martedì 28 ottobre 2025

Il giorno dei morti

Non so se la scelta della data sia frutto di una casualità, ma, se così non fosse, bisognerebbe ammettere che chi l’ha decisa è dotato di una dose di humor nero decisamente superiore a quello portato sullo schermo da registi come Luis Buñuel e Marco Ferreri. Il 2 novembre, infatti è stato fissato come ultimo giorno in cui il governo italiano potrà chiedere la cessazione del Memorandum d'intesa con la Libia. Se non lo farà, il 2 febbraio 2026 l'accordo verrà automaticamente rinnovato per altri tre anni.

Per capirci, il Memorandum d'intesa è quel criminale patto che, sotto la copertina che parla di lotta al terrorismo, contiene gli strumenti che l’Italia regala alla Libia – e segnatamente alla sua guardia costiera – per bloccare, magari mitragliandoli i barconi di quei disgraziati che fuggono da guerre, carestie, epidemie, dittature, per cercare di salvare sé stessi e i propri figli. Come se già non bastassero le onde del mare e le disastrose condizioni delle barche, per garantire che ci saranno quelle migliaia di annegati che fanno del Mediterraneo il più grande e affollato cimitero del globo.

Il 2 novembre, per chi non lo ricordasse è il giorno dei morti e, grazie a questa scadenza, che sicuramente il governo Meloni non vorrà usare per interrompere l’accordo, non sarà più soltanto il giorno in cui si rivolge un reverente pensiero a chi non c’è più, ma anche quello in cui già si celebreranno le altre migliaia di bambini, donne e uomini che mai riusciranno a toccare di nuovo terra da vivi,

Non posso credere che Meloni, Salvini, Piantedosi, Nordio e compagnia, dopo aver riaccompagnato al-Masri a casa con un aereo di Stato, possano pensare di interrompere il rapporto mandante-sicario con la Libia e neppure mi immagino che il pavido Tajani, pur non inneggiando alla scelta, possa distaccarsene, ma sono sicuro che questa potrebbe essere almeno un’occasione per riflettere su come noi – intesi come popolo italiano, anche se pure all’estero succedono cose molto simili – stiamo intendendo quella che una volta era chiamata “la politica” e sul perché – almeno credo – molti di noi ormai con questa politica non vogliano avere più nulla a che fare, neppure nel breve impegno che richiede un voto.

Se il sovranismo, infatti è l’atteggiamento di chi vuol far star bene sé stesso e i propri vicini, anche a detrimento degli altri, la politica è l’arte di tentare di migliorare le condizioni di vita di tutti, anche di coloro che non ci sono né parenti, né amici, né vicini. E così è evidente la ripulsa che provo nei confronti della Meloni, che invocava non soltanto l’affondamento dei barchini dei migranti, ma anche quello delle navi delle ONG che incrociavano nel Mediterraneo per salvarli, o di Salvini, orgoglioso estensore dei suoi cosiddetti “decreti sicurezza” che, tra l’altro fanno il possibile per rendere impossibile ogni soccorso nella schifosa idea che ogni nuovo cadavere annegato possa fungere da spaventapasseri nei confronti di altri disperati, o di Piantedosi, che da fedele servitore di Salvini da funzionario del ministero, continua a mantenere la medesima obbedienza anche da titolare.

E così non posso che pensare con assoluto sdegno a Conte che, pur ammettendo oggi di avere sbagliato, da presidente del Consiglio, ha controfirmato sorridendo quei decreti Salvini. E lo stesso raccapriccio provo per Minniti che è stata la mente che ha escogitato la schifezza che sta per rinnovarsi per tre anni, ma anche per Gentiloni che, da allora presidente del Consiglio, ha consentito che i piani di Minniti, che per i migranti impedivano anche un secondo grado di giudizio, diventassero realtà.

Faccio questo elenco di personaggi per me esecrabili, non soltanto per rinfrescare un po’ la memoria a coloro che mi leggono, ma soprattutto per indicare il fatto che ormai da decenni quella che ci ostiniamo a chiamare politica ha perduto la sua funzione di ricerca del bene comune perché ha rafforzato i suoi legami con l’economia e con quel rifiuto degli altri che ormai è stata ribattezzata “sicurezza”, ma soprattutto ha reciso di netto ogni contatto con l’etica.

E se la scienza, la tecnologia e l’economia prive di contenuti etici rischiano di creare problemi spaventosi, la politica senza etica è un disastro senza paragoni perché consente tutto, anche l’essere mandante di sicari che uccidono o fanno morire i più disgraziati, gli ultimi; anche di intraprendere guerre per dimostrare di essere i più forti; gli eletti.

