venerdì 16 settembre 2022

Opposizione e resistenza

OrbànProbabilmente qualcuno storcerà il naso, ma la cronaca politica di questi giorni mi fa sentire obbligato a tornare su quel discorso dell’antifascismo che infastidisce molti che affermano sia che è superato perché non c’è più il rischio di veder rinascere quella dittatura, sia in quanto nella propaganda elettorale si deve apparire più propositivi che difensivi e, quindi, che devono essere più importanti i programmi. Sono due obiezioni che meritano risposte separate, anche se mi portano alla medesima conclusione.

Cominciamo con il pericolo di un ritorno al fascismo che, ovviamente non vedo come recupero di camicie nere, fez, parate e ridicoli salti attraverso i cerchi di fuoco, ma come cancellazione di democrazia e di diritti, esattamente quello che è successo e sta succedendo in quell’Ungheria contro la quale il Parlamento dell’Unione Europea ha votato a larghissima maggioranza una mozione che condanna il governo di Budapest che «non è più una democrazia compiuta». Sulla mozione hanno votato contro i parlamentari italiani di Lega e FdI che, invece, sostengono il regime di Orbán, che, infatti, ha connotati molto vicini ai concetti fascisti di società.

A dire il vero, la cosa non dovrebbe sorprendere, anche per le sorridenti foto che vedono abbracciati Orbán dapprima con Matteo Salvini e poi con Giorgia Meloni, ma soprattutto in quanto la leader di Fratelli d’Italia ha da poco sostenuto che i suoi valori di riferimento possono essere riassunti nello slogan “Dio, Patria e Famiglia”. Viste le reazioni, si è affrettata a dire che si riferiva al motto mazziniano, ma è difficile pensare che, viste le sue convinzioni politiche mai rinnegate, la frase sia stata recepita dalla smorfiosa bocca di Mussolini, piuttosto che da quella seria e severa del fondatore della Giovane Italia. Anche perché mentre quello che è uno dei quattro padri della Patria li indicava come ideali importanti per tutti, per il capo del fascismo quelli erano indicazioni ad excludendum, nel senso che bisogna allontanare, se non discriminare e punire coloro che non venerano lo stesso Dio, non considerano la sovranità di una nazione come valore preminente sulla convivenza con altri Stati, si allontanano dal modello morale (da mos, costume, non da ethos, atteggiamento etico e valoriale) della famiglia.

A ulteriore dimostrazione che non di reminiscenze mazziniane si tratta, va ricordata la frase pronunciata, sempre da Giorgia Meloni, in un comizio a Genova: «Vogliamo dare alle donne il diritto di non abortire». Come se non si sapesse che la legge 192, al di là delle notevoli difficoltà che incontra dappertutto a essere applicata a causa dell’obiezione di coscienza di molti medici, nelle regioni amministrate dalla destra, è spesso soltanto un miraggio.

Se poi vogliamo allargare la considerazione all’intera alleanza di destra, conta ben poco il fatto che Berlusconi abbia subito affermato che lui e il suo partito resteranno fuori dal governo se sarà antieuropeo. Il vecchio di Arcore lo fa per tentare di raccattare i voti di quelli che stanno a destra, ma sopportano male gli estremismi di Meloni e Salvini. Tanto poi chi si ricorda le promesse elettorali? E cosa può costare sostenere che gli altri due della coalizione criticano alcuni atteggiamenti dell’Europa, ma non l’idea di base?

E veniamo alla preponderanza dei programmi sull’antifascismo. Al di là del fatto che difendere la nostra Costituzione mi sembra già un notevole programma positivo, provate a pensare al passato e chiedetevi se è stata più importante la bonifica delle paludi pontine, o l’esilio, il confino e la carcerazione dei dissidenti politici? Oppure se la sbandierata puntualità dei treni e la presunta efficienza statale è stata più rilevante rispetto alla cancellazione di tanti diritti, alla censura, alle leggi razziste più che razziali?

E chiedetevi anche quali programmi sarebbero davvero realizzati se la precedenza dovesse essere data alla tanto agognata “normalizzazione” della società italiana che piomberebbe indietro di almeno mezzo secolo. Pensate forse che difendere la sanità pubblica davanti al dilagare di quella privata non sia un programma positivo? O che opporsi a una flat tax che massacrerebbe i poveri per favorire i ricchi aumentando a dismisura le già fortissime disuguaglianze sociali, non sia un’impresa degna del massimo impegno?

Sono convinto che abbia ragione Letta: in questo momento storico o si è da una parte, o si è dalla parte opposta. E a questo punto – la storia del ventennio e soprattutto la svolta di Salerno dovrebbero insegnare anche questo – mi interessa ben poco la querelle su chi è davvero più di sinistra. Mi interessa molto di più la speranza di non essere costretti a sostituire la parola “opposizione” con “resistenza” e di poter di nuovo discuterne e azzuffarci sulla purezza dell'osservanza di sinistra anche dopo le elezioni del 25 fine settembre. Magari cominciando anche a fare qualcosa di quello che una volta era definito “di sinistra" e che aiuti davvero chi soffre, chi è anziano, chi è senza lavoro, chi il lavoro ce l’ha ma non uno stipendio degno e corrispondente, chi potrebbe e dovrebbe essere trattato con solidarietà e umanità perché, a prescindere dal colore della pelle, dalla lingua, dalla religione, dai gusti nel vestire e nel mangiare, è esattamente come noi: un essere umano che, tra l’altro, può avere anche lui, pur se non deve essere obbligatorio, un Dio, una Patria e una Famiglia.

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venerdì 2 settembre 2022

La censura e la scelta

0 fasci La pausa è stata davvero lunga. Dapprima qualche guaio con il Covid, poi una stupida, ma fastidiosissima frattura a una vertebra, a seguire la cancellazione – temporanea, assicurano – dei blog dai giornali del gruppo Gedi, e infine quella crosta di pigrizia, sottile ma sempre un po’ difficile da spezzare, che si crea quando si interrompe un’attività abituale. Ora, però, pur limitandomi a pubblicare le mie opinioni su un sito decisamente meno visibile di quello del Messaggero Veneto, e affidandomi per la diffusione soltanto alle mail, a Facebook, alle condivisioni e ai passaparola, mi sento obbligato a dire di nuovo qualcosa e a spingermi a farlo è la campagna elettorale in corso per una delle elezioni politiche più drammaticamente importanti della storia della Repubblica italiana.

Lo spunto mi viene dalle critiche che sono rivolte a Enrico Letta perché – dicono – ha impostato la sua propaganda soprattutto sul pericolo di un ritorno fascista e non su un programma propositivo. A prescindere dal fatto che – potranno convincere, o meno, potranno creare un clamore che attiri l’attenzione, o meno – alcune proposte di programma le ha scritte e dette, mi sembra importante soffermarmi sull’accusa di dare troppo peso all’antifascismo.

E, ovviamente, l’analisi non può prescindere dal valutare se il pericolo fascista può esistere, o meno. Dal mio punto di vista non ho dubbi nel rispondere affermativamente: la storia, le parole, le scelte e i programmi di Giorgia Meloni sono tutti elementi che non offrono certamente prospettive di maggiori spazi democratici, ma, invece, di limitazioni di diritti e di partecipazione nel nome di quella che oggi viene chiamata “governabilità” e che una volta, più coerentemente, si chiamava “decisionismo” e spesso era, ed è, l’anticamera di scelte impositive e non dibattute.

Ma a far paura non sono soltanto la Meloni, o Salvini che non ha nemmeno la furbizia della sua temporanea alleata nel far finta di non essere razzista ed eterofobo. Molto di più, a preoccupare, è il terreno di cultura che loro hanno abilmente curato e che oggi è putridamente fertile. Pensate a quanti si dichiarano palesemente nostalgici del fascismo e del nazismo, a quanti usano la rete per minacciare ed evocare stermini per coloro – oggi sembra fantastoria, ma purtroppo è realtà – che non sono considerati razzialmente accettabili: a coloro che offendono chiunque porti avanti idee di progresso sociale, predichi l’uguaglianza, anche sessuale, e la solidarietà; ai non pochi che ancora pensano che la violenza sia un sistema per “punire” chi non la pensa come loro; all’esposizione di fasci e svastiche; agli assalti di sedi sindacali.

È ben vero che i problemi economici, energetici, climatici, le tante altre cose che nel nostro Paese non vanno devono essere portate in primo piano perché devono essere risolti nel minor tempo possibile, ma provate a pensare se, ancora prima di risolvere i problemi, si dovesse rimettere in piedi – e non soltanto riaggiustare – un sistema davvero democratico; se si dovesse passare dall’opposizione alla resistenza.

Ancora una volta, però, la causa non può essere addebitata ad altri, ma soprattutto a noi stessi e alla scarsa importanza che abbiamo sempre attribuito alla sostanza del linguaggio, preferendo, invece, privilegiare la forma. È di questi giorni la notizia che nelle università inglesi sono stati compilati elenchi di letture da proibire, o quantomeno da sconsigliare nel nome del “politicamente corretto”. Per dare un’idea dell’assurdità della tesi, basterebbe notare che uno degli scritti messi all’indice è “Sogno di una notte di mezza estate”, di Shakespeare, perché conterrebbe tracce di classismo. Come se l’impianto sociale del Seicento potesse essere paragonato a quello di oggi.

Ma è assurdo scandalizzarsi perché anche nel nostro Paese, pur apparentemente in sedicesimo, si è fatta la medesima cosa e i risultati, a effetto domino, sono stati devastanti, proprio anche per la vita democratica italiana.

Il discorso potrebbe essere molto lungo, ma per capirci basta un esempio: quelli che una volta erano chiamati “spazzini”, a un certo punto hanno mutato il nome in un pomposo “operatori ecologici”: forma apparentemente più rispettosa, ma in realtà colpevolmente irridente perché per quei degnissimi lavoratori in realtà non cambiava nulla: né il tipo di lavoro, né il disagio, né lo stipendio, né il rispetto di quella parte della società che già non li apprezzava comunque per la loro fondamentale utilità nella vita di ogni comunità.

