In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Talvolta sono delle circostanze inedite a farti sbattere contro parole
fino a quel momento sconosciute, anche se perfettamente attinenti alla
professione che pratichi da una vita intera. Il Covid-19 me ne ha fatta
conoscere una nuova di zecca: “Infodemia”, che, come epidemia, o
pandemia, ha una chiara attinenza con una diffusione contagiosa, ma che
si riferisce a una materia, l’informazione, di cui, fino a non molti
anni fa, nessuno, tranne i satrapi, i dittatori e i delinquenti,
teorizzavano una possibile pericolosità.
Si tratta, ovviamente, di un neologismo, ma che trova già legittimo posto nel “Vocabolario Treccani”
che così ne descrive il significato: «infodemia s. f. Circolazione di
una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con
accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato
argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili» e che ne
colloca la nascita sul quotidiano “Washington Post” dell’11 maggio 2003. Inoltre ne puntualizza anche, ove ce ne fosse bisogno, l’etimo inglese: «infodemic è composto da due parti dei sostantivi info(rmation) (informazione) ed (epi)demic (epidemia).
Non è che, come dimostra la data di
nascita della parola, prima di oggi non si soffrisse di ridondanza di
informazioni apparenti, ma oggi il rilievo delle truffe che in questa
realtà si annidano è decisamente maggiore perché finisce per mettere in
gioco la salute individuale e quella collettiva. Parlo esplicitamente di
“truffa” perché, se tutti hanno diritto di esprimere il loro pensiero,
non hanno anche quello di turlupinare gli altri e l’imbroglio non si
concretizza soltanto con trucchi di destrezza, manuali o vocali, per
appropriarsi di soldi altrui, ma anche trasmettendo false informazioni e
presentandole come vere per indirizzare sulla strada sbagliata chi le
legge, o le sente. Questo è già comunemente praticato dalla pubblicità e
dalla politica che nei suoi aspetti deteriori assomiglia davvero a uno
spot che può contenere soltanto slogan, perché la sostanza è del tutto
latitante. Ma anche in quei casi non è accettabile.
Spesso si sente riversare le colpe
di questa infodemia, già dilagante prima dell’avvento del coronavirus,
su internet, sui social, sulle infinite possibilità che ci sono offerte
dall’informatizzazione e che non sempre sfruttiamo in maniera degna. Ma è
un errore, come un errore sarebbe tentare di limitarne l’uso. Per dare
un esempio, noi sappiamo benissimo che statisticamente ogni giorno in
Italia otto persone muoiono per incidenti di vario genere su strade e
autostrade. Ovviamente, però, nessuno si sogna di proibire l’uso delle
automobili, bensì ci si preoccupa di migliorare il Codice della strada
e, poi, di fare tutto il possibile per farlo rispettare. Anche nel caso
dell’infodemia, insomma, in caso di “incidente” la colpa non va
attribuita al mezzo, ma a chi lo usa in maniera attiva e anche passiva.
La prima eventualità si può
verificare se sono dei professionisti dell’informazione a truffare
lettori e ascoltatori. Se lo fanno in malafede, il giudizio di condanna è
facile e irreversibile. E anche se lo fanno per leggerezza, la condanna
non può essere evitata perché professionalità giornalistica non
significa soltanto saper trovare e verificare le notizie e poi tradurle
in un brano letterariamente valido e in un titolo accattivante inseriti
in una pagina graficamente gradevole: potrebbe farlo chiunque, e con
relativamente poco addestramento. Perché un mestiere diventi
professione, invece, deve poggiare su un solido substrato etico in
quanto si deve tenere ben presente che il verbo “informare” non riesce
mai a essere disgiunto dal verbo “formare”, mentre deve essere
nettamente separato dal “disinformare”. E, per dare contorni ancora un
po’ più definiti al tema, l’obbligo di una moralità, di una deontologia,
esiste non perché la professione giornalistica nasca per educare, ma
perché, se questa eticità manca, ne consegue, in maniera praticamente
automatica, che finisce per diseducare. E di esempi purtroppo ne abbiamo
avuti a bizzeffe.
Il secondo caso riguarda coloro che
senza alcuna preparazione e con smania di protagonismo inondano la rete
non con commenti, sempre leciti anche se non sempre condivisibili e
talora addirittura inaccettabili, ma con notizie false. E in questo
caso, dopo aver fatto il possibile per sensibilizzare tutti sul tema,
appare difficile non pensare a sanzionare in qualche modo coloro che
continuano a propalare, senza effettuare il minimo controllo, notizie
false. E non si tratta di punirli come aspiranti giornalisti incauti, ma
come veri truffatori.
La terza circostanza chiama in causa
lettori e ascoltatori che, dando credito a chi da tempo continua a
riempire carta ed etere di falsità, sono simili a coloro che, in altro
campo, sono colpevoli di una specie di “incauto acquisto”. Ma non solo,
in quanto hanno la grande responsabilità di dare retta a truffatori che,
se nessuno li seguisse, sarebbero condannati a una specie di “damnatio memoriae”; smetterebbero perché non ne trarrebbero più alcuna soddisfazione.
Ecco: quando il Covid-19 se ne sarà
finalmente andato, a noi dovrebbe restare anche questo insegnamento e
l’insofferenza ad ascoltare coloro che, pur privi di ogni conoscenza e
competenza, continuano a blaterare senza alcun senso del limite. Anche
quando torneranno a farlo nella pubblicità e, soprattutto, nella
politica.
Le altre parole: Anonimo, Confine, Denaro, Futuro, Libertà, Scelta
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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