venerdì 2 settembre 2022

La censura e la scelta

0 fasci La pausa è stata davvero lunga. Dapprima qualche guaio con il Covid, poi una stupida, ma fastidiosissima frattura a una vertebra, a seguire la cancellazione – temporanea, assicurano – dei blog dai giornali del gruppo Gedi, e infine quella crosta di pigrizia, sottile ma sempre un po’ difficile da spezzare, che si crea quando si interrompe un’attività abituale. Ora, però, pur limitandomi a pubblicare le mie opinioni su un sito decisamente meno visibile di quello del Messaggero Veneto, e affidandomi per la diffusione soltanto alle mail, a Facebook, alle condivisioni e ai passaparola, mi sento obbligato a dire di nuovo qualcosa e a spingermi a farlo è la campagna elettorale in corso per una delle elezioni politiche più drammaticamente importanti della storia della Repubblica italiana.

Lo spunto mi viene dalle critiche che sono rivolte a Enrico Letta perché – dicono – ha impostato la sua propaganda soprattutto sul pericolo di un ritorno fascista e non su un programma propositivo. A prescindere dal fatto che – potranno convincere, o meno, potranno creare un clamore che attiri l’attenzione, o meno – alcune proposte di programma le ha scritte e dette, mi sembra importante soffermarmi sull’accusa di dare troppo peso all’antifascismo.

E, ovviamente, l’analisi non può prescindere dal valutare se il pericolo fascista può esistere, o meno. Dal mio punto di vista non ho dubbi nel rispondere affermativamente: la storia, le parole, le scelte e i programmi di Giorgia Meloni sono tutti elementi che non offrono certamente prospettive di maggiori spazi democratici, ma, invece, di limitazioni di diritti e di partecipazione nel nome di quella che oggi viene chiamata “governabilità” e che una volta, più coerentemente, si chiamava “decisionismo” e spesso era, ed è, l’anticamera di scelte impositive e non dibattute.

Ma a far paura non sono soltanto la Meloni, o Salvini che non ha nemmeno la furbizia della sua temporanea alleata nel far finta di non essere razzista ed eterofobo. Molto di più, a preoccupare, è il terreno di cultura che loro hanno abilmente curato e che oggi è putridamente fertile. Pensate a quanti si dichiarano palesemente nostalgici del fascismo e del nazismo, a quanti usano la rete per minacciare ed evocare stermini per coloro – oggi sembra fantastoria, ma purtroppo è realtà – che non sono considerati razzialmente accettabili: a coloro che offendono chiunque porti avanti idee di progresso sociale, predichi l’uguaglianza, anche sessuale, e la solidarietà; ai non pochi che ancora pensano che la violenza sia un sistema per “punire” chi non la pensa come loro; all’esposizione di fasci e svastiche; agli assalti di sedi sindacali.

È ben vero che i problemi economici, energetici, climatici, le tante altre cose che nel nostro Paese non vanno devono essere portate in primo piano perché devono essere risolti nel minor tempo possibile, ma provate a pensare se, ancora prima di risolvere i problemi, si dovesse rimettere in piedi – e non soltanto riaggiustare – un sistema davvero democratico; se si dovesse passare dall’opposizione alla resistenza.

Ancora una volta, però, la causa non può essere addebitata ad altri, ma soprattutto a noi stessi e alla scarsa importanza che abbiamo sempre attribuito alla sostanza del linguaggio, preferendo, invece, privilegiare la forma. È di questi giorni la notizia che nelle università inglesi sono stati compilati elenchi di letture da proibire, o quantomeno da sconsigliare nel nome del “politicamente corretto”. Per dare un’idea dell’assurdità della tesi, basterebbe notare che uno degli scritti messi all’indice è “Sogno di una notte di mezza estate”, di Shakespeare, perché conterrebbe tracce di classismo. Come se l’impianto sociale del Seicento potesse essere paragonato a quello di oggi.

Ma è assurdo scandalizzarsi perché anche nel nostro Paese, pur apparentemente in sedicesimo, si è fatta la medesima cosa e i risultati, a effetto domino, sono stati devastanti, proprio anche per la vita democratica italiana.

Il discorso potrebbe essere molto lungo, ma per capirci basta un esempio: quelli che una volta erano chiamati “spazzini”, a un certo punto hanno mutato il nome in un pomposo “operatori ecologici”: forma apparentemente più rispettosa, ma in realtà colpevolmente irridente perché per quei degnissimi lavoratori in realtà non cambiava nulla: né il tipo di lavoro, né il disagio, né lo stipendio, né il rispetto di quella parte della società che già non li apprezzava comunque per la loro fondamentale utilità nella vita di ogni comunità.

Per un lungo periodo è diventato di primaria importanza addolcire tutti i termini che potevano presentare delle asperità, o provocare qualche fastidio. E questa sorte l’abbiamo cecamente riservata, con piena approvazione e stupefatta gioia da parte della destra, anche alla parola “fascismo” e ai suoi derivati. Dapprima l’abbiamo fatta precedere dal prefisso “neo”, che lasciava pensare a qualche novità migliorativa, mentre in realtà si riferiva soltanto all’età dei nuovi adepti delle teorie mussoliniane. Poi sono stati chiamati “nostalgici”, come se rimpiangessero soltanto “i bei tempi andati” della gioventù e non gli orrori che il fascismo aveva creato; poi, ancora, si sono appropriati del termine “conservatori”, come se di quella che non è un’opinione politica, ma un reato, ci fosse davvero qualcosa da conservare.

E, così non parlando più di fascismo, se ne è appannata la memoria, ci si è dimenticati che il nostro Paese e la nostra Costituzione sono nati proprio da una lotta cruenta e piena di lutti per liberarsi dalla dittatura fascista, che molti degli epigoni della Repubblica di Salò sono stati i fondatori di quel Movimento Sociale Italiano la cui fiamma è ancora «orgogliosamente difesa» nel simbolo di Fratelli d’Italia da Giorgia Meloni.

Quasi sicuramente Enrico Letta non riuscirà a suscitare le emozioni e il trasporto che, invece riescono a creare altri leader politici, ma lui e coloro che hanno deciso di allearsi con il suo partito, hanno ben presente i rischi che la nostra democrazia sta correndo in questo periodo e la loro scelta di non censurare la paura di precipitare rovinosamente nel passato, com’è già accaduto ad altri Paesi europei, per dover poi ricostruire tutto ripartendo da cumuli di macerie, è del tutto condivisibile. Perché illudersi che con qualsiasi risultato elettorale la nostra democrazia rimarrebbe inalterata sarebbe una nuova ipocrisia, grave almeno come la scelta di interpretare le parole nella loro forma e non nella loro sostanza.

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