In questo
terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui
abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso
fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non
dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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In una situazione senza precedenti si
sta verificando un avvenimento senza precedenti: stiamo assistendo al
fatto che il Covid-19 è riuscito, sia pur temporaneamente, anche a
cambiare il rapporto dell’uomo con il denaro che, per la prima volta,
viene visto separato, sia dal possesso, sia dalla produzione. Per una
volta è lo Stato a decidere che, in maniera ufficiale e diffusa, la
ricchezza – anche un tozzo di pane può essere ricchezza –sia data a chi
ne ha bisogno senza chiedere nulla in cambio.
Non
è una scelta dettata da considerazioni filosofiche o sociali, ma
imposta dalla necessità: la chiusura di fabbriche e negozi, l’inattività
obbligata non soltanto delle cosiddette "partite Iva", ma anche di
coloro che non sono minimamente difesi da tutti quegli estemporanei
contratti messi in campo dallo sciagurato Jobs Act, ha tolto ogni
possibilità di ricavo di denaro a troppe persone che, tra l’altro, quasi
certamente non hanno depositi bancari a cui attingere per comperare
cibo e medicine, o per ottemperare ad altri impegni economici non
differibili. Senza dimenticare, poi, quelli che vivono di spettacoli
oggi totalmente sospesi.
Per
la prima volta dopo molto tempo, insomma, si assiste al fatto che è
possibile vedere concretizzarsi un mondo in cui non è il denaro a essere
determinante nelle decisioni della politica, ma sono le necessità delle
persone, e quindi la centralità dell’essere umano, ad avere il peso
necessario per indirizzarne le scelte. La domanda sorge spontanea: se
questa situazione è possibile temporaneamente, perché non si potrebbe
pensare di farla diventare stabile, definitiva? Perché non sforzarsi di
pianificare una società in cui ognuno lavori con impegno mettendo in
pratica le proprie capacità e, in cambio possa ottenere tutto quello che
gli serve e desidera, mettendo fuori gioco proprio il denaro?
Un
utopia? Certamente. Ma non è mia e neppure di Karl Marx. È decisamente
più antica ed è nipote di Platone che ne descrive la maggior parte delle
basi nel suo “Repubblica”, e figlia di Tommaso Moro che nel 1516
pubblica un libro in cui descrive l’isola di Utopia abitata da una
cosiddetta “società ideale” che si differenzia dalle altre in tantissimi
campi e nella quale oro e argento sono considerati privi di valore,
mentre i cittadini non possiedono denaro ma, lavorando ciascuno secondo
le proprie inclinazioni e capacità, si servono dei magazzini generali
secondo i loro bisogni e desideri.
Intendiamoci: desidero soltanto soffermarmi sul ruolo dato al denaro in
quanto nelle visioni di Moro non ci sono ancora realtà sviluppatesi nei
secoli a venire: il senso di partecipazione democratica; il fatto che il
lavoro, com’è splendidamente messo in luce dall’articolo uno della
nostra Costituzione, è anche di dispensatore di dignità, oltre che di
denaro; la realtà che la libertà e la fantasia sono fondamentali nello
sviluppo umano. Però, dato anche il fatto che le società ideali, proprio
per la loro obbligatoria cristallizzazione, non sono umanamente
accettabili, poste queste necessarie premesse e previste le obbligatorie
correzioni, sarebbe davvero impossibile materializzare, almeno in
parte, questo sogno?
Già
nella parola “utopia” c’è una risposta affermativa a questa
impossibilità, ma bisognerebbe anche ricordare che, mentre noi diamo per
scontato che il nome dell’isola derivi etimologicamente dal greco “ou”
(non) e “topos” (luogo), lo stesso Moro ha lasciato intendere che la
prima parte del nome potesse derivare da “eu” (bello), anticipando così
quel sogno odierno che dipinge l’utopia non come un luogo che non
esiste, ma come un bel posto che non si è ancora raggiunto.
Se
pensiamo al denaro nel nostro mondo, non possiamo non attribuirgli sia
un’importante compito di funzionamento della società e di relazione con
gli altri, sia l’opposta capacità di dissolvere i vincoli fondamentali
della società stessa e di privarla del senso di solidarietà. E, del
resto, nella lista delle cose imprescindibili che ci si porterebbe
dietro su un’isola deserta, nessuno includerebbe il denaro.
Eppure
le prove che il denaro, che quasi sempre si identifica con il potere,
con la scusa della sua necessaria esistenza, possa corrompere ogni
aspetto della nostra società sono tantissime. Si va dall’eclatante caso
di Donald Trump che ritiene normale offrire un miliardo di dollari
(ovviamente non suoi) per comperare il futuro vaccino contro il Conad-19
e per destinarlo esclusivamente ai cittadini statunitensi, in maniera
da assicurarsi la rielezione, ad aspetti di cui non si parla mai e che,
invece, sono estremamente descrittivi.
Pensate
al mondo del calcio che, vista la sospensione dell’attività, sventola
la possibilità di bancarotte diffuse, ma non soltanto nell’opulenta
serie A, ormai più spettacolo che sport, che vive di incassi, ma
soprattutto di diritti televisivi: la minaccia è estesa anche alle serie
minori e all’attività giovanili per le quali spesso a essere
insostenibili sono già le iscrizioni ai campionati e le tasse-gara che
le federazioni, però, non si sognano di ritoccare in basso. Forse
moriranno gli attuali campionati, ma, in tal caso, sicuramente
rinascerebbero quelle realtà che cinquant’anni fa permettevano a tutti
di giocare, e senza dover pagare neppure l’ingresso nelle varie società.
E tutto questo, sia pure in maniere e proporzioni diverse, riguarda
anche tutti gli altri sport che una volta erano anche occasioni di
incontro, socializzazione, insegnamento al rispetto delle regole e che
ora sono troppo spesso inquinati da insofferenze e odi per i diversi; di
qualsiasi diversità si tratti.
Quando
finalmente il coronavirus porterà via se stesso e, con sé, le nostre
paure e ci lascerà piangere in pace i nostri lutti, spazzerà via
sicuramente anche questa temporanea utopia di un mondo in cui il denaro
non domina tutto. E ci lascerà la certezza che i soldi sono davvero,
come li ha definiti san Basilio Magno, lo sterco del diavolo, ma anche
che , purtroppo nessuno riuscirà mai a tirare lo sciacquone. E, però,
con la sicurezza che qualche correttivo bisognerà pur trovarlo.
Le altre parole: Anonimo, Confine, Libertà, Scelta
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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