E a questo punto, almeno per chi è più giovane e ha ancora forze intatte, non può più essere sufficiente l’andare a votare: occorre davvero fare politica, almeno manifestando esplicitamente ogni volta che si può, anche al bar, a scuola, per strada, che è l’etica a dirigere la politica. E non viceversa.

sabato 18 ottobre 2025

Due eventi, non uno soltanto

Credo sia il caso di tornare sulla manifestazione udinese perché su stampa e televisioni assortite si notano ben più distintamente i commenti sugli incidenti scoppiati a manifestazione conclusa che sulle motivazioni che hanno portato a scendere in strada migliaia di cittadini che condannano le violenze, le invasioni e gli assassinii del governo Netanyahu e si esprimono in favore del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Sono sicuramente antisionisti, laddove sionismo è considerato sinonimo di imperialismo, e contemporaneamente non sono minimamente antisemiti in quanto considerano tutti gli uomini uguali, a prescindere dal colore della pelle, dalla lingua, dalla religione e dall’etnia. E lo fanno anche perché fossero loro in quella condizione vorrebbero che qualcuno manifestasse per loro.

Il fatto è che la stragrande maggioranza degli articoli che ho letto non prende in considerazione un aspetto fondamentale: se, infatti, parliamo di quello che è accaduto martedì sera, non dobbiamo riferirci a un evento unico, ma a due realtà completamente staccate tra loro.

La prima era un corteo, assolutamente pacifico, da ben oltre diecimila persone, donne e uomini, giovani e vecchi, rumorosi ma ordinati, che hanno sfilato nelle vie di Udine per qualcosa che, vista la distanza da dove la strage è avvenuta, teoricamente non avrebbe dovuto riguardarli; però hanno comunque deciso di protestare contro chi ammazza bambini, donne, uomini che nulla hanno a che fare con il terrorismo, contro coloro che sganciano bombe e mitragliano indiscriminatamente; contro quello che si vanta di aver fornito quelle bombe, quelle mitragliatrici e quei proiettili e che pretenderebbe gli dessero il Nobel per la pace perché, come ha detto Tacito, è stato sodale con coloro che hanno creato un deserto e l’hanno chiamato pace.

La seconda riguarda un centinaio, o poco più, di malintenzionati già decisi a provocare il caos visto che, già prima che il corteo vi arrivasse, urlavano in piazza Primo maggio che volevano arrivare allo stadio, ben sapendo che sarebbe stato impossibile, e che poi hanno ripetuto anche a Udine quello che avevano già inscenato in altre occasioni e in altre città: scontri con le forze dell’ordine, violenza assortite, incendi dei contenitori stradali delle immondizie.

Alcuni hanno detto che «gli organizzatori avrebbero dovuto isolare le decine di mele marce per difendere una manifestazione che era stata pacifica». Sono assolutamente d’accordo che i malintenzionati, magari già distinguibili in partenza perché celati dietro un passamontagna o qualche sciarpa, avrebbero dovuto essere isolati e allontanati dalla manifestazione, ma questo compito non era degli organizzatori, bensì delle forze dell’ordine che, oltre a possedere una professionalità che i civili non hanno, possono fruire anche di ricchi archivi e casellari giudiziali in cui nomi, cognomi, fotografie e curricula dei violenti sono già praticamente a disposizione per tempestive identificazioni.

Taluni dicono che polizie e carabinieri non devono intervenire preventivamente perché il loro compito è quello di difendere i cittadini, le proprietà private e gli arredi urbani. D’accordo, ma coloro che scendono in piazza contro il genocidio praticato contro la popolazione palestinese, non sono cittadini anche loro? Non hanno anche loro diritto alla protezione delle forze dell’ordine?

Ho sentito un’esponente della destra – purtroppo l’autodifesa della mia mente ne ha cancellato immediatamente il none – che diceva che ogni manifestazione dovrebbe essere cancellata se gli organizzatori non sono in grado di assicurare che non ci saranno incidenti. Nessuna sorpresa che costui non conosca la Costituzione, ma l’unica risposta che posso dargli è che vada a rileggersi (o più probabilmente a leggersi per la prima volta) l’articolo 21 e l’articolo 17 della nostra Carta fondamentale.

Non è accettabile che si cerchi una scappatoia del genere per evitare che il dissenso diventi troppo visibile e fastidioso. E sinceramente avrei difficoltà a discuterne anche se preventivamente, per lo stesso timore di disordini, fossero proibiti, o costretti a porte chiuse, i derby calcistici Roma-Lazio, Genoa-Sampdoria, Inter-Milan, Juventus Torino e, magari, un futuribile Udinese-Triestina. Ma sono sicuro che questo non succederà mai perché gli spettacoli calcistici, a differenza delle manifestazioni sociali e politiche in cui partecipano cittadini indignati e disinteressati, muovono ingenti masse di denaro.

