lunedì 23 marzo 2020

Le parole del virus: Anonimo

L’aggettivo “anonimo” è uno di quelli che non concedono vie di mezzo nel qualificare il sostantivo al quale viene appiccicato: può esaltarlo attribuendogli il massimo delle buone qualità, oppure può sprofondarlo agli inferi segnalando il massimo dell’abiezione. L’unica cosa certa è che non può mai lasciare indifferenti. Ci si può trovare, infatti, di fronte alla commovente donazione anonima di un milione di euro elargita da qualcuno che ha voluto restare in incognito in favore della Terapia intensiva dell’ospedale di Pordenone, ma anche davanti allo squallore disumano delle diffusissime minacce e dei dileggi anonimi, via telefono, o soprattutto via internet, che possono addirittura indurre al suicidio.

Quindi, lo sapevamo anche prima che la via di mezzo, in questo aggettivo, non è consentita; ma il Covid-19 ce lo ha ricordato in maniera violenta facendoci balzare agli occhi che l’anonimato non può e non deve riguardare le persone normali, quelle che ci circondano ogni giorno, noi stessi. Eppure fino a questo momento abbiamo visto andarsene oltre 5 mila persone, e il numero crescerà ancora, ma praticamente tutte per noi sono rimaste anonime. Eccezion fatta per qualche persona che era già famosa, o era parente di una persona conosciuta.

È inevitabile che torni alla mente quella frase attribuita al cinico e spietato Stalin: «Una morte è una tragedia, un milione di morti è una statistica».

Tutto cambia, però, nel momento in cui arriva la notizia che il virus ti ha portato via un amico, o un famigliare, che viveva in una delle zone più colpite. E allora ti torna in superficie quello che già sapevi con certezza: che i morti non sono importanti soltanto nel loro complesso in quanto permettono di definire la portata di una disgrazia, di un disastro, di una strage, di un’epidemia, o pandemia: i morti sono importanti, uno per uno, perché ognuno è importante per qualcuno e, quindi, lo è per tutta la società.

Si dice che, per la maggior parte, abbiamo dimenticato il culto dei morti, che la nostra società abbia trovato più comodo seppellirlo assieme a coloro che è troppo straziante ricordare. Eppure non è così.

È stata la società – e non soltanto per motivi patriottici – che ha fatto erigere Redipuglia in cui quasi tutti gli oltre centomila caduti lì sepolti hanno il loro nome inciso sui gradoni che salgono alla sommità della collina. E quando il nome non c’è e si ricorre alla dizione “milite ignoto”, dietro questa locuzione si avverte il disagio per aver dovuto cessare le ricerche di quel nome, tanto che – quasi come forma di riparazione collettiva – un monumento è stato eretto proprio per il Milite ignoto, quasi a voler dare un nome collettivo a tutti coloro che non ce l’hanno più.

E a richiamare i nomi, e quindi le individualità umane c’è anche il muro nero del “Memorial Wall”, all’interno del “Vietnam Veterans Memorial” di Washington dove sono incisi i nomi di 58.286 americani caduti in quell’insensata guerra in Estremo Oriente. Sicuramente nessuno li leggerà tutti, e, al massimo, cercherà soltanto quelli che conosce, ma lo sforzo è stato proprio quello di far ricordare che lì sono morti degli esseri umani, uno per uno, non una massa indistinta di uomini in divisa.

E anche dopo il terremoto del 1976 il Messaggero Veneto ha fatto uno sforzo considerevole per pubblicare le fotografie di tutti i quasi mille morti, sempre per indicare che erano mille immensi lutti e non soltanto un grande lutto collettivo.

Tutto questo non avviene soltanto quando l’umanità solidale era ancora in fasce, come nelle fosse comuni delle pestilenze del medioevo e dei secoli immediatamente successivi, o quando aveva cessato temporaneamente di esistere, come nelle fosse comuni dei Lager nazisti, o delle altre stragi della Seconda guerra mondiale e di altri conflitti successivi, o di dittature sparse in ogni angolo del mondo.
 

Il fatto è che, anche con il Cona-19, quelli che se ne vanno non sono soltanto morti: sono persone morte. E, come tutte le persone che vedi mentre vivono, non sono anonime: magari puoi non conoscerle, o non ricordarne il nome, ma continuano a essere persone con il loro bagaglio di esperienze, debolezze, affetti, gioie, dolori, dubbi, fatiche. E comunque accompagneranno a lungo la memoria di qualcuno di noi che, per il momento, siamo ancora qua, a guardare mentre loro se ne vanno.

Il Covid-19 è riuscito a farci capire che l’aggettivo “anonimo” non va appiccicato a loro, ma a noi che abbiamo il timore di rendere esplicito un dolore che non deve restare indistinto, ma dovrebbe essere la sommatoria di tanti dolori che devono restare nella nostra memoria perché non ci schiaccino con il loro peso, ma ci rendano capaci di essere più solidali e, quindi, più umani.
 

E questo dovrebbe valere sempre, anche nei tempi che finalmente non saranno più del coronavirus.


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