In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Può sembrare impossibile, ma spesso non sono la vicinanza, o addirittura
il contatto, a ridestare la nostra solidarietà, bensì la lontananza, la
rarefazione delle occasioni di incontro. Le segregazioni casalinghe che
stanno toccando tutti noi in seguito alle tremende minacce del Covid-19
ce lo stanno dimostrando. Stiamo assistendo, infatti a fenomeni che
fino a un paio di mesi fa non avremmo ritenuto probabili.
La protezione civile richiede
trecento medici volontari per andare a operare in prima linea, negli
ospedali delle zone dove con più facilità si viene contagiati e dove più
spesso si muore, e si presentano in molti più di duemila. E la stessa
cosa, addirittura in proporzioni maggiori, si è ripetuta pure per la
“chiamata” di 500 infermieri alla quale hanno risposto in quasi
diecimila. A centinaia, e aumentano ancora, sono i volontari che non
hanno preparazione medica, né infermieristica, ma si prestano a guidare,
o ad accompagnare, le ambulanze; a portare la spesa a casa di chi non
può, o non se la sente di muoversi, o a tentare di dare sollievo
materiale, e quindi anche psicologico, a chi sta soffrendo in maniera
pesantissima, sia per lutti, sia per paura.
Nessuno avrebbe nemmeno immaginato
che tante fabbriche, tanti laboratori si assumessero i problemi di una
veloce riconversione produttiva per dare al Paese mascherine, camici
monouso, respiratori, guanti, disinfettanti. È vero: così facendo
possono continuare a produrre e, quindi, a vivere, ma il processo di
conversione, e poi di riconversione, non è né semplice, né veloce, né
poco impegnativo anche sul piano economico.
A ogni richiesta di un contributo
monetario, poi, i risultati sono sempre superiori alle attese iniziali e
del tutto commoventi sono gli aiuti che arrivano da immigrati che
dicono: «Avete aiutato me e ora è il momento che io aiuti voi», dando
così sostanza a quello spirito umano che è ben più importante dello
spirito nazionale; che, anzi, mette bene in rilievo l’incomprensibilità
delle artificiose divisioni che gli uomini sono riusciti a costruire in
tutto il mondo; e non soltanto tra nazioni, o patrie, ma anche al loro
interno.
E la solidarietà, ai suoi livelli
più semplici, si trasforma addirittura in buona educazione. Chi, un paio
di mesi fa, avrebbe mai ipotizzato di vedere lunghe file fuori dai
pochi negozi ancora aperti, file nelle quali praticamente quasi nessun
italiano non rispetta la distanza di sicurezza, né tenta di fregare la
precedenza a chi gli sta davanti?
Cos’è successo? Difficile dirlo. Non
possono essere state soltanto le esortazioni alla solidarietà da parte
di Papa Francesco, del Presidente Mattarella e di tante altre voci che
hanno una qualche platea di ascolto. Non credo ci sia stata
un’improvvisa e diffusa conversione ai principi evangelici, né
un’inattesa accettazione degli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione
che proclamano i principi di solidarietà e di eguaglianza e che hanno
una loro evidente e inevitabile ricaduta nell’articolo 53, uno dei meno
ascoltati, quando dice che «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità contribuiva e, a seguire,
sottolinea che «Il sistema tributario è informato a criteri di
progressività». Se fosse stato seguito, probabilmente non avremmo mai
dovuto sentir parlare di tagli alla sanità e all’istruzione.
Credo che per tentare di avvicinarsi
ai reali motivi di questo cambiamento sia necessario analizzare le
differenze tra due parole – “elemosina” e “carità” – che, nella vulgata
più diffusa, possono apparire sinonimi, ma che tali assolutamente non
sono. Elemosina, infatti, significa un’elargizione, quasi sempre in
denaro, data a chi, rispetto a noi, è in evidente e costante condizione
di debolezza. Carità, invece, e non solo nell’accezione cristiana del
termine, ma già in quella latina di “charitas”, implica un concetto di
amore, o, se questa parola ci appare troppo impegnativa, almeno di
fratellanza, di aiuto dato a un nostro pari.
Di solito è ben più diffusa
l’elemosina della carità, anche in quanto sentirsi uguali agli altri è
sempre molto più difficile che sentirsi superiori agli altri, o anche
inferiori agli altri, e soltanto raramente, come nel volontariato, le
due condizioni possono convivere. Oggi, invece, sotto la minaccia del
coronavirus, è molto più facile sentirsi tutti uguali, o, almeno, nella
medesima situazione di pericolo. Quindi, diventa naturale abbandonare
atteggiamenti presupponenti e riacquistare quel concetto di socialità
paritaria che, per quella dignità inalienabile che riconosciamo a ogni
essere umano, a prescindere da distinzioni nazionali, sociali e
religiose, ha impiegato secoli per svilupparsi e che in questi ultimi
anni, con l’aumento a dismisura delle diseguaglianze, è stato messo
nuovamente in crisi.
Il problema è che molto
probabilmente, anche sotto l’effetto dell’euforia per il futuro scampato
pericolo, di questo non trascurabile effetto positivo che galleggia in
un pozzo di negatività, si rischierà di perdere in breve la memoria,
mentre dovrebbe restare sempre in primo piano il concetto di dignità,
propria e altrui, accoppiato al rifiuto di riprendere a essere
ossequiosamente inseriti nello squallore di una quotidiana
sopravvivenza. Bisognerebbe – come diceva Giorgio Gaber in “Qualcuno era comunista” – pensare «di poter essere vivo e felice solo se lo sono anche gli altri».
Le altre parole: Anonimo, Confine, Denaro, Futuro, Infodemia, Libertà, Scelta
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