Quelli che hanno sfilato non sono coloro che hanno commesso violenze e per loro non c’è da parlare di condanne perché hanno marciato per protestare, ma soprattutto per dimostrare che è di nuovo necessario sognare: immaginare e volere un mondo diverso in cui cessino le discriminazioni, i razzismi, i fondamentalismi religiosi, le diseguaglianze, il capitalismo senza freni e la povertà senza salvagenti. Un mondo di pace vera e non soltanto di assenza di spari.

È un’utopia? Sicuramente sì, ma l’aria senza utopie sarebbe irrespirabile e le utopie, del resto non sono luoghi inesistenti, ma soltanto posti in cui non si è ancora riusciti ad arrivare.

La mia emozione di aver visto tanti sognatori messi insieme è ancora fortissima e posso capire chi teme che una simile massa di persone trovi la voglia di tornare ad andare alle urne.

venerdì 3 ottobre 2025

Un sorriso vi seppellirà

A decine, centinaia di migliaia praticamente in tutte le città, a sventolare bandiere, scandire slogan, marciare in corteo con un senso di partecipazione e di unità che non si vedeva da tantissimi, troppi anni. A riunire tanta gente in strada e nelle piazze, un argomento tra i più tragici che la maggior parte di noi abbia visto accadere in diretta: un genocidio, quello perpetrato dall’esercito di Netanjahu e dei suoi complici nei confronti del popolo palestinese. Non nei confronti di Hamas colpevole di una strage crudele e insensata di oltre milleduecento ebrei “colpevoli” soltanto di essere tali, ma proprio di un intero popolo che, con questa scusa, ora può essere cancellato, o almeno espulso dalla sua terra che diventerà, secondo le parole del vergognoso ministro sionista Smodrich, una vera miniera d’oro immobiliare i cui frutti andranno divisi con l’alleato americano che oggi si identifica con l’affarista immobiliare Donald Drump che un popolo, che ha perduto la bussola democratica, ha portato per la seconda volta alla Casa Bianca.

Il costo? Qualche miliardo di dollari necessari a pagare le armi e i soldati che hanno ammazzato oltre sessantamila esseri umani, per buona parte bambini, donne e anziani che nulla hanno mai avuto a che fare con il terrorismo. E la stima delle vittime è largamente approssimata per difetto.

A rendere ancora più cupo il pensiero che ha accompagnato i manifestanti, la frustrazione e la constatazione della propria impotenza all’interno di una democrazia che sta sbandierando un nome che più non le appartiene perché il popolo è da anni che non può più decidere nulla, nemmeno il nome di coloro che vorrebbe eleggere. È da anni che vede succedere cose che non avrebbe mai voluto vedere: il leader dei 5 stelle che firma i disumani decreti sicurezza assieme a Salvini, un ministro degli interni di targa PD che dà ai libici la licenza di uccidere e gli strumenti per metterla in pratica, una presidente del Consiglio che non si vende a Trump e alle sue criminali follie, ma addirittura si regala, in una cupidigia di servilismo che si soddisfa anche soltanto con la momentanea vicinanza fisica con quello che è l’indegno erede di coloro che una volta venivano chiamati “i capi del mondo libero”.

In strada e nelle piazze, insomma, tutti i motivi possibili per essere tristi, cupi, disperati anche pensando che, ormai non soltanto in Medio Oriente, si parla tranquillamente di guerra e si sostiene che anche la sanità, la scuola, il lavoro, la cultura in genere devono sottostare a ulteriori, forti tagli perché i soldi devono essere destinati a comperare le armi da Trump, proprio dall’idolo di Giorgia Meloni.

Eppure in strada e nelle piazze ci si è quasi stupiti nel vedere i sorrisi dipinti sulla faccia di studenti, giovani, anziani, donne e uomini di qualunque età; anche di disabili in sedia a rotelle, di giovani genitori con bimbi in passeggino. Ed erano sorrisi spontanei, non artefatti e non difficili da decifrare: gli stessi sorrisi che involontariamente fioriscono quando ti svegli da un incubo e ti rendi conto che quello che hai patito nel sogno non è realtà e che quasi sempre puoi benissimo fare in modo che non succeda.

Sorrisi che sgorgano nel vedersi in tanti, insieme, uniti in un sentire comune in cui nessuno sgomita per avere un posto di primo piano, ma tutti avvertono il bisogno, ancor più che la necessità, di opporsi alla disumanità come fondamentale impegno politico, ma ancor prima come dimostrazione di appartenere a un genere umano e non belluino.

