenticate le immagini, ma soprattutto le
emozioni, legate alla morte di tantissimi anziani, sia per il fatto che
poco rispetto è stato usato nei loro confronti quando si è deciso di
lasciar trasformare molte RSA e case di riposo in veri e propri
lazzaretti nei quali sono stati troppi coloro che hanno perduto la vita.
Né è possibile dimenticare che la quasi totalità delle vittime ha
passato gli ultimi istanti di vita da sole, senza neppure il conforto,
se non arrivavano da umanissimi medici, infermieri e operatori
socio-sanitari, di una voce amica, di una carezza partecipe, di una
lacrima che non può salvare il corpo, ma può fare miracoli con lo
spirito. Sono diventati inumanamente soltanto numeri, statistiche.
E rispetto non c’è stato neppure –
anche se non c’erano alternative – nel vedere quelle lunghe colonne di
camion militari che trasportavano verso forni crematori lontani cataste
di feretri, quasi a ricordare – anche se così fortunatamente non è stato
– il triste retaggio delle fosse comuni che ha contrassegnato i momenti
più bui della storia dell’uomo.
Ma se nel momento più drammatico,
molte di queste assenze di rispetto umano possono essere perdonate,
decisamente meno digeribili sono alcune decisioni prese in questi
giorni, come quella di confinare su una nave alla fonda a Trieste tanti
anziani che sono stati contagiati dal virus, anche se non nella forma
più grave. Una nave traghetto, per di più, non certamente da crociera,
e, quindi, decisamente spartana. Si è detto che altrimenti sarebbe stato
necessario spostarli lontano da Trieste. Ma confinarli su una nave –
dall’affitto salatissimo tra l’altro – non mi sembra poco estraniante.
Visto che non possono ricevere visite e che il personale destinato a
prendersi cura di loro è stato raccolto in fretta da una cooperativa con
annunci sui giornali e sul web, i malati avrebbero potuto anche finire
in Nuova Zelanda; ma magari con qualche comodità in più e anche con
maggiori certezze sulla qualità dell’assistenza.
È da accogliere con gratitudine il
suggerimento di fermarsi tutti e di dedicare al ricordo dei morti e
delle sofferenze dei sopravvissuti qualche minuto di silenzio, in un
giorno da stabilire, al suono di una sirena. Se lo si farà, sarà la
doverosa condivisione di un dramma che ha impoverito non soltanto le
famiglie direttamente colpite, ma tutti. Però sarà anche l’occasione per
impegnarsi a guardare con maggiore rispetto chiunque, anche quando
quello che sta succedendo sembrerebbe poter giustificare trascuratezze e
incurie.
E, pur tra mille giustificazioni, il
rispetto è stato carente anche nei confronti di molti altri malati non
di coronavirus che hanno dovuto inghiottire le loro paure e
preoccupazioni perché una sanità troppo sotto pressione per le carenze
indotte da tagli indiscriminati, non poteva materialmente dedicarsi con
la solita sollecitudine alla loro cura. E anche in questo la sanità
privata ha mostrato i suoi terribili limiti come pubblica utilità. Pur
senza arrivare ai vertici di assurdità di quelli che hanno pensato, in
piena crisi sanitaria nazionale, di mettere il proprio personale in
ferie o in cassa integrazione, quasi nessuna struttura non pubblica è
riuscita a dare sollievo, o aiuto, né agli ospedali oberati di lavoro,
né alle tante persone gravate da dolori e preoccupazioni.
Del resto, sarebbe stato strano il
contrario. Quale rispetto può imparare una società che vede uno di
coloro ai quali ha delegato – fortunatamente soltanto pro tempore – la
propria guida, che pensa di punire chi salva le vite di chi sta
annegando e che derubrica la drammatica morte di migliaia di migranti a
semplice esempio dissuasivo? Sarebbe il caso di riportare in primo piano
il vecchio e fuori moda, ma sempre valido «Non fare agli altri, quello
che non vorresti fosse fatto a te».
Il fatto è che il rispetto nasce
dalla conoscenza, e la conoscenza richiede impegno, investimento,
sforzo, mentre la nostra società sta sempre più dividendo gli esseri
umani a seconda della loro produttività e, quindi, “rottamando” non
soltanto con l’uso di criteri ben lontani da qualsiasi rispetto per il
prossimo, ma operando anche scelte fatte con l’accetta della
generalizzazione, penalizzando a gruppi indiscriminati i più vecchi, i
meno forti, i malati, i deboli, i poveri, gli stranieri, gli ultimi. Non
è piacevole, ma inevitabilmente si agitano davanti alla mente quelle
lugubri scelte che venivano fatte all’arrivo dei treni piombati nei
Lager: i forti, quelli ancora in grado di lavorare, verso le baracche;
gli altri alle “docce” di Zyclon B e poi ai forni crematori. Un paragone
esagerato? Sicuramente sì, ma forse può riuscire ad attrarre un po’
l’attenzione su queste discriminazioni asociali.
Lord George Byron disse che «Il
ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è
ancora dolore». È giusto; e noi non riusciremo mai a dimenticare quanto è
accaduto in questi mesi orrendi, ma se questo servirà a far tornare il
rispetto protagonista nella nostra società, allora anche da questa
pandemia potrebbe uscire qualcosa di buono.
Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Ansia, Anziano, Burocrazia, Competenza, Confine, Coraggio, Cultura, Democrazia, Denaro, Dignità, Diritti, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Guerra, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Pubblico, Quarantena, Regole, Resistenza, Responsabilità, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.
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