sabato 28 marzo 2020

Le parole del virus: Infodemia

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Talvolta sono delle circostanze inedite a farti sbattere contro parole fino a quel momento sconosciute, anche se perfettamente attinenti alla professione che pratichi da una vita intera. Il Covid-19 me ne ha fatta conoscere una nuova di zecca: “Infodemia”, che, come epidemia, o pandemia, ha una chiara attinenza con una diffusione contagiosa, ma che si riferisce a una materia, l’informazione, di cui, fino a non molti anni fa, nessuno, tranne i satrapi, i dittatori e i delinquenti, teorizzavano una possibile pericolosità.


Si tratta, ovviamente, di un neologismo, ma che trova già legittimo posto nel “Vocabolario Treccani” che così ne descrive il significato: «infodemia s. f. Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili» e che ne colloca la nascita sul quotidiano “Washington Post” dell’11 maggio 2003. Inoltre ne puntualizza anche, ove ce ne fosse bisogno, l’etimo inglese: «infodemic è composto da due parti dei sostantivi info(rmation) (informazione) ed (epi)demic (epidemia).

Non è che, come dimostra la data di nascita della parola, prima di oggi non si soffrisse di ridondanza di informazioni apparenti, ma oggi il rilievo delle truffe che in questa realtà si annidano è decisamente maggiore perché finisce per mettere in gioco la salute individuale e quella collettiva. Parlo esplicitamente di “truffa” perché, se tutti hanno diritto di esprimere il loro pensiero, non hanno anche quello di turlupinare gli altri e l’imbroglio non si concretizza soltanto con trucchi di destrezza, manuali o vocali, per appropriarsi di soldi altrui, ma anche trasmettendo false informazioni e presentandole come vere per indirizzare sulla strada sbagliata chi le legge, o le sente. Questo è già comunemente praticato dalla pubblicità e dalla politica che nei suoi aspetti deteriori assomiglia davvero a uno spot che può contenere soltanto slogan, perché la sostanza è del tutto latitante. Ma anche in quei casi non è accettabile.

Spesso si sente riversare le colpe di questa infodemia, già dilagante prima dell’avvento del coronavirus, su internet, sui social, sulle infinite possibilità che ci sono offerte dall’informatizzazione e che non sempre sfruttiamo in maniera degna. Ma è un errore, come un errore sarebbe tentare di limitarne l’uso. Per dare un esempio, noi sappiamo benissimo che statisticamente ogni giorno in Italia otto persone muoiono per incidenti di vario genere su strade e autostrade. Ovviamente, però, nessuno si sogna di proibire l’uso delle automobili, bensì ci si preoccupa di migliorare il Codice della strada e, poi, di fare tutto il possibile per farlo rispettare. Anche nel caso dell’infodemia, insomma, in caso di “incidente” la colpa non va attribuita al mezzo, ma a chi lo usa in maniera attiva e anche passiva.

La prima eventualità si può verificare se sono dei professionisti dell’informazione a truffare lettori e ascoltatori. Se lo fanno in malafede, il giudizio di condanna è facile e irreversibile. E anche se lo fanno per leggerezza, la condanna non può essere evitata perché professionalità giornalistica non significa soltanto saper trovare e verificare le notizie e poi tradurle in un brano letterariamente valido e in un titolo accattivante inseriti in una pagina graficamente gradevole: potrebbe farlo chiunque, e con relativamente poco addestramento. Perché un mestiere diventi professione, invece, deve poggiare su un solido substrato etico in quanto si deve tenere ben presente che il verbo “informare” non riesce mai a essere disgiunto dal verbo “formare”, mentre deve essere nettamente separato dal “disinformare”. E, per dare contorni ancora un po’ più definiti al tema, l’obbligo di una moralità, di una deontologia, esiste non perché la professione giornalistica nasca per educare, ma perché, se questa eticità manca, ne consegue, in maniera praticamente automatica, che finisce per diseducare. E di esempi purtroppo ne abbiamo avuti a bizzeffe.

Il secondo caso riguarda coloro che senza alcuna preparazione e con smania di protagonismo inondano la rete non con commenti, sempre leciti anche se non sempre condivisibili e talora addirittura inaccettabili, ma con notizie false. E in questo caso, dopo aver fatto il possibile per sensibilizzare tutti sul tema, appare difficile non pensare a sanzionare in qualche modo coloro che continuano a propalare, senza effettuare il minimo controllo, notizie false. E non si tratta di punirli come aspiranti giornalisti incauti, ma come veri truffatori.

La terza circostanza chiama in causa lettori e ascoltatori che, dando credito a chi da tempo continua a riempire carta ed etere di falsità, sono simili a coloro che, in altro campo, sono colpevoli di una specie di “incauto acquisto”. Ma non solo, in quanto hanno la grande responsabilità di dare retta a truffatori che, se nessuno li seguisse, sarebbero condannati a una specie di “damnatio memoriae”; smetterebbero perché non ne trarrebbero più alcuna soddisfazione.

Ecco: quando il Covid-19 se ne sarà finalmente andato, a noi dovrebbe restare anche questo insegnamento e l’insofferenza ad ascoltare coloro che, pur privi di ogni conoscenza e competenza, continuano a blaterare senza alcun senso del limite. Anche quando torneranno a farlo nella pubblicità e, soprattutto, nella politica.

Le altre parole: Anonimo, Confine, Denaro, Futuro, Libertà, Scelta

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