Sorrisi che affiorano nel vedersi urlare “No” a un cosiddetto garante che pone limiti assurdi all’articolo 40 della Costituzione, quello che stabilisce il diritto di sciopero, sostenendo che si tratta di uno “sciopero politico”. Ma quale sciopero, di grazia, non è stato politico? Uno non dovrebbe poter protestare se colei che in teoria ti rappresenta si rifiuta di fare qualsiasi cosa di concreto per tentar di fermare chi si sta macchiando di genocidio? Se la stessa persona cerca di convincerti che i rappresentanti di 44 nazioni sono saliti in barca soltanto per far dispetto al governo Meloni? Se usa toni di condanna senza appello per chi porta aiuti umanitari, ma tace davanti a chi fa morire di fame e di malattie curabilissime migliaia di persone? Se interpreta una protesta diffusissima contro sé stessa con la voglia di allungare il week-end per trascorrere l’allungamento in strada, con lo scopo di riaffermare la propria umanità che è ben diversa dalla disumanità di una destra che dimostra di non essere minimamente mai cambiata nelle idee.

La Meloni aveva ragione a tentare di scongiurare questa giornata di protesta: forse aveva già immaginato di vedere quei sorrisi che si schiudono davanti a quella che speriamo sia una ripartenza.

Una volta si diceva: «Una risata vi seppellirà». Oggi non c’è niente da ridere, ma si può ben sperare che sarà un semplice sorriso, quello di questa protesta, a seppellirli.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/ 

venerdì 1 agosto 2025

Attenti alla “likecrazia”

Sono giornate ricchissime di fatti che meriterebbero riflessioni e approfondimenti: finalmente si allarga il numero di coloro che chiamano quello che sta succedendo a Gaza con il suo vero nome, e cioè “genocidio”; anche la Corte europea dà torto al governo Meloni su quell’obbrobrio che è quella specie di carcere costruito in Albania e destinato a rinchiudere esseri umani che non hanno commesso alcun reato e che è costato centinaia di migliaia di euro per qualche decina di poveretti che poi, alla fine, hanno dovuto essere riportati in Italia; continua il vergognoso bullismo di Trump sui dazi al quale corrisponde l’inerzia europea obbligata dai sostenitori del presidente statunitense che, pur di non dispiacere al capo, continuano a dire che va bene così.

E potremmo continuare con altri spunti di discussione. Eppure, nonostante tutto, credo che sia il caso di soffermarsi per un momento su quello che sta accadendo in Calabria dove il presidente di quella Regione, Roberto Occhiuto, indagato per corruzione, dopo aver avvertito i suoi capi di coalizione – Giorgia Meloni, Antonio Tajani, Matteo Salvini e Maurizio Lupi – ha deciso di dimettersi ma per ricandidarsi immediatamente.

Si tratta di una mossa inedita che, però, si inserisce perfettamente nel modo di intendere giustizia e soprattutto democrazia da parte dei partiti di destra attualmente al governo. La decisione di Occhiuto, infatti, ben lungi dal rispettare scelte, modalità e tempi della magistratura e, quindi, delle leggi in vigore, altro non fa che negarne la funzione e l’autorità non soltanto rifiutando la separazione dei poteri che è la base di ogni democrazia che non stia già franando nel satrapismo, ma, anzi dando a un teorico popolo la preminenza sulla giustizia e confermando quella teoria malata che però sta sempre più prendendo piede, secondo la quale chi vince le elezioni può fare quello che vuole e non deve essere assolutamente disturbato da nessuno: opposizione, giustizia, informazione, manifestazioni di dissenso più o meno organizzato.

Occhiuto, infatti, oltre che autoassolversi preventivamente, finisce col dire che l’inchiesta della magistratura deve sottomettersi ai risultati delle prossime elezioni. Avrebbe già dovuto farlo – è sottinteso – al risultato delle elezioni precedenti, ma adesso, sempre che sia ricandidato e rieletto, chi potrebbe – secondo lui – avere la sfrontatezza di rimetterlo sotto giudizio?

Cioè, per essere più chiari, secondo Occhiuto e i suoi capi che gli hanno dato l’ok, la giustizia vale talmente poco da dover tacere se un certo numero di cittadini vota per lui. Magari perché disinformati, magari in quanto spinti da quelle forze che sono coinvolte nelle accuse di corruzione, magari perché del tutto indifferenti a Occhiuto, ma fedeli ai partiti che lo hanno sostenuto.

Sarebbe sempre il caso di ricordare che democrazia non vuol dire soltanto voto, ma è un complesso meccanismo di scelta collettivo nel quale le basi sono l’informazione, la conoscenza, la discussione, la scelta delle parti e soltanto alla fine il voto che, tra l’altro fornisce un risultato temporaneo, anche se, disgraziatamente, maggioritario.