Per un lungo periodo è diventato di primaria importanza addolcire tutti i termini che potevano presentare delle asperità, o provocare qualche fastidio. E questa sorte l’abbiamo cecamente riservata, con piena approvazione e stupefatta gioia da parte della destra, anche alla parola “fascismo” e ai suoi derivati. Dapprima l’abbiamo fatta precedere dal prefisso “neo”, che lasciava pensare a qualche novità migliorativa, mentre in realtà si riferiva soltanto all’età dei nuovi adepti delle teorie mussoliniane. Poi sono stati chiamati “nostalgici”, come se rimpiangessero soltanto “i bei tempi andati” della gioventù e non gli orrori che il fascismo aveva creato; poi, ancora, si sono appropriati del termine “conservatori”, come se di quella che non è un’opinione politica, ma un reato, ci fosse davvero qualcosa da conservare.

E, così non parlando più di fascismo, se ne è appannata la memoria, ci si è dimenticati che il nostro Paese e la nostra Costituzione sono nati proprio da una lotta cruenta e piena di lutti per liberarsi dalla dittatura fascista, che molti degli epigoni della Repubblica di Salò sono stati i fondatori di quel Movimento Sociale Italiano la cui fiamma è ancora «orgogliosamente difesa» nel simbolo di Fratelli d’Italia da Giorgia Meloni.

Quasi sicuramente Enrico Letta non riuscirà a suscitare le emozioni e il trasporto che, invece riescono a creare altri leader politici, ma lui e coloro che hanno deciso di allearsi con il suo partito, hanno ben presente i rischi che la nostra democrazia sta correndo in questo periodo e la loro scelta di non censurare la paura di precipitare rovinosamente nel passato, com’è già accaduto ad altri Paesi europei, per dover poi ricostruire tutto ripartendo da cumuli di macerie, è del tutto condivisibile. Perché illudersi che con qualsiasi risultato elettorale la nostra democrazia rimarrebbe inalterata sarebbe una nuova ipocrisia, grave almeno come la scelta di interpretare le parole nella loro forma e non nella loro sostanza.

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lunedì 23 maggio 2022

La dannazione della memoria

FontaRiccardi La scelta è limitata: o si tratta di scarsa conoscenza dell’argomento di cui vuole parlare, o di incapacità di coordinare dati e fatti di cui tutti sono a conoscenza, oppure di malafede. Per una persona che ha nel suo curriculum può vantare cariche di sindaco, di presidente della provincia e di presidente della regione, di deputato e di senatore, le prime due ipotesi appaiono francamente improbabili.

Eppure Pietro Fontanini riesce a dirlo con consumata abilità nel mantenere una faccia imperturbabile mentre afferma che la crisi della sanità, non più negabile nemmeno da parte di chi finora ha fatto finta di non vederla, dipende dalla miopia politica e dagli errori dei rettori dell’Università di Udine Furio Honsell, Cristiana Compagno e Alberto Felice De Toni.

Al di là del fatto che circoscrivere la crisi generale della sanità italiana alla sola realtà di Udine puzza di interesse privato lontano un miglio, è impossibile pensare che Fontanini non sappia che la carenza di personale medico e infermieristico non è causata da decisioni dell’ateneo, ma dai numeri imposti, sia nella definizione dei numeri chiusi per le facoltà, sia nella quantità di personale da assumere nei vari ospedali da decisioni che derivano dal governo e dalle giunte regionali.

E, allora, è possibile non domandarsi come mai il sindaco di Udine, che finalmente esce allo scoperto denunciando i guasti di una sanità impoverita dalla politica, sia rimasto finora assolutamente zitto, mentre i partiti a cui egli stesso fa riferimento, sia a livello regionale, sia a livello nazionale, continuano a sfornare ipotesi di lavoro politico che privilegiano la sanità privata rispetto a quella pubblica? E come si fa a non chiedersi come la sua intemerata caccia a coloro che hanno ridotto così la sanità, non sia partita quando si è cominciato a parlare di “aziende” sanitarie, lasciando chiaramente intendere che, come ogni altra azienda che si rispetti, anche gli ospedali devono produrre utili? E chissà quale impedimento non ci ha permesso di sentire le sue obiezioni quando si è deciso che i direttori sanitari sarebbero stato premiati non in base a qualche parametro di efficacia delle cure, ma soltanto in base alle colonne dei numeri del dare e avere dei bilanci ospedalieri?

Il fatto è che il prossimo anno a Udine si vota per il consiglio comunale ed è buona norma cominciare la propria campagna elettorale con buon anticipo. Ma ha senso cominciare in una maniera tanto sgangherata?

Teoricamente non lo si dovrebbe fare, ma ormai due delle basi sulle quali si poggia una propaganda elettorale sono la distrazione e la scarsa memoria degli elettori.

Per quanto riguarda la distrazione, si può leggere soltanto il titolo di giornale con le accuse senza poi leggere l’articolo che segue e che contiene le risposte degli accusati.

La scarsa memoria, poi, può giocare su due campi: per primo, il fatto che molti non si ricordano quello che è stato detto, o è stato fatto – e da chi – nei mesi e negli anni precedenti; per secondo, la realtà che delle inconsistenti sparate odierne di Fontanini tra una decina di mesi non si ricorderà più nessuno, anche se resterà viva, in chi segue gli avvenimenti con un po’ di distrazione, la sensazione che quel sindaco che si ricandida un giorno aveva attaccato qualcuno su qualcosa che riguardava la salute dei cittadini. Era un attacco giusto? Gli accusati hanno saputo difendersi? Chi se lo ricorda. E sicuramente sarà stata una pura combinazione il fatto che lui attacchi tre rettori, per due dei quali a sinistra in questi tempi si sta discutendo se proporre loro una candidatura a sindaco.

Non c’è niente da fare: continuiamo a dare la colpa delle nostre disgrazie a chi ci governa o ci amministra e non indichiamo mai i veri colpevoli che siamo noi, troppo spesso incapaci di ricordare e, quindi, di scegliere.

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lunedì 16 maggio 2022

Ricordando don Pierluigi

Di Piazza Anche nel suo ultimo atto don Pierluigi Di Piazza è rimasto coerente con il modo in cui ha sempre vissuto: restio ad apparire, fino a quando la sua presenza non appariva necessaria per la comunità di cui faceva parte, o fino al momento in cui diventava, invece, una testimonianza utile per sostenere i suoi principi, le realtà in cui credeva, per dare concretezza a quelle parole che erano sempre inestricabilmente connesse a quelle che amava definire le sue bussole etiche: i Vangeli, nel campo della fede, e la Costituzione italiana, in quello laico. Senza mai separarle troppo, perché, in definitiva, indicano lo stesso punto cardinale.
Se n’è andato così: tenendo nascosta la malattia che lo ha aggredito inaspettatamente e decidendosi a farla vedere agli altri soltanto quando, il 23 aprile, in occasione dei trent’anni della morte di padre Ernesto Balducci, cui è intitolato il Centro di accoglienza e promozione culturale di Zugliano, non se l’è sentita di essere assente al convegno che da tempo aveva organizzato con la presenza di Vito Mancuso. E poi, a quel punto, pur provatissimo, ha voluto celebrare le due successive messe domenicali a Zugliano.

Del resto i nomi di Pierluigi Di Piazza e del Centro Balducci sono inestricabilmente uniti dal febbraio 1989, da quando, cioè, il parroco da poco arrivato a Zugliano aveva deciso di aprire una parte della sua abitazione agli esuli che avevano bisogno di un tetto, ragionando su questa decisione con i suoi parrocchiani e trovando in loro sostegno e partecipazione decisivi per lo sviluppo del centro stesso che poi è sempre più cresciuto fino ad arrivare alle dimensioni odierne, capaci di accogliere una cinquantina di persone.

Una svolta di estrema importanza si è verificata quando don Pierluigi ha percepito e sostenuto con forza l’idea che la solidarietà senza crescita culturale del tessuto sociale in cui è praticata è destinata ad appassire in breve. Da quel momento ha cominciato a offrire in chiesa, dapprima ai parrocchiani e poi a tantissimi che arrivavano anche da lontano, una serie di interventi culturali, dibattiti, presentazioni di libri con il dichiarato intento di far discutere e ragionare e con la convinzione che la laicità di cui erano intrisi i suoi appuntamenti, pur se non sempre vista con piacere dalla religione, non era assolutamente di intralcio alla fede; anzi.

Ed è su questa strada che le iniziative sono cresciute e si sono moltiplicate fino a ottenere l’ospitalità dell’auditorium di Pozzuolo e, infine, trovare sede fissa nella nuova struttura del Centro Balducci, ma anche arrivando ogni anno a riempire il teatro Giovanni da Udine nella serata inaugurale del convegno di settembre che ha fatto arrivare in Friuli un’infinita serie di personalità di primo piano nel campo del pensiero, dando vita a giornate di straordinaria intensità spirituale, culturale e sociale, che hanno attratto tantissime persone, anche se non erano abituali frequentatori delle chiese, ma che sentivano comunque che in quei luoghi, in quelle occasioni, si stava cercando il bene nel senso più vero del termine. E che la ricerca del bene – che arrivi da Dio, ma sempre con il tramite dagli uomini – non può non essere la più alta missione di ogni essere umano su questa terra.

Questa sensazione di impegno e di utilità e la sua umanità sono state talmente forti che praticamente tutti coloro che sono arrivati una volta a contatto con don Pierluigi poi sono tornati; e non certamente per guadagno, tanto che molti di loro hanno rifiutato anche il rimborso spese per il viaggio. E questa tensione etica è stata trasfusa da don Pierluigi pure in altre iniziative, come la “Lettera di Natale” che ogni anno un gruppo di sacerdoti scrive e rende pubblica per affrontare con fede e apertura i maggiori problemi e dilemmi che l’anno appena trascorso porta in primo piano e che quello che sta per cominciare riceve in pesante eredità. Ma la stessa tensione appariva anche nei profondi commenti ai Vangeli che ormai da circa vent’anni appaiono settimanalmente sulle pagine di questo giornale.

Ora don Pierluigi non c’è più e dire che per il Centro Balducci nulla sarà come prima non è una frase fatta, ma una incontrovertibile verità, anche se lui ha fatto tutto il possibile per fare in modo che quella sua creatura riesca ad andare avanti con le proprie gambe e con l’impegno dei volontari, delle suore, dei tanti amici. Ma nulla sarà come prima nemmeno per i suoi parrocchiani e tantissimi che nelle sue parole trovavano conforto e spunti per ragionare, per discutere, per crescere, seguendo comunque una strada maestra costituita dai Vangeli, che non necessariamente deve essere religiosa, ma comunque non può non essere aperta ai confronti sulle nuove realtà che il passare del tempo ci mette davanti e sulle quali non ci è consentito di esimerci dal ragionare puntando al bene dell’umanità e soprattutto degli ultimi, dei più deboli, di coloro che sono cacciati da altri.

