domenica 29 marzo 2020

Le parole del virus: Solidarietà

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Può sembrare impossibile, ma spesso non sono la vicinanza, o addirittura il contatto, a ridestare la nostra solidarietà, bensì la lontananza, la rarefazione delle occasioni di incontro. Le segregazioni casalinghe che stanno toccando tutti noi in seguito alle tremende minacce del Covid-19 ce lo stanno dimostrando. Stiamo assistendo, infatti a fenomeni che fino a un paio di mesi fa non avremmo ritenuto probabili.


La protezione civile richiede trecento medici volontari per andare a operare in prima linea, negli ospedali delle zone dove con più facilità si viene contagiati e dove più spesso si muore, e si presentano in molti più di duemila. E la stessa cosa, addirittura in proporzioni maggiori, si è ripetuta pure per la “chiamata” di 500 infermieri alla quale hanno risposto in quasi diecimila. A centinaia, e aumentano ancora, sono i volontari che non hanno preparazione medica, né infermieristica, ma si prestano a guidare, o ad accompagnare, le ambulanze; a portare la spesa a casa di chi non può, o non se la sente di muoversi, o a tentare di dare sollievo materiale, e quindi anche psicologico, a chi sta soffrendo in maniera pesantissima, sia per lutti, sia per paura.

Nessuno avrebbe nemmeno immaginato che tante fabbriche, tanti laboratori si assumessero i problemi di una veloce riconversione produttiva per dare al Paese mascherine, camici monouso, respiratori, guanti, disinfettanti. È vero: così facendo possono continuare a produrre e, quindi, a vivere, ma il processo di conversione, e poi di riconversione, non è né semplice, né veloce, né poco impegnativo anche sul piano economico.

A ogni richiesta di un contributo monetario, poi, i risultati sono sempre superiori alle attese iniziali e del tutto commoventi sono gli aiuti che arrivano da immigrati che dicono: «Avete aiutato me e ora è il momento che io aiuti voi», dando così sostanza a quello spirito umano che è ben più importante dello spirito nazionale; che, anzi, mette bene in rilievo l’incomprensibilità delle artificiose divisioni che gli uomini sono riusciti a costruire in tutto il mondo; e non soltanto tra nazioni, o patrie, ma anche al loro interno.

E la solidarietà, ai suoi livelli più semplici, si trasforma addirittura in buona educazione. Chi, un paio di mesi fa, avrebbe mai ipotizzato di vedere lunghe file fuori dai pochi negozi ancora aperti, file nelle quali praticamente quasi nessun italiano non rispetta la distanza di sicurezza, né tenta di fregare la precedenza a chi gli sta davanti?

Cos’è successo? Difficile dirlo. Non possono essere state soltanto le esortazioni alla solidarietà da parte di Papa Francesco, del Presidente Mattarella e di tante altre voci che hanno una qualche platea di ascolto. Non credo ci sia stata un’improvvisa e diffusa conversione ai principi evangelici, né un’inattesa accettazione degli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione che proclamano i principi di solidarietà e di eguaglianza e che hanno una loro evidente e inevitabile ricaduta nell’articolo 53, uno dei meno ascoltati, quando dice che «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contribuiva e, a seguire, sottolinea che «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Se fosse stato seguito, probabilmente non avremmo mai dovuto sentir parlare di tagli alla sanità e all’istruzione.

Credo che per tentare di avvicinarsi ai reali motivi di questo cambiamento sia necessario analizzare le differenze tra due parole – “elemosina” e “carità” – che, nella vulgata più diffusa, possono apparire sinonimi, ma che tali assolutamente non sono. Elemosina, infatti, significa un’elargizione, quasi sempre in denaro, data a chi, rispetto a noi, è in evidente e costante condizione di debolezza. Carità, invece, e non solo nell’accezione cristiana del termine, ma già in quella latina di “charitas”, implica un concetto di amore, o, se questa parola ci appare troppo impegnativa, almeno di fratellanza, di aiuto dato a un nostro pari.

Di solito è ben più diffusa l’elemosina della carità, anche in quanto sentirsi uguali agli altri è sempre molto più difficile che sentirsi superiori agli altri, o anche inferiori agli altri, e soltanto raramente, come nel volontariato, le due condizioni possono convivere. Oggi, invece, sotto la minaccia del coronavirus, è molto più facile sentirsi tutti uguali, o, almeno, nella medesima situazione di pericolo. Quindi, diventa naturale abbandonare atteggiamenti presupponenti e riacquistare quel concetto di socialità paritaria che, per quella dignità inalienabile che riconosciamo a ogni essere umano, a prescindere da distinzioni nazionali, sociali e religiose, ha impiegato secoli per svilupparsi e che in questi ultimi anni, con l’aumento a dismisura delle diseguaglianze, è stato messo nuovamente in crisi.

Il problema è che molto probabilmente, anche sotto l’effetto dell’euforia per il futuro scampato pericolo, di questo non trascurabile effetto positivo che galleggia in un pozzo di negatività, si rischierà di perdere in breve la memoria, mentre dovrebbe restare sempre in primo piano il concetto di dignità, propria e altrui, accoppiato al rifiuto di riprendere a essere ossequiosamente inseriti nello squallore di una quotidiana sopravvivenza. Bisognerebbe – come diceva Giorgio Gaber in “Qualcuno era comunista” – pensare «di poter essere vivo e felice solo se lo sono anche gli altri».

Le altre parole: Anonimo, Confine, Denaro, Futuro, Infodemia, Libertà, Scelta

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