Quella imboccata da Occhiuto è una strada già prefigurata dalla destra in altre occasioni, ma finora mai imboccata con decisione. Ed è una strada pericolosissima che rischia di mandare in frantumi il concetto di democrazia, e quindi di libertà, per dare vita a un qualcosa che, con un neologismo, potremmo chiamare “likecrazia” nella quale l’importante diventa non la capacità, la rettitudine, il programma sociale, ma soltanto la simpatia e la capacità di fare propaganda per raccogliere il numero maggiore possibile di quei “like” che – i social insegnano – non soltanto non sono in grado di definire ciò che è giusto, ma che possono rovesciarsi da un momento all’altro e trasformare il pollice in su in pollice verso.

Sarebbe il caso di cominciare a prendere davvero sul serio anche quelle che, a prima vista, possono apparire come delle buffonate.

venerdì 25 luglio 2025

Cara democrazia

Nel 2006 Ivano Fossati scriveva la canzone “Cara democrazia” nella quale, tra l’altro, cantava: «Cara, cara democrazia / sono stato al tuo gioco / anche quando il gioco / si era fatto pesante». Adesso, a quasi vent’anni di distanza, il gioco in Italia si è fatto davvero molto pesante. Alcuni potrebbero anche obbiettare che, davanti ai comportamenti disumani, autocratici e dispotici di gente come Netanyahu e Trump, solo per fermarci ai due più nominati in questo periodo, noi non dovremmo lamentarci più di tanto, ma la strada che abbiamo imboccato è una discesa nella quale, se non azioneremo in tempo i freni, saremo condannati a veder sfracellare la nostra democrazia e, quindi, noi stessi.

Per convincercene basta osservare nei dettagli la riforma costituzionale “della giustizia” nella quale ci si ferma soprattutto a considerare la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante e a mettere in rilievo che questo era il progetto di Licio Gelli e della sua P2, il sogno di Berlusconi, un obbiettivo primario di quella destra che sta cancellando per legge molti reati dei cosiddetti “colletto bianchi”, mentre ne inventa di nuovi per tutti coloro che non sono d’accordo. Intanto la stragrande maggioranza della magistratura stessa la considera una mordacchia proprio contro i giudici: alla faccia della tanto sbandierata separazione dei poteri.

Secondo me, però, l’agonia della democrazia la si può ancor meglio contemplare in quello che è considerato un aspetto accessorio della riforma e che, invece, è una specie di cartina al tornasole della reale aderenza dell’attuale maggioranza allo spirito democratico. Mi riferisco al sistema di designazione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, anzi dei due CSM che saranno necessari dopo l’approvazione di questa legge costituzionale che è stata scritta dal governo in carica, che, per sicurezza, ha addirittura impedito che il Parlamento, prima di votare, potesse presentare le proprie controproposte.

La designazione, infatti, secondo la nuova legge, sarà effettuata non per elezione, ma per sorteggio. Ora ripensate al primo comma dell’articolo 1 della nostra Costituzione: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Lasciamo per un momento perdere le considerazioni sul lavoro che, molto spesso, se c’è, non è né dignitoso, né in grado di fornire i mezzi per vivere dignitosamente, ma ditemi: cosa c’è di democratico in un sorteggio? E come può la politica abdicare alla propria natura che prevede obbiettivi, discussioni e scelte, per preferire il caso?

La risposta è semplice: perché in nessun’altra maniera, almeno per un congruo numero di anni, la destra potrebbe sperare, viste anche le sue leggi e i suoi condoni sempre assolutamente diretti verso una sola e ben identificata parte della popolazione, di raggiungere una maggioranza per via elettorale nel, o nei, CSM. Senza tener conto che è decisamente più facile pensar di taroccare un sorteggio che un’elezione.

Interessante, oltre che rivelatrice, è anche la motivazione con la quale si giustifica questa scelta: bisogna limitare lo strapotere delle correnti interne alla magistratura, come se le associazioni di persone che la pensano in maniera molto simile fosse un ostacolo alla democrazia. Vista la loro evidente insofferenza nei confronti di una Costituzione nata tenendo ben presente il drammatico e schifoso ventennio fascista in cui il pensiero unico era obbligatorio, sarebbe il caso di ricordare a Meloni e complici, di cui il ministro Nordio è soltanto quello più in vista, che l’artico 18 della nostra carta dice che «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale» e che l’articolo 49 addirittura precisa: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Le cosiddette correnti, insomma, altro non sono che piccoli partiti di interesse settoriale che hanno il diritto di vivere e di comportarsi come i fratelli maggiori perché sono proprio loro le arterie che, tramite il concorso di tutti quelli che si impegnano in tal senso, portano il sangue politico che nutre la democrazia. Combattere le correnti equivale a combattere i partiti, proprio come avveniva nei vent’anni dominati da quel Mussolini di cui il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, tiene orgogliosamente il busto nella propria abitazione.

