Ho più di
settant’anni e leggo che la SIAARTI, la Società scientifica degli
anestesisti e rianimatori, ha scritto e diffuso delle raccomandazioni di
etica clinica per tutti i professionisti che lavorano, con orari
impossibili, in ognuno di questi difficilissimi giorni, nei reparti di
terapia intensiva, sempre più evidentemente insufficienti come capienza,
e che ogni giorno, anche più volte al giorno, sono chiamati a prendere
decisioni terribili, a fare scelte che possono essere definitive. Il
succo del documento è che bisogna privilegiare chi è più giovane, o
comunque non ha patologie importanti; insomma, per essere chiari, «Può
essere necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia
intensiva».
La mia prima reazione è basata
sull’istinto di conservazione, su una specie di concetto di legittima
difesa, ma dura poco perché se un paragone di età si deve fare, è giusto
farlo partendo da situazioni che puoi capire, quelle più vicine a te.
E, per quanto mi riguarda, se penso a mia moglie, a mia figlia, a mia
nipote, a mio genero, tutti più giovani, o molto più giovani di me, non ho il minimo
dubbio che se qualcuno dovesse essere nelle condizioni di entrare in
terapia intensiva e qualcuno dovesse restare fuori, quell’esclusione
toccherebbe a me. E senza il minimo rimpianto.
Poi, procedendo in una specie di
allontanamento razionale da una forma di naturale e comprensibile di
egoismo personale e familiare, diventa naturale pensare che, in un
maledetto mondo in cui non tutti hanno il diritto a sopravvivere – fino a
ieri potevamo pensare a una specie di fantascienza catastrofista – i
giovani hanno diritto a vivere più degli anziani. Esattamente il
contrario di quello che succede in guerra dove sono i giovani a morire
per primi e in numero maggiore. Ma si sa che la guerra è, in tutti i
sensi, la somma ingiustizia di questo mondo.
Dopo, superato questo primo impatto
emozionale e razionale, ci si rende conto che il problema non va
individuato tra gli anestesisti, i rianimatori e la loro Società
scientifica, bensì nel fatto che il numero dei posti in terapia
intensiva è del tutto insufficiente: in Italia ne abbiamo 5.100, mentre
la Germania ne conta sei volte di più. Perché? Forse la Germania è più
spendacciona e ama gettare al vento i soldi con attrezzature che non
sono necessarie? Ovviamente no.
La causa è che da noi da troppi anni
i tagli su bilanci statali risicati e traballanti si continuano a fare
pervicacemente e ciecamente sui settori che, pur essendo i più
importanti per il presente e per il futuro, sembrano essere i più
deboli: la sanità pubblica e l’istruzione e la cultura. Adesso per gli
ospedali si tenta di correre al riparo aumentando del 50 per cento, in
maniera necessariamente raffazzonata, il numero di posti letto in
terapia intensiva e aumentando di 20 mila unità gli addetti ai lavori,
medici o infermieri che siano. Tutto aiuta, ma certamente non risolve.
E allora, se vogliamo che davvero
questa moderna pandemia – che sia più o meno mortifera di quelle
classiche poco importa – ci possa insegnare qualcosa di concreto che
vada oltre le buone intenzioni favolistiche che restano tali, dobbiamo
porci alcune domande molto serie. Perché abbiamo sopportato e magari
contribuito in maniera attiva, o passiva, a quell’evasione fiscale che
ci mangia ogni anno 120 miliardi abbondanti che sarebbero largamente
bastati per dare alla sanità tutto quello che sarebbe servito? Perché
non abbiamo mai voluto estirpare il fenomeno delle mazzette che
impoveriscono le casse statali e abbruttiscono una società che non può
dirsi onesta e democratica se permette tutto questo? Perché non ci
ribelliamo a coloro che, a parole, sanno risolvere tutto, ma, per
raccattare voti, puntano soltanto sulle paure ingenerate dai teorici
pericoli dell’immigrazione mentre spendono cifre incredibili per
telecamere che servono soltanto ad alimentare quel senso di insicurezza
che appare totalmente falso, visto che un’indagine internazionale di
pochi giorni fa ci pone, a pari merito con il Lussemburgo, al primo
posto in quanto a sicurezza tra tutti i paesi europei? Perché
continuiamo a votare persone che promettono mari e monti e che quando
raggiungono il potere che desiderano non si sognano di dare agli
italiani nemmeno laghetti e colline? Perché ci siamo colpevolmente
girati dall’altra parte permettendo che i partiti, che
costituzionalmente dovrebbero essere la cinghia di trasmissione tra il
popolo e chi può e deve decidere, si siano ridotti in questo stato?
Insomma se siamo in questa
situazione, se ci si trova davanti a una scelta tra chi aiutare a
salvarsi e chi lasciare che si salvi – se ci riesce – da solo, la colpa è
sempre di tutti noi, veri specialisti nel peccato di omissione, capaci
di parlare, ma riottosi a “sporcarsi le mani” – così si dice – con la
politica e con i partiti, come se i panettieri, o i muratori, gente che
costruisce qualcosa di tangibile, le mani non se le sporcassero.
Quindi, non posso neanche sfogarmi
con un «Andate tutti a quel paese», perché dovrei urlare «Andiamo tutti a
quel paese». E uso questa locuzione perché nel mio blog non voglio
scendere nel turpiloquio.
Cosa ci potrebbe essere peggio di
così? Semplice: arrivare la prossima volta alle urne – referendarie o
elettorali che siano – con la stessa svampita inadeguatezza con cui ci
si è mossi nella maggior parte fino ad adesso. E, se la salute ce lo
permette, cominciare a essere arrabbiati davvero e a farlo capire con le
parole e con i comportamenti. Anche perché ai più giovani non dobbiamo
dare soltanto maggiori probabilità di sopravvivenza, ma anche migliori
condizioni di vita. Perché vivere è molto di più di sopravvivere. Anzi, è
addirittura totalmente diverso.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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