In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Finora se ne erano perse quasi
completamente le tracce. Nell’esasperata idolatria del presente era
stato comodo e riposante far finta di dimenticare il passato e di non
sforzarsi di prefigurare il futuro.
Nei
tempi del coronavirus, però, il passato è riapparso, almeno nel
ricordare per quante volte le pandemie hanno messo a rischio la
sopravvivenza del genere umano e delle sue civiltà e per quante volte –
esattamente le stesse – gli uomini sono riusciti a uscirne per
ricominciare a crescere.
Ma
soprattutto è ricomparso il futuro. Nell’ansia derivata dal fatto che
purtroppo sappiamo con certezza che ancora per migliaia di abitanti del
mondo un domani non ci sarà, per molti il futuro è diventato un
ottativo, un desiderio, un sogno da accarezzare. E per tutti ha ripreso
quella consistenza che aveva quando si facevano progetti, si tentava di
materializzare ambizioni e obbiettivi personali e generali, si pensava
soprattutto al domani visto che si era ben consci che il passaggio meno
importante è proprio il presente, perché è soltanto l’attimo che collega
la fine del passato all’inizio del futuro. E che in questa fugacità
recupera una sua importanza soltanto se si è consci che può indirizzare
il tempo che verrà.
Non
sono passati nemmeno quindici anni da quando Jacques Attali ha scritto
una “Breve storia del futuro”, libro pieno di argomenti sui quali ci
sarebbe tantissimo da discutere, ma che aveva due grandi pregi. Quello
di ricordare, in premessa, che «la storia umana è quella dell’emergere
della persona come soggetto di diritto, au¬torizzato a pensare e a
gestire il proprio destino, libero da ogni obbligo che non sia il
rispetto del diritto dell’altro alle medesi¬me libertà», e di far vedere
che ragionare su quello che è possibile prevedere non è soltanto una
sfida nella quale mettere alla prova intelligenza e conoscenza, ma
dovrebbe essere soprattutto un esercizio obbligatorio per tutti. In
primis per coloro, i politici, che alla società imprimono delle sterzate
che derivano dalle loro decisioni e che, purtroppo, spesso sono prese a
capocchia; non come conseguenza di indagini, studi e successivi
ragionamenti, ma come reazione irriflessa, in tempi brevi, a necessità
contingenti, o, ancor peggio, a squallidi calcoli elettoralistici.
E,
per bene che vada, in questi casi il futuro pensato si espande soltanto a
pochi mesi, o, al massimo, a un paio di anni in avanti. Poi c’è la
nebbia e la speranza che i problemi si risolvano da soli, o la piena
coscienza che ci sarà sempre qualcuno che, pur di raggiungere il potere,
sarà più che ben disposto a raccattare la patata bollente.
Tutti
ci dovremmo rendere conto che, come ha scritto Wislawa Szymborska nella
sua poesia “Tre parole”, «Quando pronuncio la parola Futuro / la prima
sillaba va già nel passato”. E che è proprio oggi, imprigionati dal
Covid-19 che dovremmo ragionare attentamente su ciò che potrà essere
perché, tra poco o tanto che sia, ci troveremo a operare su un terreno
diverso da quello che conoscevamo, sconvolto dal cambio di abitudini,
dal persistere di timori, dalla voglia di riprenderci quello che ci è
stato tolto. E, come sempre, agire in terreni vergini, tutti da
scoprire, comporta notevoli vantaggi, ma anche fortissimi rischi.
Per
prima cosa, per quanto strano possa apparire a prima vista, uno spazio
inesplorato sarà quello che ci si spalancherà davanti quando si
riapriranno le porte che ora sono chiuse per proteggerci tenendoci
dentro le mura della nostra casa. Quando questo succederà probabilmente
ci troveremo in un equilibrio instabile tra la smania di riprenderci
quello che ci è stato tolto e il timore che non tutto possa essere
passato, tra la voglia di stringere le mani e il sospetto che quelle
mani possano ancora essere pericolose.
Saremo
capaci di tornare subito nei cinema, nei teatri, nelle sale di
conferenze, negli stadi o nei palazzetti? O di sedersi in un ristorante
senza scrutare, sospettosi, se la distanza tra i commensali, o,
addirittura, con il tavolo più vicino, ci sembrerà congrua? Sapremo
adattarci al nuovo panorama urbano che ci si presenterà davanti e che
indubbiamente non potrà non risentire della crisi economica che si sta
sviluppando in seguito alle necessità imposteci dal coronavirus? Quando
la parola sicurezza tornerà per noi ad avere un significato concreto?
E
poi, più avanti, sapremo far tesoro di questa esperienza? Torneremo ad
apprezzare il fatto che l’uomo non è in balia del destino, ma che è il
destino a essere creato dall’uomo, con la sua dignità, il suo libero
arbitrio, la sua voglia di costruire un futuro degno per sé e per gli
altri? Terremo sempre presente che distruggere la sanità e l’istruzione
pubbliche ci mette tutti in condizioni di grave pericolo? Ci ricorderemo
che il mercato è importante, ma la delocalizzazione porta con sé anche
rischi terribili, che la produzione non deve tener conto soltanto del
guadagno, ma anche della sua compatibilità con l’ambiente e con la
sicurezza di un lavoro che deve essere sempre capace di dispensare
dignità e giusto compenso?
Se
sarà così, questo continuerà a essere ricordato come un periodo orrendo,
ma almeno lascerà anche qualcosa di positivo per noi e, soprattutto,
per quelli che continueranno dopo di noi.
Le altre parole: Anonimo, Confine, Denaro, Libertà, Scelta
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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