Sarebbe interessante ascoltare la risposta che la destra darebbe, ora che è al potere, a un’assurda richiesta di sorteggio, al posto delle elezioni, per il Parlamento allo scopo di combattere lo strapotere dei partiti politici e delle loro segreterie.

Ivano Fossati concludeva cantando: «Cara democrazia, ritorna a casa che non è tardi». È vero, ma perché questo possa avvenire è necessario che le si aprano nuovamente le porte, parlando, scrivendo, manifestando e, alla fine, tornando ad andare a votare. In ballo c’è proprio la democrazia e, quindi, la libertà.

 

 

giovedì 17 luglio 2025

I pesi e le misure

E finalmente, dopo più di venti mesi di bombardamenti indiscriminati contro Gaza e i suoi abitanti, anche Giorgia Meloni ha detto qualcosa contro il comportamento di Israele e degli assassini comandati da Netanjahu.

La RAI ha definito “durissima” la reazione della presidente del Consiglio che ha dichiarato: «I raid israeliani su Gaza colpiscono anche la chiesa della Sacra Famiglia. Sono inaccettabili gli attacchi contro la popolazione civile che Israele sta dimostrando da mesi. Nessuna azione militare può giustificare un tale atteggiamento».

Già su quel “durissima” ci sarebbe da obbiettare, perché più che un giudizio negativo, mi sembra essere un puro appunto di cronaca. Ma la cosa che lascia esterrefatti è che è la prima volta che dalla orrenda e disumana strage compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023 in cui sono stati uccisi oltre 1.200 israeliani e altri 247 sono stati presi in ostaggio e dalla altrettanto orrenda e disumana reazione israeliana che finora ha ucciso circa 100 mila arabi, che Giorgia Meloni sembra essersi accorta che Netanjahu sta lanciando quotidiani e spietati «attacchi contro la popolazione civile».

Potrebbe quasi sembrare – ma è evidente il mio malevolo atteggiamento contro la presidente del Consiglio – che a Giorgia Meloni non sia importato nulla dei circa centomila arabi ammazzati dalle bombe e dai proiettili israeliani, oltre che dalla fame, dalle sete, dalle malattie e dalle ferite che non si riescono a curare, e che altrettanto insensibile sia stata davanti alla morte di sei bambini, che l’altro giorno stavano andando a prendere l’acqua, per quello che è stato definito un «errore tecnico», che evidentemente per loro rientra nella logica delle cose. Ma una ferita alla gamba del parroco della Sacra Famiglia, don Gabriel Romanelli, ha avuto il potere di ridestarla – temporaneamente, mi sentirei di scommettere – e di prendere posizione contro un bombardamento che ha causato altri due morti e undici feriti. Questa volta si sarebbe trattato di «un errore di tiro». 

A darle man forte, poi, è accorso un altro che è stato capace, per tutti questi mesi, di voltarsi dall’altra parte pur di non disturbare Netanjahu, fedele alleato di quell’orrendo Trump che è il punto di riferimento inamovibile di ogni governo di destra. Mi riferisco al ministro degli Esteri Antonio Tajani che ha detto: «Gli attacchi dell'esercito israeliano contro la popolazione civile a Gaza non sono più ammissibili. Nel raid di questa mattina è stata colpita anche la Chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, un atto grave contro un luogo di culto cristiano. Tutta la mia vicinanza a Padre Romanelli, rimasto ferito durante il raid. È tempo di fermarsi e trovare la pace». Prima della ferita alla gamba di padre Romanelli, a cui va la mia totale e assolutamente non ironica solidarietà, evidentemente per lui gli attacchi erano perfettamente ammissibili.

Anche Papa Leone XIV si è detto «profondamente addolorato nell'apprendere la perdita di vite e di feriti causati dall'attacco militare alla chiesa cattolica», ma lui ha parlato ogni giorno contro gli attacchi israeliani e non ha avuto bisogno che a essere ferito fosse, un cattolico, un bianco, un prete, per criticare Netanjahu e i suoi killer.

Anche questo dimostra che il discrimine nel giudizio delle persone e dei gruppi politici è dato dalla differenza tra chi si fa guidare dall’umanità e chi pratica la disumanità, una differenza che consiste soprattutto nel fatto che per i primi tutti gli esseri umani meritano lo stesso rispetto e la medesima pietà, mentre per i secondi le differenze tra gli uomini non soltanto sono profonde, ma dipendono esclusivamente dalle visioni e dalle convenienze di chi si sente in diritto di discriminare dando pesi e misure diverse a esseri che sono sempre persone con responsabilità individuali e non indistinguibili particelle di ammassi ipotetici di essesi intruppati sotto una medesima e assurda etichetta.

Dovrebbe bastare questo per decidere da che parte stare e per allontanare da sé coloro che sulle differenze basano la propria politica e il proprio comportamento.

giovedì 5 giugno 2025

Sicurezza, ma per chi?