Don Pierluigi se n’è andato, ma il suo insegnamento resta ancora qui, assolutamente legato a tutti noi.

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sabato 23 aprile 2022

Invasioni e Resistenza

ucresistQuesto non sarà certamente il primo 25 aprile che mi vedrà andare in piazza con il timore di dover sentire discorsi che tentano di negare la realtà, i valori e i meriti della Resistenza. Magari da parte di sindaci i quali sembrano essere convinti che questa giornata, come il 27 gennaio, Giorno della Memoria per ricordare le vittime della Shoah, sia stata create soltanto per poter dire che «D’accordo: i fascisti e i nazisti non si sono comportati molto bene; ma pensate all’orrore delle foibe». Come se due orrori potessero elidersi a vicenda, mentre, in realtà, si assommano nel dimostrare che sono troppi gli umani a essere tali soltanto di nome non di fatto.

Questa volta, però, andrò in piazza con la paura – che spero non diventi realtà – non di udire frasi inaccettabili da persone che politicamente e socialmente mi sono lontanissime, ma anche da una parte dalla quale mai me lo sarei aspettato, cioè da chi rappresenterà l’Anpi il cui presidente nazionale, Gianfranco Pagliarulo, ha detto, tra l’altro, che «Noi pensiamo sia giusto definire la lotta armata degli ucraini contro l’esercito russo come una lotta di resistenza: formalmente è statuito in base alle Nazioni Unite. Detto questo sarebbe sbagliato identificare la resistenza italiana con quella ucraina». In definitiva Pagliarulo accetta di definire “resistenza” quella ucraina perché è l’Onu a stabilirlo, ma non le dà lo stesso valore di quella che ha permesso all’Italia di liberarsi dai nazifascisti e di riscattarsi.

È una presa di posizione inaccettabile non soltanto perché ci si trova davanti a un’invasione che eccede i già inaccettabili obbiettivi di quella che è stata definita una “operazione speciale” per difendere i russofoni di due regioni di confine, ma anche in quanto le parole di Pagliarulo lasciano trasparire il pensiero che possano esserci resistenze “buone” e resistenze “cattive”, considerazione che porterebbe inevitabilmente a ragionare su invasioni “giustificabili” e invasioni “ingiustificabili”, mentre nessuna invasione militare di un altro Stato sovrano può mai trovare un appoggio eticamente sostenibile. Neanche se lo Stato invaso non è neppure lontanamente democratico.

La resistenza, invece, deve essere sempre considerata legittima anche quando non ci si trova davanti a invasioni di territori, ma invasioni di diritti che vengono cancellati: quelli di vita, di libertà, di autodeterminazione. Un esempio palmare è costituito dall’Afghanistan che nei secoli è stato invaso da inglesi, sovietici e statunitensi, ma anche, dal di dentro, dai talebani. E sempre vi si è sviluppata una resistenza interna degna di ogni rispetto.

Del resto, se esistessero davvero resistenze “buone” e “cattive” e invasioni “giustificabili” e “ingiustificabili”, si finirebbe per accettare che il diritto alla libertà e all’autodeterminazione possa esistere fino a quando a qualcuno, almeno teoricamente più forte, questa realtà non dia fastidio.

Nel timore di sentire parole inappropriate, magari tirate fuori controvoglia per difendere posizioni altrui, ancora una volta ci si sente in dovere di ringraziare il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha pronunciato parole di una chiarezza esemplare e inattaccabile, affermando che l’Ucraina è come l’Italia durante la Resistenza e che volere la pace non significa arrendersi alla prepotenza. Mattarella sottolinea che quella della Liberazione «rappresenta la data fondativa della nostra democrazia, oltre che della ricomposizione dell’unità nazionale. Una data in cui il popolo e le Forze Alleate liberarono la nostra Patria dal giogo imposto dal nazifascismo» e che «nella ricorrenza della data che mise fine alle ostilità sul territorio italiano, viene un appello alla pace. Alla pace, non all’arrendersi di fronte alla prepotenza». E anche quella volta, ricorda, «A pagare furono le popolazioni civili, contro le quali gli aggressori si scatenarono, in un tragico e impressionante numero di episodi sanguinosi, con la brutalità delle rappresaglie, con una crudele violenza contro l’umanità, con crimini incancellabili dal registro della storia».

Insomma Mattarella ha ricordato che la Resistenza ci ha lasciato in eredità il non facile compito di dover trasmettere alle nuove generazioni la necessità di rifiutare qualsiasi sopraffazione totalitaria, qualsiasi razzismo e discriminazione, e quella di salvaguardare strenuamente la salute della democrazia che non è un bene indeperibile ed eterno, ma va salvata e curata in ogni giornata in cui siamo su questa terra. Come vanno salvaguardate le regole della comunità internazionale oggi devastate da Putin che, ove potesse continuare impunemente nei tentativi di realizzazione dei suoi incubi da megalomane, potrebbe dare il via a nuove avventure belliche. Ed è anche per questo che la resistenza ucraina ha tutti i diritti di essere aiutata, come noi abbiamo il dovere di aiutarla.

È ovvio che non si può sperare di risolve una situazione creata con la forza applicando soltanto risposte basate sulla forza: serve sedersi a un tavolo per arrivare ad accordi che non si basino soltanto sulla totale sconfitta di una delle due parti in campo, ma non si possono dimenticare due cose: che, se per invadere un altro Paese si può essere da soli, ma per trattare occorre necessariamente che siano coinvolti tutti, anche quelli che oggi rifiutano di trattare perché si sentono più forti, e che nessuno può cedere i diritti altrui.

Tutto questo tenendo sempre presente che le invasioni possono essere diverse, ma la resistenza è sempre una sola. E che spesso, purtroppo, i suoi valori non sono necessariamente di tutti.

Buon 25 aprile.

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mercoledì 20 aprile 2022

Una sola strada tra i dubbi

GuerraQuando, un po’ più di tredici anni fa, ho pensato a quale titolo dare a questo blog, ho scelto “Eppure…” perché ero convinto che fossero ben poche le affermazioni, al di là di quelle proposte dalle scienze esatte, che potessero essere esenti dall’essere messe in dubbio con un «Sembra proprio così; eppure…».

Oggi, tra le tante altre cose che la guerra ha mandato in frantumi ci sono anche alcune certezze che ritenevo granitiche e che, invece, alla prova dei fatti, sembrano essersi sbriciolate probabilmente perché ci siamo dimostrati del tutto impreparati ad affrontare gli infiniti dilemmi, pratici ed etici, che questa drammatica realtà ci pone quotidianamente davanti agli occhi.

Può essere che, nei quasi settant’anni in cui abbiamo guardato alle guerre nel mondo come a realtà che in definitiva non ci toccavano direttamente, abbiamo perduto quella sensibilità che era ben presente, invece, in coloro che avevano vissuto uno, o entrambi i conflitti mondiali. O, forse, dipende dal fatto che l’economia è diventata talmente pervasiva da indurci, più o meno consciamente, a mettere in secondo piano ogni altro aspetto sociale, ma sta di fatto che ci siamo trovati del tutto disarmati davanti alla necessità di far concludere al più presto questa guerra contrapposta all’altrettanto importante necessità di salvaguardare gli aggrediti. Perché tra le poche cose ancora certe c’è il fatto che non ci sono dubbi nell’individuare l’aggressore (la Russia) e l’aggredito (l’Ucraina). E se qualcuno dubita di questo, vorrei che spiegasse come mai gli scontri, le distruzioni e le morti sono concentrati praticamente nella loro totalità in Ucraina.

Forse la prima idea che, almeno in me, è andata in frantumi è quella del pacifismo assoluto perché mi sono reso nuovamente conto che la storia insegna che una guerra la si combatte in due, ma a dichiararla è quasi sempre uno solo, anche se preferisce chiamarla “operazione speciale”. Dunque non deve essere messo eventualmente in discussione il concetto di “ripudio” della guerra, ma quello di diritto alla difesa; anzi, di quella “legittima difesa” che è accettata da tutte le leggi, religiose o laiche che siano. Ed è la stessa Costituzione, nell’articolo 11, a dire che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», lasciando, come sottinteso evidente, il fatto che la difesa della libertà, propria o altrui, dà diritto alla resistenza, a quella stessa Resistenza che ha permesso la nascita dell’Italia repubblicana e che nessuno può proibire all’Ucraina, determinata a difendere la propria indipendenza e libertà. Anzi, visto che nell’articolo 10 si tende a attribuire a tutti gli esseri umani del mondo i medesimi diritti goduti dai cittadini italiani, appare legittimo anche l’aiuto ai combattenti ucraini.

Se la resistenza non fosse ammessa, ci si troverebbe, infatti, davanti all’impraticabile bivio tra la servitù e il martirio, un martirio che ognuno può scegliere per sé, ma non certamente per gli altri.

Il problema, insomma, non mi sembra quello di ribadire che la guerra debba sparire dalla faccia della terra, un concetto sul quale, a parole, sono tutti d’accordo. Il problema è, invece, quello di non togliere l’appoggio agli aggrediti, anche perché, se lo si facesse, automaticamente si ridarebbe fiato alla legge del più forte, al predominio della violenza sulla ragione, e si rinnegherebbero secoli di lento, faticoso, discontinuo progresso proprio sulla strada di quella pace che si può realizzare soltanto con il dialogo continuo tra le parti.

Tutto questo nega, con chiara evidenza, ogni equidistanza che rifiuti qualsiasi presa di posizione perpetuando, così, il senso di impunità di cui, in tal caso, godrebbe ogni aggressore. Anzi, la chiave è esattamente quella opposta che punta a indicare chiaramente le colpe e a bloccare, prima ancora che punire, i colpevoli.

Per seguire questa strada sono state immaginate e realizzate le organizzazioni sovrannazionali tra le quali spiccano soprattutto l’ONU e l’Unione Europea. Non sono perfette, d’accordo; anzi! La prima è schiava di quel diritto di veto che tocca a cinque Nazioni (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Unione Sovietica diventata poi Russia, e Cina) e che permette al prepotente di continuare a essere tale senza che gli altri quasi neppure possano disapprovarlo. La seconda, invece, anche se ha cancellato la realtà della guerra al suo interno da decenni, è paralizzata da quella richiesta di unanimismo che troppo spesso blocca qualsiasi iniziativa di giustizia.

