giovedì 26 marzo 2020

Le parole del virus: Denaro

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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In una situazione senza precedenti si sta verificando un avvenimento senza precedenti: stiamo assistendo al fatto che il Covid-19 è riuscito, sia pur temporaneamente, anche a cambiare il rapporto dell’uomo con il denaro che, per la prima volta, viene visto separato, sia dal possesso, sia dalla produzione. Per una volta è lo Stato a decidere che, in maniera ufficiale e diffusa, la ricchezza – anche un tozzo di pane può essere ricchezza –sia data a chi ne ha bisogno senza chiedere nulla in cambio.


Non è una scelta dettata da considerazioni filosofiche o sociali, ma imposta dalla necessità: la chiusura di fabbriche e negozi, l’inattività obbligata non soltanto delle cosiddette "partite Iva", ma anche di coloro che non sono minimamente difesi da tutti quegli estemporanei contratti messi in campo dallo sciagurato Jobs Act, ha tolto ogni possibilità di ricavo di denaro a troppe persone che, tra l’altro, quasi certamente non hanno depositi bancari a cui attingere per comperare cibo e medicine, o per ottemperare ad altri impegni economici non differibili. Senza dimenticare, poi, quelli che vivono di spettacoli oggi totalmente sospesi.

Per la prima volta dopo molto tempo, insomma, si assiste al fatto che è possibile vedere concretizzarsi un mondo in cui non è il denaro a essere determinante nelle decisioni della politica, ma sono le necessità delle persone, e quindi la centralità dell’essere umano, ad avere il peso necessario per indirizzarne le scelte. La domanda sorge spontanea: se questa situazione è possibile temporaneamente, perché non si potrebbe pensare di farla diventare stabile, definitiva? Perché non sforzarsi di pianificare una società in cui ognuno lavori con impegno mettendo in pratica le proprie capacità e, in cambio possa ottenere tutto quello che gli serve e desidera, mettendo fuori gioco proprio il denaro?

Un utopia? Certamente. Ma non è mia e neppure di Karl Marx. È decisamente più antica ed è nipote di Platone che ne descrive la maggior parte delle basi nel suo “Repubblica”, e figlia di Tommaso Moro che nel 1516 pubblica un libro in cui descrive l’isola di Utopia abitata da una cosiddetta “società ideale” che si differenzia dalle altre in tantissimi campi e nella quale oro e argento sono considerati privi di valore, mentre i cittadini non possiedono denaro ma, lavorando ciascuno secondo le proprie inclinazioni e capacità, si servono dei magazzini generali secondo i loro bisogni e desideri.
 

Intendiamoci: desidero soltanto soffermarmi sul ruolo dato al denaro in quanto nelle visioni di Moro non ci sono ancora realtà sviluppatesi nei secoli a venire: il senso di partecipazione democratica; il fatto che il lavoro, com’è splendidamente messo in luce dall’articolo uno della nostra Costituzione, è anche di dispensatore di dignità, oltre che di denaro; la realtà che la libertà e la fantasia sono fondamentali nello sviluppo umano. Però, dato anche il fatto che le società ideali, proprio per la loro obbligatoria cristallizzazione, non sono umanamente accettabili, poste queste necessarie premesse e previste le obbligatorie correzioni, sarebbe davvero impossibile materializzare, almeno in parte, questo sogno?

Già nella parola “utopia” c’è una risposta affermativa a questa impossibilità, ma bisognerebbe anche ricordare che, mentre noi diamo per scontato che il nome dell’isola derivi etimologicamente dal greco “ou” (non) e “topos” (luogo), lo stesso Moro ha lasciato intendere che la prima parte del nome potesse derivare da “eu” (bello), anticipando così quel sogno odierno che dipinge l’utopia non come un luogo che non esiste, ma come un bel posto che non si è ancora raggiunto.

Se pensiamo al denaro nel nostro mondo, non possiamo non attribuirgli sia un’importante compito di funzionamento della società e di relazione con gli altri, sia l’opposta capacità di dissolvere i vincoli fondamentali della società stessa e di privarla del senso di solidarietà. E, del resto, nella lista delle cose imprescindibili che ci si porterebbe dietro su un’isola deserta, nessuno includerebbe il denaro.

Eppure le prove che il denaro, che quasi sempre si identifica con il potere, con la scusa della sua necessaria esistenza, possa corrompere ogni aspetto della nostra società sono tantissime. Si va dall’eclatante caso di Donald Trump che ritiene normale offrire un miliardo di dollari (ovviamente non suoi) per comperare il futuro vaccino contro il Conad-19 e per destinarlo esclusivamente ai cittadini statunitensi, in maniera da assicurarsi la rielezione, ad aspetti di cui non si parla mai e che, invece, sono estremamente descrittivi.

Pensate al mondo del calcio che, vista la sospensione dell’attività, sventola la possibilità di bancarotte diffuse, ma non soltanto nell’opulenta serie A, ormai più spettacolo che sport, che vive di incassi, ma soprattutto di diritti televisivi: la minaccia è estesa anche alle serie minori e all’attività giovanili per le quali spesso a essere insostenibili sono già le iscrizioni ai campionati e le tasse-gara che le federazioni, però, non si sognano di ritoccare in basso. Forse moriranno gli attuali campionati, ma, in tal caso, sicuramente rinascerebbero quelle realtà che cinquant’anni fa permettevano a tutti di giocare, e senza dover pagare neppure l’ingresso nelle varie società. E tutto questo, sia pure in maniere e proporzioni diverse, riguarda anche tutti gli altri sport che una volta erano anche occasioni di incontro, socializzazione, insegnamento al rispetto delle regole e che ora sono troppo spesso inquinati da insofferenze e odi per i diversi; di qualsiasi diversità si tratti.

Quando finalmente il coronavirus porterà via se stesso e, con sé, le nostre paure e ci lascerà piangere in pace i nostri lutti, spazzerà via sicuramente anche questa temporanea utopia di un mondo in cui il denaro non domina tutto. E ci lascerà la certezza che i soldi sono davvero, come li ha definiti san Basilio Magno, lo sterco del diavolo, ma anche che , purtroppo nessuno riuscirà mai a tirare lo sciacquone. E, però, con la sicurezza che qualche correttivo bisognerà pur trovarlo.

Le altre parole: Anonimo, Confine, Libertà, Scelta

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