Che sia un “decreto sicurezza” non c’è alcun dubbio, ma bisogna capire questa sicurezza a chi sarebbe garantita. Perché per il governo in carica problemi e rischi dovrebbero diminuire in quanto, in teoria, le nuove norme dovrebbero ridurre drasticamente il dissenso e le relative manifestazioni. Per i cittadini, invece, i problemi cresceranno visto che alcuni diritti previsti dalla Costituzione sono ostacolati con la minaccia di arresti e detenzioni.

In teoria nessuno potrebbe più protestare, se non a tavola tra amici, al telefono, o via internet, visto che il governo si scatena contro le manifestazioni pubbliche, anche se già alcune procure hanno affermato che, per esempio, non si può procedere contro le occupazioni delle scuole perché il fatto non costituisce reato in quanto gli studenti che prendono temporaneo possesso degli edifici scolastici protestando e manifestando starebbero soltanto esercitando un diritto garantito dalla Costituzione nell’articolo 17, quello di “riunione” e “manifestazione”. In più le occupazioni studentesche non costituiscono reato di interruzione di pubblico servizio poiché «gli studenti devono essere considerati soggetti attivi della comunità scolastica e partecipi alla sua gestione».

Ma il cosiddetto “decreto sicurezza”, in realtà, è una specie di “decreto manette” non soltanto perché restringe alcune libertà che la Costituzione ha affermato esplicitamente e che il fascismo esplicitamente aveva negato: è soltanto una nuova tappa in un percorso di progressivo autoritarismo che diventa sempre più evidente e che comincia a urtare la sensibilità anche di tante persone non particolarmente impegnate.

In questo quadro tra poco sarà chiaro, perché diventerà effettivo, anche il peso delle scelte del ministro Piantedosi sulla scuola. Non saranno promossi, né ammessi agli esami, infatti, coloro che in condotta non avranno ottenuto almeno il 6. Giusto, si potrebbe dire; ma, a ben guardare, non è proprio così. E, se non si avrà almeno un 9, non si potrà ottenere il massimo dei voti.

È evidente che, rispetto al passato, Valditara ha voluto rendere il voto in condotta numericamente un po’ più aderente a quelli delle altre materie, ma la sostanza del concetto di condotta non cambia. Se guardiamo a un passato non tanto remoto, era evidente il valore simbolico del 7 in condotta, fissato dall'allora ministro Giovanni Gentile e dal governo Mussolini nel 1923: era un voto più alto rispetto agli altri di molte pagelle, ma nella condotta si pretendeva la perfezione del 10, o quasi. Il 9 era accettato, ma con malcelato disappunto, l’8 ti faceva guardare come un potenziale piccolo delinquente e comunque un rompiscatole che voleva discutere, il 7 era tanto basso da condannarti agli esami di riparazione in tutte le materie.

E questo perché? Forse perché il comportarsi bene è più importante del conoscere l’italiano, il latino, la matematica, una lingua straniera? Assolutamente no. E, infatti, non si potrebbe capire il perché di una simile severità se si pensasse alla buona condotta come sinonimo di buona educazione. 

Tutto diventa, invece, platealmente comprensibile se buona condotta diventa sinonimo di disciplina. E la differenza tra disciplina ed educazione è enorme. La disciplina è il rigoroso rispetto delle regole. L’educazione, invece, è il rispetto delle persone.

 La differenza è fondamentale perché l’educazione è un modo di porsi davanti agli altri, mentre la disciplina è il rispetto di dettami che possono essere fissati da chiunque, magari nella legalità, ma non necessariamente con giustizia. E il rispetto resta doveroso anche se le regole cambiano soltanto perché più comode per chi detiene – pro tempore, si spera – il potere e le applica soltanto a coloro che non sono ossequienti. La severità tanto rivendicata da Meloni, Salvini e complici va, infatti, a corrente alternata. Sullo sgombero “immediato” delle case occupate illegalmente, per esempio, ci piacerebbe capire quale significato danno all’aggettivo “immediato” visto che Casapound occupa un intero palazzo romano da ventidue anni e non mi sembra che lo sgombero sia già in atto.

Domenica e lunedì si voterà per un referendum che ha il compito di cancellare cinque leggi sul lavoro e sulla cittadinanza che considero ingiuste, ma che può anche lanciare, raggiungendo il quorum, un potente messaggio contro chi crede di poter fare sempre quello che vuole tramutando una democrazia rappresentativa in una democrazia delegata. Quindi andate a votare e fate di tutto per convincere più gente possibile ad andare alle urne perché la democrazia, per salvarsi, ha un assoluto bisogno di gente che creda che sia possibile una democrazia reale e non quel simulacro che ci ostiniamo a chiamare così.

martedì 3 giugno 2025

Gli acrobati delle norme e delle parole

L’articolo 48 della Costituzione dice: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico». È un testo chiarissimo, ma è già da un bel po’ di anni sul diritto-dovere di voto si esercitano i nostri migliori acrobati delle norme e delle parole.