Perché anche in questo è la parola giustizia a essere determinante: finché non sarà possibile applicare la giustizia anche nelle vicende tra gli Stati, ci sarà sempre qualcuno che potrà decidere di scatenare una guerra e, a quel punto, ogni tipo di pacifismo non riuscirà a risparmiare neppure una vittima; non riuscirà a salvare neppure un diritto alla libertà e all’autodeterminazione.

Come tra gli umani, anche per le Nazioni l’unica strada resta quella della giustizia. Un’utopia? Certamente, ma le utopie esistono proprio perché possano tramutarsi in realtà.

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giovedì 7 aprile 2022

Libertà di espressione e truffa

UcrainaTutti sappiamo che la guerra è una specie di fiera campionaria di tutte le crudeltà dell’uomo, delle sue spietatezze, dei suoi sadismi. Ma, ringraziando Dio, nessun essere umano, almeno vagamente degno di tal nome, saprà mai abituarsi alle sue disumanità.

Tutti sappiamo – scusate il luogo comune – che una delle prime vittime della guerra è la verità che viene sommersa dalla propaganda. Ma quando si esagera, quando ci si nascondono anche i dati di fatto incontrovertibili, più che di disumanità, si tratta di complicità.

Le polemiche sulla strage di Bucha – e quelle che usciranno sicuramente sulle altre stragi che indubbiamente sono state commesse in altri paesi dell’Ucraina – lasciano sgomenti perché certe prese di posizione e certe dichiarazioni sono francamente oscene. E fa rabbrividire che uno dei comunicati emessi in questo senso arrivi dalla presidenza nazionale dell’Anpi messa giustamente sotto accusa da molte delle sezioni regionali e locali.

E fa venire il voltastomaco assistere a comparsate televisive di personaggi che negano ogni evidenza sulle responsabilità di Putin, proprio come non molti mesi fa negavano l’esistenza del Covid e l’efficacia dei vaccini.

Un voltastomaco che investe colui che dice certe cose, ma che raggiunge il livello del vomito di fronte a certi miei colleghi che interpretano la loro professione giornalistica non come l’impegno a tentare di riportare i fatti a coloro che leggono, o ascoltano, ma come l’impegno ad aumentare la diffusione e lo share a qualsiasi costo, anche massacrando scientemente la realtà.

Perché, anche se si dice che non c’è mai certezza di quello che accade in guerra, invece qualche certezza sicuramente c’è. A invadere l’Ucraina, per esempio, è stato Putin, non certamente Zelensky. Putin aveva paura della Nato? Quindi, per questi signori, la guerra preventiva non è quella mostruosità che è sempre stata, a prescindere da chi l’ha scatenata? Putin è intervenuto per difendere i russofoni di un paio di regioni orientali dell’Ucraina? Ammesso che questi abbiano sofferto di discriminazioni e soprusi gravissimi, o addirittura estremi come la morte, perché non si è fermato dopo aver “liberato” quelle zone?

E, proseguendo, chi è che sta bombardando le città che notoriamente sono più affollate da civili che da militari? Forse è il caso di non dimenticare cosa ha fatto Putin in Cecenia dove ha fatto radere al suolo Gnozny causando alcune decine di migliaia di morti tra i cittadini di quella capitale che è stata classificata come la città maggiormente distrutta al mondo. O forse si vuol dire che i ceceni andavano puniti perché avevano invaso la Cecenia?

La libertà di espressione è sacra e garantita dalla Costituzione, ma la parola “espressione” non deve essere confusa con “menzogna” o “truffa”.

La guerra, come si diceva, tende a uccidere la verità, ma produce anche l’obbligo di ragionare su quello che accade e di prendere posizione anche su realtà che si ritenevano indiscutibili. Un merito di Zelensky, per esempio, è quello di aver riportato in primo piano uno scandalo che tutti conosciamo da sempre, ma sul quale, forse per malriposto rispetto, abbiamo sempre taciuto: quello del Consiglio di sicurezza dell’ONU nel quale le quattro grandi potenze vincitrici della seconda guerra mondiale più la Cina hanno diritto di veto e, quindi, possono commettere qualunque nefandezza e poi bloccare qualsiasi condanna nei propri confronti.

I fatti dell’Ucraina hanno ancora una volta messo in rilievo che l’ONU attuale non soltanto è inutile, ma può diventare addirittura dannoso. Se non è possibile riformarlo dall’interno, allora forse è meglio cancellarlo e ricostruirlo ex novo con regole e parametri più efficaci. Del resto, è quello che è già successo alla fine della guerra con la nascita dell’ONU dopo che i fatti avevano dimostrato l’incapacità della Società delle Nazioni di prevenire le aggressioni delle potenze dell’Asse: Germania, Italia e Giappone.

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martedì 15 marzo 2022

Coerenza nella vergogna

San Daniele Quanto a coerenza non c’è proprio nulla da dire: il signor Pietro Valent, sindaco di San Daniele, aveva comportamenti vergognosi e democraticamente inaccettabili prima e continua ad averli ancora adesso. Non riusciva a concepire il significato della parola vergogna prima, e continua a non concepirlo ancora adesso.

Verso metà gennaio, approfittando della sua posizione a capo della giunta comunale, aveva rabbiosamente deciso di revocare il patrocinio, il partenariato e aveva chiesto «l’immediata rimozione dello Stemma comunale» da tutto il materiale digitale dell’Associazione per la Costituzione che da anni organizza un “Festival Costituzione” al quale hanno partecipato i maggiori costituzionalisti del nostro Paese, oltre a tantissimi altri personaggi di primo piano che sono venuti a San Daniele?

La colpa dell’Associazione? È presto detto: aveva emesso un comunicato nel quale, proprio pensando alla Carta fondamentale della nostra Repubblica, metteva in debito rilievo il fatto che Silvio Berlusconi non avrebbe dovuto candidarsi alla Presidenza della Repubblica perché in realtà, come affermavano anche tanti costituzionalisti, la candidatura di un simile personaggio sarebbe stata «un’offesa alla dignità della repubblica e a milioni di cittadini italiani».

Adesso il signor Valent scrive che «siamo a comunicarvi che coerentemente con la predetta revoca risulta non concedibile l’uso della sala antica della Biblioteca Guarneriana per le date da voi richieste. Si comunica, inoltre, che anche la richiesta di uso immobile comunale come sede di associazione non è al momento accoglibile per le medesime motivazioni con le quali abbiamo comunicato la revoca del patrocinio e partenariato». Nel comunicato è evidentemente saltata qualche parolina, ma il senso è chiaro. Poi, ineffabilmente ipocrita, conclude con «Cordiali saluti».

Insomma, pur nei drammatici giorni in cui si segue con ansia crescente la strage che sta insanguinando l’Ucraina, per lui resta in primo piano la sua cupidigia di servilismo nei confronti di Berlusconi. E, quindi, Valent si impegna a tentare di rendere difficile lo svolgimento del Festival dedicato alla Costituzione, parola che, evidentemente, gli causa un’orticaria simile a quella che provocava a Berlusconi e, non contento, dà anche lo sfratto all’Associazione dalla sua sede.

Paolo Mocchi, presidente dell’Associazione, risponde ancora una volta con la consueta signorilità e si limita a comunicare a tutti che comunque «ci vediamo il 27, 28, 29 maggio». Ovviamente non annuncia ancora le sedi in cui il festival si svolgerà, ma c’è sicuramente tempo, anche perché dalla stessa San Daniele, ma anche e soprattutto da molti altri comuni sono immediatamente giunte tante offerte di ospitalità.

Io non riesco a essere signorile come Paolo e, quindi, esprimo alcuni auspici. Per prima cosa che nella scelta dei locali per gli eventi del festival si tenga conto che quest’anno saranno sicuramente ancora di più coloro che vorranno testimoniare la loro indignazione contro un personaggio da dimenticare.

Il secondo che finalmente si ritrovi la strada delle manifestazioni pubbliche di protesta per subissare di fischi un personaggio che dovrebbe rappresentare e tutelare la libertà di pensiero di tutti i cittadini di San Daniele, mentre invece pensa a difendere soltanto il suo signore – ammesso che sappia quello che sta succedendo e che lo apprezzi – e se stesso.

Il terzo è che quando i sandanielesi torneranno a votare si ricordino di questa schifezza immonda e antidemocratica, da vero e proprio podestà. Ho grande rispetto per la democrazia e, quindi, non intendo assolutamente incitare a non votare a destra, ma non ho alcun rispetto per gli autoritarismi e quindi li invito a non votare mai più per il signor Valent. Poi sia la destra a decidere se sceglierlo ancora come proprio rappresentante.

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venerdì 11 marzo 2022

La guerra non è mai soltanto altrui

000Qualche giorno fa ho tentato di elaborare un ragionamento sulla liceità della fornitura di armi a un Paese aggredito da un altro, appoggiandomi agli articoli 10 e 11 della nostra Costituzione e arrivando alla conclusione che, se riconosciamo a tutti gli esseri umani, di qualunque nazionalità essi siano, gli stessi diritti di cui dovremmo godere noi italiani, e se noi ripudiamo la guerra come mezzo di offesa, ma la ammettiamo come legittima difesa davanti a un’aggressione e a un’invasione, allora anche gli altri hanno gli stessi diritti e sta a noi, ove possibile, dare loro i mezzi per renderli reali.

D’altro canto, sarebbe illogico il contrario visto che la nostra stessa Repubblica, con la sua Costituzione, è nata da una Resistenza concretizzatasi contro un invasore di territori, come l’esercito nazista, e un invasore di diritti, come il fascismo. E anche in Ucraina c’è questa doppia invasione, anche se, in questo caso, territori e diritti sono invasi e calpestati sempre dallo stesso soggetto: da Putin e dalle sue forze.

Ma ci sono anche altre considerazioni che, a mio parere, giustificano l’attuale atteggiamento di quello che per comodità, più che per convinzione, continuiamo a chiamare “l’Occidente”.

La prima riguarda l’impossibilità del pacifismo equidistante, soprattutto perché equidistante non può essere: nel momento in cui, in uno scontro disequilibrato, non si prende posizione per nessuno dei due contendenti, inevitabilmente si finisce per favorire colui che già in partenza è il più forte.

La seconda riguarda la tesi che Zelensky, invece di incitare i propri connazionali a resistere, dovrebbe puntare a farli arrendere per risparmiare loro l’orrore crescente della guerra. Questa è una tesi sulla quale a livello filosofico si potrebbe anche discutere, ma che nella realtà ha poco senso in quanto la scelta se rinunciare, senza opporsi, alla propria libertà e indipendenza non può che spettare a coloro che alla libertà e indipendenza dovrebbero rinunciare.

