domenica 8 marzo 2020

Vivere e sopravvivere

Ho più di settant’anni e leggo che la SIAARTI, la Società scientifica degli anestesisti e rianimatori, ha scritto e diffuso delle raccomandazioni di etica clinica per tutti i professionisti che lavorano, con orari impossibili, in ognuno di questi difficilissimi giorni, nei reparti di terapia intensiva, sempre più evidentemente insufficienti come capienza, e che ogni giorno, anche più volte al giorno, sono chiamati a prendere decisioni terribili, a fare scelte che possono essere definitive. Il succo del documento è che bisogna privilegiare chi è più giovane, o comunque non ha patologie importanti; insomma, per essere chiari, «Può essere necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva».

La mia prima reazione è basata sull’istinto di conservazione, su una specie di concetto di legittima difesa, ma dura poco perché se un paragone di età si deve fare, è giusto farlo partendo da situazioni che puoi capire, quelle più vicine a te. E, per quanto mi riguarda, se penso a mia moglie, a mia figlia, a mia nipote, a mio genero, tutti più giovani, o molto più giovani di me, non ho il minimo dubbio che se qualcuno dovesse essere nelle condizioni di entrare in terapia intensiva e qualcuno dovesse restare fuori, quell’esclusione toccherebbe a me. E senza il minimo rimpianto.

Poi, procedendo in una specie di allontanamento razionale da una forma di naturale e comprensibile di egoismo personale e familiare, diventa naturale pensare che, in un maledetto mondo in cui non tutti hanno il diritto a sopravvivere – fino a ieri potevamo pensare a una specie di fantascienza catastrofista – i giovani hanno diritto a vivere più degli anziani. Esattamente il contrario di quello che succede in guerra dove sono i giovani a morire per primi e in numero maggiore. Ma si sa che la guerra è, in tutti i sensi, la somma ingiustizia di questo mondo.

Dopo, superato questo primo impatto emozionale e razionale, ci si rende conto che il problema non va individuato tra gli anestesisti, i rianimatori e la loro Società scientifica, bensì nel fatto che il numero dei posti in terapia intensiva è del tutto insufficiente: in Italia ne abbiamo 5.100, mentre la Germania ne conta sei volte di più. Perché? Forse la Germania è più spendacciona e ama gettare al vento i soldi con attrezzature che non sono necessarie? Ovviamente no.

La causa è che da noi da troppi anni i tagli su bilanci statali risicati e traballanti si continuano a fare pervicacemente e ciecamente sui settori che, pur essendo i più importanti per il presente e per il futuro, sembrano essere i più deboli: la sanità pubblica e l’istruzione e la cultura. Adesso per gli ospedali si tenta di correre al riparo aumentando del 50 per cento, in maniera necessariamente raffazzonata, il numero di posti letto in terapia intensiva e aumentando di 20 mila unità gli addetti ai lavori, medici o infermieri che siano. Tutto aiuta, ma certamente non risolve.

E allora, se vogliamo che davvero questa moderna pandemia – che sia più o meno mortifera di quelle classiche poco importa – ci possa insegnare qualcosa di concreto che vada oltre le buone intenzioni favolistiche che restano tali, dobbiamo porci alcune domande molto serie. Perché abbiamo sopportato e magari contribuito in maniera attiva, o passiva, a quell’evasione fiscale che ci mangia ogni anno 120 miliardi abbondanti che sarebbero largamente bastati per dare alla sanità tutto quello che sarebbe servito? Perché non abbiamo mai voluto estirpare il fenomeno delle mazzette che impoveriscono le casse statali e abbruttiscono una società che non può dirsi onesta e democratica se permette tutto questo? Perché non ci ribelliamo a coloro che, a parole, sanno risolvere tutto, ma, per raccattare voti, puntano soltanto sulle paure ingenerate dai teorici pericoli dell’immigrazione mentre spendono cifre incredibili per telecamere che servono soltanto ad alimentare quel senso di insicurezza che appare totalmente falso, visto che un’indagine internazionale di pochi giorni fa ci pone, a pari merito con il Lussemburgo, al primo posto in quanto a sicurezza tra tutti i paesi europei? Perché continuiamo a votare persone che promettono mari e monti e che quando raggiungono il potere che desiderano non si sognano di dare agli italiani nemmeno laghetti e colline? Perché ci siamo colpevolmente girati dall’altra parte permettendo che i partiti, che costituzionalmente dovrebbero essere la cinghia di trasmissione tra il popolo e chi può e deve decidere, si siano ridotti in questo stato?

Insomma se siamo in questa situazione, se ci si trova davanti a una scelta tra chi aiutare a salvarsi e chi lasciare che si salvi – se ci riesce – da solo, la colpa è sempre di tutti noi, veri specialisti nel peccato di omissione, capaci di parlare, ma riottosi a “sporcarsi le mani” – così si dice – con la politica e con i partiti, come se i panettieri, o i muratori, gente che costruisce qualcosa di tangibile, le mani non se le sporcassero.

Quindi, non posso neanche sfogarmi con un «Andate tutti a quel paese», perché dovrei urlare «Andiamo tutti a quel paese». E uso questa locuzione perché nel mio blog non voglio scendere nel turpiloquio.

Cosa ci potrebbe essere peggio di così? Semplice: arrivare la prossima volta alle urne – referendarie o elettorali che siano – con la stessa svampita inadeguatezza con cui ci si è mossi nella maggior parte fino ad adesso. E, se la salute ce lo permette, cominciare a essere arrabbiati davvero e a farlo capire con le parole e con i comportamenti. Anche perché ai più giovani non dobbiamo dare soltanto maggiori probabilità di sopravvivenza, ma anche migliori condizioni di vita. Perché vivere è molto di più di sopravvivere. Anzi, è addirittura totalmente diverso.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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