venerdì 27 marzo 2020

Le parole del virus: Futuro

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Finora se ne erano perse quasi completamente le tracce. Nell’esasperata idolatria del presente era stato comodo e riposante far finta di dimenticare il passato e di non sforzarsi di prefigurare il futuro.


Nei tempi del coronavirus, però, il passato è riapparso, almeno nel ricordare per quante volte le pandemie hanno messo a rischio la sopravvivenza del genere umano e delle sue civiltà e per quante volte – esattamente le stesse – gli uomini sono riusciti a uscirne per ricominciare a crescere.

Ma soprattutto è ricomparso il futuro. Nell’ansia derivata dal fatto che purtroppo sappiamo con certezza che ancora per migliaia di abitanti del mondo un domani non ci sarà, per molti il futuro è diventato un ottativo, un desiderio, un sogno da accarezzare. E per tutti ha ripreso quella consistenza che aveva quando si facevano progetti, si tentava di materializzare ambizioni e obbiettivi personali e generali, si pensava soprattutto al domani visto che si era ben consci che il passaggio meno importante è proprio il presente, perché è soltanto l’attimo che collega la fine del passato all’inizio del futuro. E che in questa fugacità recupera una sua importanza soltanto se si è consci che può indirizzare il tempo che verrà.

Non sono passati nemmeno quindici anni da quando Jacques Attali ha scritto una “Breve storia del futuro”, libro pieno di argomenti sui quali ci sarebbe tantissimo da discutere, ma che aveva due grandi pregi. Quello di ricordare, in premessa, che «la storia umana è quella dell’emergere della persona come soggetto di diritto, au¬torizzato a pensare e a gestire il proprio destino, libero da ogni obbligo che non sia il rispetto del diritto dell’altro alle medesi¬me libertà», e di far vedere che ragionare su quello che è possibile prevedere non è soltanto una sfida nella quale mettere alla prova intelligenza e conoscenza, ma dovrebbe essere soprattutto un esercizio obbligatorio per tutti. In primis per coloro, i politici, che alla società imprimono delle sterzate che derivano dalle loro decisioni e che, purtroppo, spesso sono prese a capocchia; non come conseguenza di indagini, studi e successivi ragionamenti, ma come reazione irriflessa, in tempi brevi, a necessità contingenti, o, ancor peggio, a squallidi calcoli elettoralistici.

E, per bene che vada, in questi casi il futuro pensato si espande soltanto a pochi mesi, o, al massimo, a un paio di anni in avanti. Poi c’è la nebbia e la speranza che i problemi si risolvano da soli, o la piena coscienza che ci sarà sempre qualcuno che, pur di raggiungere il potere, sarà più che ben disposto a raccattare la patata bollente.

Tutti ci dovremmo rendere conto che, come ha scritto Wislawa Szymborska nella sua poesia “Tre parole”, «Quando pronuncio la parola Futuro / la prima sillaba va già nel passato”. E che è proprio oggi, imprigionati dal Covid-19 che dovremmo ragionare attentamente su ciò che potrà essere perché, tra poco o tanto che sia, ci troveremo a operare su un terreno diverso da quello che conoscevamo, sconvolto dal cambio di abitudini, dal persistere di timori, dalla voglia di riprenderci quello che ci è stato tolto. E, come sempre, agire in terreni vergini, tutti da scoprire, comporta notevoli vantaggi, ma anche fortissimi rischi.

Per prima cosa, per quanto strano possa apparire a prima vista, uno spazio inesplorato sarà quello che ci si spalancherà davanti quando si riapriranno le porte che ora sono chiuse per proteggerci tenendoci dentro le mura della nostra casa. Quando questo succederà probabilmente ci troveremo in un equilibrio instabile tra la smania di riprenderci quello che ci è stato tolto e il timore che non tutto possa essere passato, tra la voglia di stringere le mani e il sospetto che quelle mani possano ancora essere pericolose.

Saremo capaci di tornare subito nei cinema, nei teatri, nelle sale di conferenze, negli stadi o nei palazzetti? O di sedersi in un ristorante senza scrutare, sospettosi, se la distanza tra i commensali, o, addirittura, con il tavolo più vicino, ci sembrerà congrua? Sapremo adattarci al nuovo panorama urbano che ci si presenterà davanti e che indubbiamente non potrà non risentire della crisi economica che si sta sviluppando in seguito alle necessità imposteci dal coronavirus? Quando la parola sicurezza tornerà per noi ad avere un significato concreto? 

E poi, più avanti, sapremo far tesoro di questa esperienza? Torneremo ad apprezzare il fatto che l’uomo non è in balia del destino, ma che è il destino a essere creato dall’uomo, con la sua dignità, il suo libero arbitrio, la sua voglia di costruire un futuro degno per sé e per gli altri? Terremo sempre presente che distruggere la sanità e l’istruzione pubbliche ci mette tutti in condizioni di grave pericolo? Ci ricorderemo che il mercato è importante, ma la delocalizzazione porta con sé anche rischi terribili, che la produzione non deve tener conto soltanto del guadagno, ma anche della sua compatibilità con l’ambiente e con la sicurezza di un lavoro che deve essere sempre capace di dispensare dignità e giusto compenso?

Se sarà così, questo continuerà a essere ricordato come un periodo orrendo, ma almeno lascerà anche qualcosa di positivo per noi e, soprattutto, per quelli che continueranno dopo di noi.


Le altre parole: Anonimo, Confine, Denaro, Libertà, Scelta

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