In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Una
delle commedie più ridicole, ma per niente divertenti, anche perché già
vista infinite volte, andata in scena nell’epoca del Covid-19 è stata
quella della discussione tra scienza e politica, sempre nel presunto
nome della “verità”. Eppure non dovrebbero esserci dubbi: nella quasi
totalità dei casi i politici fanno promesse, propaganda e
auto-incensazione, tre attività nelle quali la verità, se c’è, è del
tutto casuale; dall’altra parte la scienza si basa su dati di fatto, li
riferisce come stanno, mettendo anche bene in chiaro che la verità
scientifica è parziale in quanto è sempre in divenire visto che è
costantemente sottoposta alle sperimentazioni che la devono confermare
galileianamente.
Per capirci. È praticamente
impossibile che razionalmente si possa dare torto ai tanti virologi,
infettivologi e rianimatori assortiti che abbiamo sentito in questi mesi
per dare ragione – che so? – a Salvini, Meloni, Berlusconi, Renzi.
Direte: non ti fideresti di quello che dicono questi quattro neanche se
dall’altra parte, nel contraddittorio ci fosse Pinocchio. È vero, ma
perché li ho visti sempre cambiare radicalmente posizione senza alcuno
sforzo se pensavano che questo potesse far loro comodo. Mentre il metodo
scientifico è ottimo a prescindere da chi cerca di sminuirlo
Detto questo, è evidente che il
concetto di verità assoluta è del tutto sfuggente, come quello di
giustizia assoluta. E, infatti Dante ben descrive l’impossibilità, per
l’uomo, di raggiungere la giustizia, e quindi la verità, nel XIX Canto
del “Paradiso”, quando l’aquila formata dalle luci delle anime dei beati
rimprovera il poeta con una famosa terzina: «Or tu chi se’ che vuo’
sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta
corta d’una spanna?».
Ma il fatto che la verità sia
un’entità scivolosissima non significa che la menzogna sia troppo
difficile da individuare; ovviamente se uno ne ha voglia. Pensate alle
fake news, notizie false messe in giro intenzionalmente da chi vuole
agire sulle emozioni della gente. Pensate al neologismo “postverità”
addirittura scelto, dopo l’elezione di Trump come “parola dell’anno"
dall’Oxford English Dictionary che lo considera una voce che si basa
sull’emotività, su credenze diffuse e non su fatti verificati, ma
pretende di essere accettata come vera. E, del resto, quando mai, nella
storia, sono stati i fatti verificati a decidere l’orientamento della
pubblica opinione? Pensate anche alle sciocchezze tanto assurde da non
poter essere neppure confutate razionalmente, come le “scie chimiche” su
cui qualcuno ha costruito la sua fortuna politica. Pensate anche a
persone teoricamente degne di fede, come Luc Montagnier che confeziona
teorie sul coronavirus senza portare uno straccio di prova e senza
trovare in tutto il mondo neppure uno scienziato che lo supporti. A
conferma che il Nobel premia uno scienziato per l’attività fatta fino a
quel momento; non per quella che eventualmente arriverà dopo.
Ma perché la menzogna va così alla
grande? Semplice: perché fa in modo di essere comoda e, quindi, solleva dal peso di pensare, o
addirittura, dalla ripetuta fatica di cui parlava Karl Popper quando
sosteneva che la ricerca della verità non finisce mai perché ogni
apparente successo altro non è che il momento in cui si rende necessaria
un’ulteriore verifica. Ma oltre che essere comoda, fa anche leva sulle
arrabbiature e sulle frustrazioni della gente che troppo spesso non vede
l’ora di scaricare il proprio livore su qualcosa, o su qualcuno. E
magari si autogratifica convincendosi di essere uno dei pochissimi al
mondo a conoscere davvero la “verità”.
Eppure bisognerebbe far diventare
parte di sé il concetto che la verità va sempre cercata, ma senza mai
pensare di poterla raggiungere davvero, e di ritenerla, così,
inoppugnabile. Perché una simile convinzione porta con sé rischi
terribili. Tzvetan Todorov aveva messo questo concetto perfettamente a
fuoco con una folgorante intuizione che ha racchiuso in quella che, con
splendida sintesi filosofica e semantica, ha chiamato la “tentazione del
bene”, cioè la certezza di possedere il concetto di bene e di vederlo
incarnato in noi, collegata con l’assoluta determinazione di volerlo
imporre agli altri, anche con la forza, anche a costo di seminare
violenza e morte. E purtroppo, paradossalmente, la storia insegna che ha
fatto molto più male, e su più larga scala, la tentazione del bene che
quella del male.
Tutto questo non vuol dire che non
si deve tendere alla verità perché scetticamente la si ritiene irreale,
ma soltanto che la “verità rivelata” può avere senso, se uno ci crede,
soltanto nelle religioni, mentre in tutti gli altri casi si deve parlare
di “verità relativa”. Le uniche basi assolutamente inamovibili e non
negoziabili sono i valori dei quali si è convinti.
Quella della “verità relativa” può
apparire come una “diminutio”, ma invece è la chiave di volta per una
convivenza sociale che, almeno in democrazia, ha assoluta necessità di
un dibattito politico e, quindi, di un compromesso che non significa
complicità per turlupinare gli altri, bensì accettazione etica del fatto
che, pur sapendo che non esistono verità “mediane”, nessuno è il
depositario della verità in toto, che in ogni punto di vista ci può
essere una parte di ragione che deve essere colta in qualsiasi discorso.
E questa attività oggi è molto difficile perché quasi tutti i discorsi
sono stati sostituiti da poverissimi slogan. Anche Norberto Bobbio
sosteneva che «La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo
nette: mostra che tra la verità assoluta degli invasati e la non-verità
degli scettici c’è posto per le verità da sottoporsi a continua
revisione con la tecnica di addurre ragioni pro o contro».
Per rendere possibile tutto
questo, però, sono necessarie almeno due doti. La prima è costituita dal
fatto che la propria verità bisogna saperla esprimere con chiarezza ed
efficacia, rifuggendo dall’“ipse dixit”. La seconda è rendersi conto che
in ogni dibattito che si proponga di arrivare a un accordo migliorativo
è necessario rispettare tutti gli interlocutori; o, meglio, quelli che,
ovviamente, meritano rispetto. Anche in questo, purtroppo il
coronavirus sembra aver fatto più male che bene.
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