Terzo punto: le conseguenze economiche che la prosecuzione della guerra renderà, per tutto il mondo, ancora più pesanti di quelle che già ci sono oggi. È evidente che l’argomento riveste una notevole importanza in quanto una crisi economica – lo sappiamo benissimo – va a incidere più pesantemente sulla vita dei poveri che dei ricchi, erodendo le disponibilità economiche specialmente attraverso la crescita dell’inflazione, ma anche, se non soprattutto, con la cancellazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Però anche in questo le considerazioni economiche non possono prescindere dai sentimenti di chi la guerra la sta subendo. Immanuel Kant ha scritto: «Tutto ha un prezzo, o una dignità. Ha un prezzo ciò al cui posto può essere messo anche qualcos’altro, di equivalente. Per contro ciò che si innalza al di sopra di ogni prezzo, e per ciò non comporta equivalenti, ha una dignità». E la scelta se applicare a se stessi un prezzo, o una dignità, non può che spettare a chi si trova nell’urgenza diretta di decidere se rischiare, o meno, la propria vita.

Ancora meno supporti etici possono avere altre giustificazioni che tenderebbero a limitare i diritti a determinate categorie di persone: per capirci, a determinare l’esistenza, o meno, dei diritti di una persona non può essere la distanza da noi, né l’età, né la religione, né il credo politico e neppure altre discriminazioni, perché un diritto è tale se riguarda tutte le persone; altrimenti diventa soltanto un privilegio di alcuni, pochi o tanti che siano.

Sono sicuramente concetti non semplici da accettare e che possono dare il via a infinite discussioni, ma già una cosa è estremamente chiara: parlare di pace in tempo di pace è estremamente più facile che parlarne in tempo di guerra. E che parlarne lontano dal conflitto è più semplice che se ci si sente coinvolti.

E probabilmente è proprio qui la chiave per sperare in un futuro di pace e non di guerra: bisogna rendersi conto che parlare, ragionare e discutere resta sempre obbligatorio, ma non deve diventare mai un alibi per non operare e che la fatica delle dissuasioni diplomatiche o sanzionatorie va accettata e fatta ben prima della criticità che porta allo scoppio di un conflitto. In realtà, insomma, è dimostrata ancora una volta di più l’assurdità del “Si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace, prepara la guerra) dello scrittore latino Vegezio. In realtà bisognerebbe rendersi conto sempre che “Si vis pacem, para pacem” (se vuoi la pace, prepara la pace).

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venerdì 4 marzo 2022

Il dilemma delle armi

Ucr Poche cose come la guerra possono mettere in crisi le nostre coscienze facendo scattare una specie di corto circuito nei nostri cervelli e nei nostri cuori. E questo accade anche quando i conflitti sembrano non riguardarci direttamente, perché dentro di noi sappiamo che ogni ingiustizia non può non riguardare ogni essere umano. E, infatti, molti di noi sono entrati in crisi con le “missioni di pace” che talvolta non sono rimaste tali. Così come oggi non ci si può non interrogare davanti alla decisione di mandare armi all’Ucraina, aggredita e invasa dalle truppe di Putin.

Così ci troviamo tra due pensieri, in apparenza diametralmente opposti, che ci mettono in crisi. Da una parte c’è il «L’Italia non intende voltarsi dall’altra parte» di Mario Draghi che vuole giustificare l’invio di armi che soltanto l’ipocrita bizantinismo della nostra politica può tentare di dividere tra “letali” e “non letali”. Dall’altra, invece, risuona la frase di Gino Strada: «Non esiste alcuna guerra giusta. L’unica cosa da fare è abolire la guerra», che implicitamente condanna anche ogni uso delle armi e, quindi, pure il loro invio a qualsiasi parte belligerante.

Cioè, davanti a una guerra è lecito accettare, senza muovere un dito, che il più forte soggioghi il più debole? Oppure è lecito ergersi a giudici e tentare di aiutare chi riteniamo sia dalla parte del giusto?

Nella ricerca, probabilmente senza speranza, di poter scegliere con chiarezza quale strada intraprendere davanti a un bivio così drammatico, forse può venirci in aiuto il faro della nostra Costituzione con due dei suoi articoli. Nell’articolo 11 dice, tra l’altro: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Nel 10 sostiene che «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica».

Se da una parte, insomma, si ripudia la guerra come strumento di offesa, contemporaneamente la si considera lecita come legittima difesa davanti a un’aggressione. Dall’altra parte si punta a dare a ogni essere umano, anche se vive fuori dal nostro Paese, gli stessi diritti che spettano agli italiani. Se, quindi, si può argomentare che ogni italiano ha il diritto di difendersi da un’ingiusta aggressione, questa condizione deve essere assicurata, nei modi possibili, a chiunque sia aggredito.

Sono d’accordo che ogni ragionamento indotto può essere controbattuto con forza ed efficacia, ma già il fatto di ragionare sulla contraddizione di queste convinzioni può far capire che non è accettabile che il dibattito non ci sia, o che prenda vita soltanto a frittata già fatta, a guerra già scoppiata.

Il tema della guerra, delle ingiustizie, dell’abitudine a delegare alla forza la risoluzione delle controverse dovrebbero essere materia di ragionamento e dibattito in ogni giornata della nostra vita, proprio per prevenire i disastri che troppo spesso vediamo scatenarsi proprio sui più deboli, sugli innocenti, sugli inermi, tanto che ormai mediamente su cento morti in guerra più di novanta sono le vittime civili e i bambini.

Invece siamo diventati abilissimi nel far finta di niente, nel voltarci dall’altra parte quando si verificano fatti che andrebbero condannati esplicitamente e senza mezze misure da qualunque parte accadano e che, invece, vengono lasciati passare senza reazioni, tanto da far credere a chi commette soprusi, o di essere nel lecito, o di essere tanto potente da poter non darsi pena di cosa sia lecito e cosa sia riprovevole. Da noi ci sono stati addirittura due personaggi politici di primo piano – Berlusconi e Salvini – che hanno tessuto di Putin lodi sperticate. Ma non sono stati gli unici.

E, così, è stato nel brodo di cultura di questo crescente senso di impunità che è cresciuta la convinzione che possa essere la guerra a placare i propri appetiti, che siano territoriali, linguistici, religiosi, economici. Comunque di valore infimo rispetto a una sola vita umana.

Oggi parliamo della Russia di Putin, ma è difficile non pensare all’Afghanistan dei talebani, all’Egitto di al-Sisi, alla Siria di Assad, alla Turchia di Erdogan e ad altri infiniti casi sparsi nel mondo; non soltanto di guerre canoniche, ma anche di soprusi generalizzati contro i propri stessi cittadini.

Quindi, come indica anche la nostra Costituzione, è assolutamente giusto e doveroso fare il possibile per ripudiare la guerra. Tenendo ben presente che se, per colpa nostra, lasciamo che ogni purulenta schifezza possa crescere fino ad esplodere in un conflitto, allora sarà ben difficile far finta di niente, tentare di far credere che non sia anche colpa nostra, voltandosi dall’altra parte.

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giovedì 24 febbraio 2022

La falsa comodità

Kiev Ci era comodo non crederci – uso il noi, anche per me, in quanto ci eravamo dentro praticamente tutti – e non ci abbiamo creduto fino alla fine; ma era una falsa comodità e ora l’Ucraina è invasa. Da tempo si parlava delle conseguenze economiche per noi di un’eventuale guerra tra Russia e Ucraina e abbiamo preferito aspettare e sperare barattando volentieri l’indipendenza, la sicurezza, la vita degli ucraini con la nostra teorica tranquillità; e ancora continuiamo con la nostra cecità, visto che, solo per dare un esempio, gli autotrasportatori stanno protestando per il caro-carburanti contro il governo italiano e non – anche se sarebbe comunque del tutto inutile – contro Putin.

Eppure molti di noi conoscono la storia e, infatti, in tanti hanno capito che ormai la guerra era arrivata quando Putin ha riconosciuto l’indipendenza di Donesk e Lugansk, facendosi immediatamente chiamare dai due nuovi Stati fantoccio come “salvatore” dai cattivi ucraini, come giustificazione per invadere e annettersi non soltanto le due nuove repubbliche, ma anche l’intero Donbass. Eppure è stata l’identica trafila delle invasioni sovietiche di Budapest nel 1956 e di Praga nel 1968.

E lo si era capito anche quando lo stesso Putin, in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici aveva clamorosamente distorto la storia affermando che l’Ucraina è parte integrante della Russia e della sua storia, mentre è noto che soltanto nella seconda metà del Settecento l’Impero russo si è annesso l’Ucraina e che in tutto l’Ottocento gli zar hanno messo in opera continue repressioni e un processo di russificazione per soffocare le aspirazioni di indipendenza dell’Ucraina stessa.

Si dirà che queste uscite televisive di Putin sono tutte accadute in questi ultimi giorni. D’accordo. Ma al di là del fatto che nessuno poteva ragionevolmente fidarsi dell’integrità di un personaggio amico intimo delle festicciole “eleganti” di Silvio Berlusconi, ammirato da Matteo Salvini che diceva di sentirsi più libero in Russia che in Italia, idolatrato da Donald Trump che comunque gli doveva gratitudine per le piraterie informatiche che lo avevano aiutato a farsi eleggere, come ci si poteva fidare del nuovo zar? E, poi, c’erano già troppi segnali non recentissimi di quello che stava succedendo.

È del 2014 l’invasione e l’annessione di fatto della Crimea e i più hanno fatto finta di niente perché – dicevano – la Russia doveva pur avere un accesso più largo al Mar Nero. Qualcuno ricorda forse che fu proprio un porto, quello di Danzica, come pochi anni fa Sebastopoli, fu la scusa adottata da Hitler per “giustificare” l’invasione della Polonia che diede inizio alla seconda guerra mondiale? Qualcuno ricorda che proprio come Putin pretende di salvaguardare gli interessi dei russofoni dell’Ucraina, così Hitler pretendeva di salvaguardare gli interessi dei germanofoni dei Sudeti, immediatamente annessi, come già prima l’Austria, nell’assordante silenzio internazionale?

E potremmo andare avanti elencando similitudini desolanti tra l’attuale zar del Cremlino e l’allora Führer di Berlino, nonché, a livello di culto della propria personalità, soprattutto dal punto di vista fisico, tra Putin e il Duce che ha oscurato e insanguinato l’Italia per un tragico ventennio.

