In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Se
è vero che la citazione più usata e condivisa sul coraggio è la frase
che Alessandro Manzoni fa pensare a don Abbondio come
autogiustificazione nei “Promessi sposi” al termine del
colloquio con il cardinale Borromeo – «Il coraggio, uno, se non ce l’ha,
mica se lo può dare» – allora il Civid-19 ci ha fatto vedere con
evidenza che questo coraggio è molto più diffuso di quanto si potesse
credere e che forse è stata raccolta la raccomandazione di Natalia
Ginzburg in “Le piccole virtù”, quando raccomanda ai genitori di insegnare ai figli quelle grandi: nella fattispecie, il coraggio e non la prudenza.
Perché è incontestabile che la
pandemia abbia dimostrato che la qualità del coraggio è molto più
diffusa di quanto si potesse ritenere: basti pensare a quanti tra
medici, infermieri e volontari hanno lavorato a stretto contatto con
questo nemico invisibile e troppo spesso letale; a quanti hanno
continuato a lavorare nei settori in cui era necessario lavorare; a
come, tutto sommato, l’intera società abbia saputo assorbire delle
mazzate tremende, traballando ma non infrangendosi, preoccupandosi
fortemente, ma senza perdere la testa; a come sentimenti detestabili,
soprattutto in momenti di crisi siano venuti a galla, ma in maniera
molto più limitata di quanto si potesse temere in una società per la
quale, anche all’estero, si sprecano le battute di spirito negative e
che, invece, ha stupito un po’ tutti e, per prima, se stessa.
E, a proposito di coraggio, è anche
il caso di ricordare che i monumenti al valore che troviamo nelle città e
nei paesi, per la maggior parte ci mostrano importanti uomini, spesso a
cavallo, perché l’eroismo un tempo era visto come una virtù
prevalentemente maschile, tanto da generare, davanti a situazioni
preoccupanti, frasi sul tipo: «Fai l’uomo, no la femminuccia». E anche
in questo il coronavirus ci ha costretto a osservare con maggiore
attenzione la realtà, perché, se è vero che ancora molti pensano agli
uomini in maniera diversa che alle donne, visto che oggi torneranno nei
cantieri, nelle fabbriche, nei negozi e negli uffici quasi 4 milioni e
mezzo di lavoratori di cui il 72,4 per cento sono di sesso maschile, è
altrettanto vero che il personale sanitario che negli ospedali ha saputo
reggere alla terribile forza d’urto del virus per ormai più di due mesi
è formato per il 78 per cento da donne.
Detto questo e stabilito che, anche
quanto a coraggio, sono davvero troppe le incrostazioni mentali che ci
trasciniamo dietro da tempi in cui i pregiudizi erano molto più radicati
di quanto dovrebbero essere oggi, merita ricordare che da sempre,
pensando al coraggio, ci si riferisce soprattutto ad atti straordinari
compiuti da persone ordinarie che avevano sicuramente grande forza
d’animo, ma non necessariamente anche uno spiccato vigore fisico.
Al di là di una certa chiarezza
impostaci dalla drammatica situazione che stiamo vivendo, anche il
riguardare i cambiamenti nei nomi usati per indicare questa qualità
insegna qualcosa. In latino per definire il coraggio si usavano almeno
quattro sostantivi diversi: “animus”, che si riferiva soprattutto alla capacità di tollerare l’imprevisto; “audacia”, che deriva da “audere”, osare; “fortitudo” che significa forza; e “virtus” che ha l’evidente radice in “vir”,
uomo. Tre sostantivi su quattro, insomma si riferivano a qualità, o ad
azioni, molto più vicine agli uomini del tempo che alle donne.
Coraggio, invece, deriva dall’antico francese “corage” che si rifà al latino “cor”,
cuore, ma è soltanto allora che si colloca la capacità di affrontare
situazioni disperate in quello che per noi è la pompa del sangue, ma in
tempi medievali era ritenuta una specie di camera di riscaldamento per
gli spiriti vitali del corpo, una camera che funzionava nella stessa
maniera per gli uomini e per le donne, anche se proprio dagli spiriti
vitali – ritenevano i medici del tempo – dipendeva la quantità di peli e
capelli che, secondo Michele Scoto, filosofo e alchimista scozzese, ma
vissuto nella corte siciliana di Federico II di Svevia, se erano
«abbondanti, folti e ricci», provavano «molto calore del cuore, come in
un leone». E, se gli uomini hanno la barba, le donne possono vantare
capelli più lunghi e meno esposti alla calvizie. Infatti proprio nel
medioevo appaiono i primi racconti di donne di estremo coraggio.
Poi, ovviamente, questo legame tra
irsutismo e valore ha perso attendibilità, ma soltanto molto più tardi
si è capito che le differenze sessuali anche in questo campo non
dipendono da altro che dall’indole e dalle qualità morali ed etiche di
ogni persona, donna o uomo che sia. Anzi, si è compreso anche che la
forza fisica ha ben poco a che fare con il coraggio che, invece, si
fonda su una vasta gamma di altre qualità, come la costanza, la tenacia,
la capacità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni, la
forza della speranza.
E con questo il concetto di coraggio
si è allargato. Non vuol più dire soltanto essere pronti a mettere se
stessi in pericolo, ma anche, rischiando di essere esclusi dalla
società, denunciare le ingiustizie, essere diversi in una cultura che
disprezza le diversità, accettare sacrifici pesanti per il bene degli
altri, avere il coraggio delle proprie convinzioni. Tutte doti che sono
la base delle donne e degli uomini che al coronavirus si sono opposti e
si stanno opponendo.
Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Ansia, Anziano, Burocrazia, Competenza, Confine, Cultura, Democrazia, Denaro, Dignità, Diritti, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Guerra, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Quarantena, Regole, Resistenza, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.
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