Si dirà che Putin è un esperto giocatore di poker, gioco che non mi è mai piaciuto, perché quando un gioco può causare la rovina di una persona e di coloro che lo circondano non è certamente un gioco. Se poi questo “gioco” ha come posta le vite umane, diventa ancora più inaccettabile. E, allora, è inutile sedersi al tavolo se non si è capaci di partecipare: pretendere di allargare un’alleanza militare come la Nato, senza averlo già fatto, senza avere le carte in mano, vuol dire soltanto esporsi, indifesi, a qualunque bluff dell’avversario. Sempre che di bluff si tratti e non di megalomane pazzia.

L’unica strada – e purtroppo non è una strada né attuale, né semplice – è quella di dare davvero sostanza alla dizione “Organizzazione Nazioni Unite”. In cui il concetto di unità implica una parziale rinuncia alla propria sovranità, proprio come è ancora parzialmente avvenuto per la realizzazione dell’Unione europea.

È un’utopia? Sicuramente sì, ma le utopie sono da sempre non luoghi che non esistono, ma posti in cui non si è ancora arrivati. Sarà un percorso difficilissimo e lunghissimo? Certamente sì. È sicuro che noi non ne vedremo la conclusione, ma i nostri figli e i nostri nipoti probabilmente sì, se ci impegneremo davvero. E, almeno per loro, non merita impegnarsi in questo senso?

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lunedì 21 febbraio 2022

Bellico, il contrario di bello

atom Il 25 settembre 1961 John Fitzgerald Kennedy, nel suo discorso all’ONU, diceva: «La guerra non ci si propone più come un’alternativa razionale». E poi rincarava la dose: «L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità». Entrambi erano e sono concetti incontrovertibili, ma – si sarebbe tentati di dire – lo spettro della guerra torna a farsi vivo sessantun anni dopo.

In realtà non è così perché la guerra non ci ha mai lasciato in questi sei decenni: semplicemente abbiamo fatto finta che non ci fosse perché non ci coinvolgeva direttamente. Ed eravamo diventati tanto bravi in questo nascondere la testa sotto la sabbia da riuscire a non vedere questa realtà non soltanto quando i combattimenti e le stragi avvenivano lontanissime da noi (tra Asia e Africa l’elenco degli eventi bellici è praticamente infinito), ma anche quando succedevano davanti alla porta di casa nostra, come nell’ex Jugoslavia. D’accordo: ci si commuoveva, ci si indignava, ma con l’animo leggero di chi è convinto che mai il morbo della guerra avrebbe infettato anche casa nostra.

Poi abbiamo avuto decine di morti italiani in Congo, Iraq, Afghanistan, Siria e in altri Paesi dove la guerra era di casa, ma, una volta assistito, più o meno commossi, alle esequie solenni tributate alle vittime italiane, abbiamo continuato tranquillamente la nostra vita, come se i soldati uccisi non fossero stati vittime di guerra, ma avessero perso la vita in un pur doloroso e raccapricciante incidente stradale.

Alla fine si è cominciato a capire che ogni guerra, anche se non tocca direttamente, ha sempre conseguenze su tutto il mondo per gli enormi flussi migratori che innesca. Ma per molti si è trattato di fastidio più che di compassione, o di paura di essere davvero coinvolti.

Ora le smanie di allargamento di Putin da una parte, e della NATO dall’altra – pur con significati e contenuti profondamente diversi – ci fanno capire che lo spettro è davvero tornato e che non sarà facile ricacciarlo dove lo avevamo nascosto. Ed è importante notare che a smuovere le nostre teoriche coscienze non è il fatto che l’Ucraina ci sia vicina (del resto quando pochi anni fa Putin si è annesso la Crimea non ci abbiamo fatto troppo caso), ma l’evidenza che si sta parlando di nuovo di armi nucleari. E che in questi decenni, ben lungi dal metterle al bando, si sono spesi colossali masse di denaro per renderle ancora più efficienti nel distruggere non il pianeta, ma il genere umano.

E davanti tutto questo soltanto timidamente si comincia a sentir parlare di manifestazioni contro la guerra, di gente che torna in piazza, come ai tempi del Vietnam, per far sapere, con evidenza, che di guerra non ne vuole sapere, che rifiuta gli imperialismi, che non crede ai desideri di indipendenza da parte di chi cambia soltanto sovrano, che il concetto di nazione è ormai superato nella ragione, anche se non ancora nella realtà.

Ma il problema è che oggi ci sono ancora lodevoli ricorrenze fisse, ad Assisi, ad Aviano, dove ci si esprime contro la guerra, ma nel contempo – i no-vax e i no-pass insegnano – si indicono manifestazioni quasi soltanto per difendere piccoli interessi personali, o di gruppo, anche se mettono in secondo piano gli interessi di un’intera comunità che proprio anche a causa di egoismi assortiti, ha perduto oltre 150 mila suoi componenti.

Ora, forse, con l’incubo atomico di nuovo sopra le nostre teste, un po’ di più gente, oltre che gli studenti che chiedono una scuola migliore, ricorderà che è necessario scendere in piazza perché le democrazie vere non vivono di sondaggi, ma di espressioni politiche dei desideri dei cittadini, espressioni politiche che, se sono etiche e rappresentano la maggioranza, devono indirizzare le scelte di coloro che i cittadini rappresentano.

E ci si ricorderà anche che bellico e bello si assomigliano foneticamente, ma hanno etimologie totalmente divergenti. Bellico deriverebbe da “belua”, bestia feroce, quasi a ricordare la ferocia crudeltà inumana con cui gli uomini si combattono, mentre l’origine di bello va ricercata nel diminutivo di “bonus”, che, riferito ai bambini, diventa “benulus” e poi “bellus”.

Proprio sull’accostamento di bellum e bello, così simili nel suono ma opposti nel significato, Isidoro di Siviglia, dottore della Chiesa, ha coniato la frase: «Bellum quod res bella non sit» (La guerra si chiama bellum perché non è una cosa bella). Poi, per evitare confusioni, l’italiano ha scelto il termine guerra, dal germanico “werra” che significa zuffa.

Erich Maria Remarque ha messo in luce il rischio di confondere “bellico” con “bello” nel suo film “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Ricordiamocene. E, soprattutto, facciamo sapere che ce ne ricordiamo.

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mercoledì 16 febbraio 2022

Qualcosa di destra

BasagliaSempre più spesso si sente dire che il dualismo destra-sinistra non esiste più. Se questo assunto può essere accettabile fermandosi a guardare i disperati tentativi di tenere a galla se stessi da parte di non pochi dei cosiddetti uomini politici di oggi, il concetto continua a essere platealmente sbagliato se ci si riferisce ai principi e ai valori sociali che destra e sinistra rappresentano e che restano sempre diversissimi, se non addirittura opposti.

Ormai la sinistra esprime i propri valori – se li esprime – con eccessivo pudore, senza rendersi conto che, così facendo perde molti più elettori di quanti, facesse il contrario, riporterebbe alle urne. E allora, per capire bene queste differenze, è meglio prendere in esame quello che fa la destra, che mai si è vergognata neppure delle cose più orripilanti incasellate nella sua storia, preferendo cancellarle dalla memoria, sminuirne l’importanza, o, addirittura, tentare di negarle.

Prendiamo il concetto di solidarietà (articoli 2, 3 e altri della Costituzione): a sinistra viene ripetuto spesso, ma l’unico che in questo periodo sembra dare contorni chiari a questo concetto è Papa Francesco. A destra, invece, le cose, pur se viste in senso negativo, sono molto più chiare.

Guardiamo al sindaco di Udine, alla sua giunta e alla fondazione del teatro Giovanni da Udine. Il problema scoppia in occasione dello spettacolo operistico “Le nozze di Figaro” quando ci si rende conto che durante la notte il sottoportico del teatro accoglie alcuni senzatetto che cercano un pur misero e parziale riparo al freddo e alle intemperie.

È intollerabile che il pubblico debba sopportare il fastidio di aggirare alcuni cartoni che fungono da indecoroso giaciglio per alcuni degli ultimi. E allora Fontanini ha un’idea brillante: mettere subito in opera una grata scorrevole, dal costo di 12 mila euro, da tirare durante la notte per impedire ai poveri di entrare nel portico. Poi, naturalmente, il sindaco aggiunge: «Il primo nodo da affrontare è quello di ampliare l’accoglienza fornita dal Fogolâr».

Ineccepibile? Potrebbe anche sembrare se non fosse per il fatto che, da quello che si capisce, la grata sarà messa in opera subito, mentre, da quello che si sa, l’eventuale adeguamento del Fogolâr - comunque per pochi posti in più - dovrà seguire i tempi burocratici e cercare i fondi in un bilancio non ricchissimo. Il tutto mentre l’esplosione dei costi delle bollette energetiche rischia di far aumentare a dismisura il numero dei senzatetto. Ma di questo non si parla.

Altra parola: salute, riferendosi all’articolo 32 e ad altri della Costituzione. È evidente che nel testo della Carta si parla di salute riferendosi all’intero panorama, anche a quello più scomodo, più ricco e irto di tabù: quello della salute mentale. Regione e comune di Udine, insieme, decidono di recuperare il parco di Sant’Osvaldo ex sede dell’ospedale psichiatrico e ancora luogo deputato ad aiutare le persone che soffrono di queste malattie: dal Centro di igiene mentale, alla Comunità Nove che accoglie durante il giorno molti affetti da disagio, al Sert che si occupa di dipendenze.

Ebbene, entrambe le giunte di destra hanno declinato il concetto di salute in maniera quantomeno bizzarra visto che nell’ampia spiegazione del previsto futuro per il parco, dell’attività in favore del disagio non si fa più minimamente cenno. Si parla di utilizzare gli antichi edifici per archivi, di impiegarne uno per ricordare il passato in una specie di museo degli orrori manicomiali, di curare le piante e la loro biodiversità, di creare una splendida città dello sport e del benessere.

E le strutture dedicate alla cura dei disagi? Nemmeno una parola. Ma, del resto, come si potrebbe permettere che gli attuali frequentatori possano infastidire i clienti dello sport e del benessere? Sarebbe come lasciare che i senzatetto possano mettere ancora una tettoia sopra la loro testa.

E poi, l’importante per la destra è sempre stato distruggere l’eredità di Basaglia e mortificare e distruggere il lavoro di tanti che con amore e abnegazione hanno fatto della salute mentale il lavoro e la missione di una vita. Ma se gli ospedali psichiatrici non esistono più, e se diventeranno sempre più marginali e marginalizzate anche tutte le strutture ancora esistenti, chi curerà i malati. La risposta è semplice: Fatti loro! Basta, evidentemente, che non disturbino come fuori dal teatro.

Vi sembrerà strano. Ma da tutto questo traggo dei motivi di grande rabbia non dal comportamento di Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e altri gruppi ancora più estremisti: loro, in definitiva, si limitano a dire e a fare cose di destra. La delusione e la rabbia mi arrivano dal comportamento della cosiddetta sinistra che preferisce tacere, o, al massimo, borbottare nelle segrete stanze, senza mai chiamare la popolazione a esprimere quell’indignazione che moltissimi già sentono a livello individuale senza più trovare, però, quel catalizzatore capace di trasformare l’indignazione in azione politica.

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mercoledì 9 febbraio 2022

Un paio di aerei al giorno

Meloni
Quanto a numero di morti è come se precipitassero un paio di aerei di linea al giorno, ma nel caso dei morti per Covid questi numeri non soltanto non occupano più le prime pagine dei giornali, ma quasi non se ne parla, se non per suggerire nuovi metodi di conteggio che possano ridurli e, quindi, rendere improbabile che qualcuno possa spaventarsi nel già improbabile caso che si imbatta in quelle cifre che raramente sfuggono dai testi degli articoli per tornare nei titoli, negli occhielli e nei sommari.

Viene anche da chiedersi cosa succederebbe se la legge sulla privacy concedesse anche per il Covid di conoscere e pubblicare i nomi delle vittime, proprio come succede, invece, per gli incidenti aerei. Perché la spersonalizzazione di questi morti evidentemente allontana anche la pietà dalle nostre menti.

E mentre questo succede più d’una trasmissione televisiva, per puri e squallidi motivi di audience e di share, sta dando sempre più spazio a no-vax e a no-pass ringalluzziti dal fatto che, grazie agli altri – quelli che si sono vaccinati e hanno rispettato le regole tracciate da virologi e infettivologi e rese possibili da chi ha realizzato i vaccini – anche i contagi causati dalla variante omicron stanno calando.

La cosa che descrive bene lo spirito di non-vax e no-pass – ma anche, purtroppo, le condizioni di una parte considerevole di questa nostra società – è l’assoluta predominanza del pronome “io” e la grande carenza di quello “noi”.

Un esempio perfetto ci è regalato da Giorgia Meloni che ha detto che non farà vaccinare sua figlia perché «le probabilità che un ragazzo muoia di Covid sono le stesse che uno muoia colpito da un fulmine». Indiscutibile dal punto di vista della salute della bambina. Alla Meloni manca completamente, però, la parte svolta dai vaccini a livello sociale e confermata con forza anche nella diffusione della variante omicron: che è stata proprio la vaccinazione dei bambini e dei ragazzi ad avere dapprima indebolito, e poi ridotto drasticamente, il numero dei contagi, mentre quello dei morti segue di solito di un paio di settimane di agonia quello di coloro che si ammalano gravemente e finiscono nelle terapie intensive.

È un esempio lampante delle differenze tra “io” e “noi”; anzi, in questo caso “voi”, perché lei è convinta – e le auguriamo davvero di cuore che non succeda il contrario – che nessuno dei suoi cari sarà mai a bordo di uno di quei due aerei di linea che da mesi si schiantano al suolo ogni santo giorno.

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martedì 25 gennaio 2022

Il dono della memoria

Ausch Nello struggente film “Il labirinto del silenzio” che rievoca il processo tenutosi a Francoforte nel 1963, il primo che ha squarciato in Germania il velo di silenzio che aveva avvolto e nascosto gli orrendi crimini nazisti di Auschwitz, il giovane sostituto procuratore che sta tentando di istruire il processo, afferma: «Josef Mengele è Auschwitz». E il procuratore capo ribatte: «Tutti quelli che hanno collaborato, tutti quelli che non hanno detto “No” sono Auschwitz.

Noi dovremmo aggiungere che ancora oggi sono Auschwitz coloro che ne negano l’esistenza, coloro che fanno il saluto romano e mettono in mostra simboli nazisti, quelli che hanno nostalgia delle camicie brune e delle camicie nere, coloro che ogni volta che sentono parlare di Auschwitz si affrettano a parlare delle foibe, come se l’accostare due atrocità potesse portarle a elidersi a vicenda nell’assurdo e disonesto tentativo di far sì che l’orrore dell’una possa ammorbidire l’orrore dell’altra, che possa azzerarle entrambe, mentre, invece, finiscono inevitabilmente per sommarsi; proprio come in matematica, dove la somma di due numeri negativi dà un risultato che, ovviamente, è ancora più negativo dei due addendi separati.

Domani sarà il Giorno della memoria proprio per ricordare il 27 gennaio 1945 quando il Lager di Auschwitz è stato raggiunto e liberato dall’esercito sovietico ed è già sconvolgente pensare che sia stata necessaria l’istituzione di una ricorrenza per far ricordare una realtà che dovrebbe essere scolpita profondamente nel cuore e nel cervello di tutti gli esseri umani e il cui ricordo, invece, è appannato, o addirittura scomparso in fette troppo larghe della popolazione.

Sbaglierò, ma ho la convinzione che se noi avessimo curato il dono della memoria ricordando costantemente Auschwitz e tutti gli altri campi di sterminio, tutte le vittime e le loro sofferenze, il dipanarsi della storia che ha portato a simili abomini, non avremmo commesso tanti errori, non ci saremmo macchiati di tante omissioni, non vedremmo traballare tante democrazie.

E oggi non staremmo a guardare l’aula di Montecitorio, durante le elezioni presidenziali, con l’unica speranza che non ne esca proprio la soluzione peggiore.

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mercoledì 19 gennaio 2022

Il ritorno del podestà

Costit In breve, i fatti. L’associazione “Per la Costituzione” di San Daniele da anni organizza un “Festival Costituzione” al quale hanno partecipato i maggiori costituzionalisti del nostro Paese, oltre a tantissimi altri personaggi di primo piano. Un paio di giorni fa ha emesso un comunicato nel quale, proprio pensando alla Costituzione, viene messo in debito rilievo il fatto che Silvio Berlusconi non dovrebbe essere neppure candidarsi alla Presidenza della Repubblica perché in realtà, come affermano anche tanti costituzionalisti, la candidatura di un simile personaggio «è un’offesa alla dignità della repubblica e a milioni di cittadini italiani». Il sindaco – non mi sognerei mai di chiamarlo primo cittadino – di San Daniele risponde rabbiosamente revocando il patrocinio, il partenariato (che probabilmente implica anche l’uso degli spazi di proprietà del Comune) e chiede «l’immediata rimozione dello Stemma comunale» da tutto il materiale digitale dell’Associazione.

Paolo Mocchi, presidente dell’Associazione, risponde con la consueta signorilità, ma con un’incisività che dovrebbe far arrossire – nel caso riuscisse a comprendere il significato della parola vergogna – il signor Pietro Valent per il quale sarebbe giusto riesumare il titolo fascista di “podestà” per sostituirlo a quello di sindaco. Stante le limitazioni di spazio, vi rimando alla lettura dei testi sul Messaggero Veneto, ma non posso non insistere su alcune considerazioni.

La prima: è lo stesso signor Valent, con il suo comportamento cupido di servilismo nei confronti di Berlusconi, a dare ragione all’Associazione perché va contro quella Costituzione che proprio Berlusconi dovrebbe difendere: a partire dall’articolo 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

La seconda: vi sembra eccessivo il riferimento al fascismo? Dimenticate per un momento i ridicoli aspetti folkloristi del Ventennio, con camice nere, saluti romani e salti nel cerchio di fuoco. Pensate, invece, alla soppressione di moltissimi diritti civili, alle leggi razziste più che razziali, alla servile alleanza con il nazismo, agli omicidi degli oppositori, alle stragi nei territori temporaneamente conquistati, e poi pensate al sindaco (altro epiteto inadeguato) di Udine, Pietro Fontanini, che ignorando del tutto Costituzione e leggi dello Stato, ha pensato di non dare aiuti comunali a tutte le famiglie bisognose, ma soltanto a quelle che lui ritiene legittime.

Poi ricordate anche l’assessore regionale alla Cultura (altra presa in giro effettuata con l’uso distorto delle parole) Tiziana Gibelli e alla giunta regionale di Fedriga che, in odio all’editrice KappaVu, rea a suo dire di essere troppo di sinistra in alcune sue espressioni, decide di estrometterla dallo stand regionale al Salone del libro di Torino, cancellando anche il pensiero di decine e decine di autori, che magari di politica non avevano nemmeno scritto.

Comunemente si dice che tre indizi fanno una prova, Io continuo a pensare che una prova debba essere una prova, ma mi sembra che qui le prove – nel senso di fatti – non manchino proprio.

La terza considerazione riguarda il futuro. Ormai siamo abituati a pensare – anche guardando il calo continuo di affluenza alle urne – che gli italiani abbiano accumulato un senso di sfiducia praticamente irreversibile nei confronti di una politica che ha mantenuto quel nome, ma si è allontanata decisamente dal suo significato etimologico che indica la tecnica (dal greco “techné”) da usare per il bene della “polis”, cioè della comunità dei cittadini.

Ma siamo sicuri che sia davvero così? O forse la disaffezione dipende soltanto dal fatto che a ogni campagna elettorale non si sa più parlare alla gente di quello che alle persone sicuramente interesserebbe di più, ove soltanto si richiamasse il pericolo che la libertà corre dandone la gestione a persone che sono molto, troppo vicine, a un fascismo che ha cambiato nome e, in parte, aspetto esteriore, ma ha mantenuto assolutamente viva la sua anima nera e che non si preoccupa più troppo di nascondere i suoi tradizionali metodi?

Credo che in ogni momento (e quindi anche in ogni campagna elettorale, comprese quelle teoricamente amministrative, ma che sempre politiche restano) questi tre vituperabili esempi andrebbero ricordati con dovizia di particolari perché sono convinto che la larghissima maggioranza degli italiani può aver perso fiducia nei politici, può essersi disamorato della politica, ma non è sicuramente diventata fascista.

E, lasciatemelo dire: è cosa buona e giusta scrivere comunicati e articoli arrabbiati e indignati, ma questi li leggono soltanto coloro che già sono sensibili alle offese recate da questi comportamenti. Prima o dopo sarà il caso – Covid permettendo – che le piazze tornino a riempirsi di persone che protestano contro comportamenti che non troppi anni fa avrebbero portato a reazioni molto decise anche da parte della quella cosiddetta sinistra che oggi troppo spesso sceglie di tacere per non allontanare da sé possibili voti, mentre non si rende conto che, invece, ne sta perdendo tantissimi di più.

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lunedì 17 gennaio 2022

Il vecchio trucco

Berlusco Il trucco è vecchio come il mondo: se si vuole far digerire qualcosa di sgradevole a qualcuno, basta convincerlo che l’alternativa sarebbe ancora peggiore. L’unico problema è quello di trovare uno specchietto per le allodole talmente potente da distrarre il malcapitato e non fargli vedere la trappola in cui si sta cacciando.

Posso anche sbagliare, ma vorrei attirare l’attenzione sul fatto che l’autocandidatura di Berlusconi alla Presidenza della Repubblica è stata talmente assurda, incredibile e irricevibile che quasi tutti, all’inizio, hanno pensato a uno scherzo, o a uno stravagante parto dell’accoppiamento di un ego straripante con una senilità non sempre lucida.

A stupire, ma non troppo, sono stati poi i pur tiepidi appoggi iniziali di Meloni, Salvini e compagnia. D’altro canto – si pensava – è soltanto lui quello disposto a mettere in campo quantità colossali di denaro utili anche e soprattutto ad accattivarsi i favori di chi doveva essere convinto a votare per un personaggio già condannato per reati gravi e comunque esempio preclaro di divisività per un posto per il quale si richiedono etica, onestà e capacità di rappresentare tutti.

A preoccupare un po’ sono state le successive, e pur sempre tiepide, conferme di appoggio. Ma a impensierire davvero stanno arrivando le proposte di alternative che non credo possano essere interpretate in maniera diversa da un: «Noi non insistiamo su Berlusconi, ma è ovvio che il centrodestra, a questo punto, merita una compensazione». E poi, via con i nomi di possibili alternative. Senza mai abbandonare, comunque, il trucchetto iniziale.

Ragioniamoci sopra. Perché dovrebbe esserci una compensazione, al di là del fatto che con chi ha lo stomaco di pensare a Berlusconi come Presidente della Repubblica è già difficile confrontarsi? Non certo perché la doverosa rinuncia a Berlusconi possa diventare un titolo di merito. Forse perché hanno i voti per eleggere uno dei loro? Certamente no, in quanto una maggioranza virtuale (già smentita alle ultime elezioni amministrative) la possono vantare soltanto nei sondaggi, mentre tra i grandi elettori sono ancora in minoranza.

Forse per un’alternanza di cui non si trova giustificazione né giuridica, né logica? Certamente no, anche perché lasciare la difesa della Costituzione per sette anni in mano a coloro che hanno sempre dichiarato il loro desiderio di cambiarla profondamente appare come una specie di suicidio per chi ricorda che questa Costituzione è nata dalla Resistenza e che ha come primo fondamento l’impegno a difendere una democrazia che è sempre più in pericolo anche per il diffuso disinteresse dei cittadini; un disinteresse che ricorda da vicino quello degli Anni Venti del secolo scorso.

E, allora, praticando il vecchio trucco, ecco che cominciano i nomi alternativi. Si comincia con Letizia Moratti: è sicuramente una donna, ma si può dimenticare che è stata indubbiamente il peggior ministro dell’Istruzione che la storia repubblicana ricordi e che recentemente ha dato ampia prova della sua inadeguatezza anche come assessore regionale al Welfare della Lombardia.

Non va la Moratti, i cui errori sono troppo recenti per poter essere dimenticati? Nessun problema: si manda avanti Giulio Tremonti che i suoi misfatti li ha compiuti un po’ di anni prima. Ma si può perdonare che è stato lui a dire che «con la cultura non si mangia»? E si può forse dimenticare che nel 2003, a Lorenzago, con Andrea Pastore (Fi), Francesco D’Onofrio (Udc), Roberto Calderoli (Lega), Domenico Nania (An) ha operato per «scrivere un testo – aveva detto – che sia la sostituzione integrale della seconda parte della Costituzione, dall’articolo 55 al 138».

Poi vanno ancora più nelle nebbie fino a Marcello Pera che, però, difficilmente può sperare che ci si dimentichi di come ha preso per i fondelli gli italiani inventando l’assurda e utilitaristica locuzione di «atei devoti». E ancora più lontano si potrebbe arrivare, alla fine, con la riesumazione di Pierferdinando Casini, l’inventore della “politica dei due forni” che servivano soltanto per cucinare il pane solo per lui, sempre stato di destra, che, con questa scusa, poteva donare alcune trascurabili briciole per farsi accettare anche dal centrosinistra.

Siamo sicuri che siano scelte alternative a Berlusconi? Siamo certi che un centrodestra che non è riuscito neppure a candidare un sindaco decente, sia in grado di indicare un presidente della Repubblica eticamente valido e capace di diventare super partes? Io davvero non ci credo.

Dicono: ma se il centrosinistra possiede qualche nome con queste caratteristiche, perché non lo indica? Bella domanda. Perché qualche nome, da Rosi Bindi in giù, il centrosinistra potrebbe farlo benissimo, ma forse ha paura di far impallinare il possibile candidato dall’infido Renzi e da qualche altro che, insieme, sette anni fa si sono imperdonabilmente allenati con successo abbattendo la candidatura di Prodi.

Personalmente sono convinto che almeno un nome andrebbe fatto, sia perché altrimenti si è psicologicamente succubi degli altri, sia in quanto di strategie e tattiche si può morire, anche se si è bravi a progettarle. Figuriamoci con il centrosinistra di oggi.

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sabato 8 gennaio 2022

L’orrenda assuefazione

anticovidLo diceva già Esopo ne “La volpe che non aveva mai visto il leone”: «L’assuefazione mitiga anche le cose spaventevoli», spiegando che la volpe morì proprio di assuefazione perché non si spaventò più, come all’inizio, alla vista della belva. Però a oltre 2.500 anni di distanza evidentemente non lo abbiamo ancora imparato. E i risultati sono disastrosi. Il fatto è che a tutto ci si può abituare, anche alle cose peggiori; anche alla morte. Quella altrui, ben s’intende, mentre la nostra, nella maggior parte dei casi ci appare lontanissima, se non irreale.

Guardiamo quello che sta succedendo in questo periodo con il Covid: un paio di centinaia di migliaia di contagiati e dai 200 ai 250 morti ogni giorno, senza contare coloro che perdono la vita perché la lotta al virus ha assorbito la maggior parte delle già inadeguate forze della sanità pubblica. Per dare delle dimensioni più facilmente comprensibili, si tratta di due città come Udine completamente contagiate ogni 24 ore e un terremoto del Friuli che si ripete, con le sue vittime, ogni quattro, o cinque giorni. Sono due evidenze che dovrebbero far ragionare – ammesso che ne siano capaci – anche i no-vax più incalliti. Invece, in troppi casi così non è.

Tutto deriva da una considerazione corretta, ma che, se è staccata dai dati di partenza, finisce per essere fuorviante. È del tutto corretto, infatti, dire che oggi, grazie ai vaccini, siamo molto più difesi visto che, rispetto ai contagiati, è incomparabilmente minore la quantità di coloro che devono ricorrere al ricovero, alle terapie intensive, o che addirittura perdono la vita. Ma se questa considerazione non tiene anche conto della cifra assoluta delle vittime di ogni giorno, si rischia di diffondere un falso senso di sicurezza che fa ridurre le altre precauzioni che bisogna comunque mantenere anche quando il ciclo di vaccinazioni è completato: evitare gli affollamenti, usare sempre le mascherine più efficaci, mantenere una giusta distanza dalle altre persone in ogni occasione.

Se questo non accade, i contagi continueranno ad aumentare e si avrà un bel dire che la percentuale degli esiti fatali rispetto alle infezioni è drasticamente diminuita perché la cifra dei morti continuerà a essere inaccettabile in quanto una percentuale separata dalle cifre della realtà, non è sbagliata, ma induce a errori di valutazione che possono essere drammatici.

I disastri in tal senso non succedono soltanto con il Covid. Pensate, per esempio, alle elezioni: ogni volta sono trionfanti coloro che vedono aumentare la loro percentuale di voti che corrispondono a seggi conquistati, mentre nessuno prende in considerazione il numero dei suffragi realmente ottenuti perdendo così di vista un disastro che accomuna tutti, vincenti e perdenti, che non si rendono conto che il numero totale dei votanti continua a calare in maniera vertiginosa, decretando che stiamo assistendo a una malattia gravissima della democrazia, infettata dal virus della sfiducia; se non addirittura al presagio della sua morte.

Tornando al Covid, è sicuramente giusto tenere conto dell’esigenza di salvaguardare il più possibile sia l’economia, sia il modo di vivere abituale, ma non ci si può non domandare come l’economia e il modo di vivere abituale potrebbero sopravvivere a un trend simile a quello di questi giorni, se protratto indefinitamente.

Senza contare che ci sono situazioni che comunque già stanno diventando insostenibili. Coloro che lavorano nel settore della sanità pubblica sono sottoposti a ritmi di lavoro disumani. I mondi dell’istruzione e della cultura stanno perdendo quei caposaldi costituiti dalla partecipazione e dal coinvolgimento diretti e personali alle lezioni e agli avvenimenti. Esiste una specie di “prigionia” per coloro che non possono avere rapporti personali con i propri cari: non mi riferisco soltanto ai ricoverati in ospedale, ma anche e soprattutto gli anziani delle case di accoglienza, condannati, per la loro stessa salvezza, a una specie di crudele prigionia non soltanto senza colpa, ma anche senza contagio.

Quindi, sicuramente non c’è alternativa all’obbligo vaccinale, ma sono anche ancora obbligatori quei sacrifici necessari a rendere il nostro comportamento compatibile con i terribili pericoli che il virus ha seminato, e semina ancora, abbondantemente nel nostro mondo.

È evidente che a nessuno piace rinunciare a qualcosa, anzi a moltissime cose date già per acquisite, ma l’orrenda assuefazione alle cifre reali delle morti quotidiane, non seminascoste da quelle delle percentuali delle vittime sul totale dei contagiati, non deve farci dimenticare che la storia dimostra che ogni società, se sottoposta a pressioni drammatiche, alla fine non può non collassare. È molto fastidioso sentirlo dire, ma ancor più fastidioso sarebbe trovarsi coinvolti davvero in un crollo disastroso.

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