Sui primi quattro aggettivi da abbinare al sostantivo “voto” c’è poco da dire: coloro che tentano di aggirare i concetti di personale, eguale, libero e segreto, vengono denunciati penalmente. Quello su cui i tanti furbi del nostro panorama politico effettuano le giravolte più pericolose, non per loro ma per la democrazia, è il concetto di “dovere civico”. Ne parlano come se l’aggettivo civico togliesse valore al concetto di “dovere”, mentre, invece, lo rende ancora più cogente perché sottolinea che questo dovere riguarda l’intera comunità, e cioè tutti i cittadini, perché senza senso civico nessuna comunità può restare viva, compresa una repubblica e, a maggior ragione, una democrazia che è struttura mirabile, ma delicatissima.

Va detto che in questo caso il non adempiere a un dovere, pur riguardando tutti, può essere privo di gravi conseguenze per un normale cittadino in quanto potrebbe addurre svariatissime scusanti che finirebbero per impedire ogni sanzione in quanto sarebbe impossibile accompagnarle con un giudizio: per esempio l’assenza al voto di un malato sarebbe giustificata, ma da provare.

Questo, però, non può non valere per i rappresentanti delle istituzioni che, come dice l’articolo 54 della Costituzione, oltre ad avere gli stessi doveri degli altri cittadini, visto che a loro «sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». E non c’è alcuna disciplina, né alcun onore nel suggerire che il voto non è un “dovere civico”.

A suo tempo avevo scritto contro il comportamento dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, da senatore a vita, nel 2016, prima del voto sulle estrazioni di idrocarburi, aveva detto che sperare che il referendum fosse non valido per il mancato raggiungimento del quorum non è antidemocratico o anticostituzionale.

Oggi, però Meloni e complici fanno ancora peggio non soltanto invitando esplicitamente a non andare al voto, ma addirittura non rinunciando nemmeno alla possibilità di una fotografia di propaganda in più: «Vado a votare, ma non ritiro la scheda: è una delle opzioni», ha detto Giorgia Meloni.

La fantasia dei costituenti non arrivava neanche lontanamente a pensare che il diritto di voto, che contemporaneamente definivano “dovere civico”, per ottenere il quale decine di migliaia di italiani avevano sacrificato la propria vita, potesse essere non soltanto trascurato, ma addirittura irriso.

Ma sicuramente non avevano neppure previsto che a guidare il governo della Repubblica Italiana un giorno sarebbero stati dei personaggi che pervicacemente si rifiutano di affermare di essere antifascisti. E che hanno ragione di farlo perché antifascisti non sono.

Andare a votare, soprattutto in questo caso, è doveroso come “dovere civico”, ma “dovere civico” è anche spingere più gente possibile ad andare alle urne, a prendere le schede e a esprimere il proprio voto, qualunque esso sia.

 

domenica 1 giugno 2025

Repubblica non è sinonimo di democrazia

Quando l’uso di determinate parole diventa abituale, il rischio che si corre è quello di non percepire più la complessità della loro natura e, quindi, la realtà del loro significato.

Il 2 giugno, per esempio, in Italia si festeggia la nascita della Repubblica e la data si riferisce al referendum in cui il popolo italiano ha deciso di non volerne più sapere del re, e così, per molti la parola “repubblica” è diventata semplicemente il contrario di “monarchia” e contemporaneamente, vista la situazione del momento, ha assunto anche il ruolo di sinonimo di “democrazia”.

Eppure etimologicamente la non obbligata corrispondenza tra i due termini è più che evidente: repubblica significa cosa pubblica, mentre democrazia vuol dire potere del popolo e non sempre nella realtà le cose sono coincise. Molte sedicenti repubbliche, soprattutto quelle che nella dizione ufficiale sono accompagnate da aggettivi specificativi, non sono state assolutamente democratiche, ma ostaggi di tiranni, dittatori, capi religiosi. Ma anche molte altre hanno visto separare sempre di più la realtà repubblicana da quella democratica.

Se ci fermiamo al nostro Paese, la cosa poteva aver senso nel 1946 e nei primi decenni successivi, ma con il passare degli anni la situazione è drasticamente cambiata e repubblica e democrazia sono diventate sempre meno coincidenti.

Provate a pensarci. Quella volta la percentuale del popolo che decideva, cioè quello che andava a esprimere il proprio voto nelle elezioni di ogni tipo, raramente scendeva sotto il 90 per cento. Oggi ci si considera soddisfatti se si riesce a superare il 50 per cento e così nelle ultime elezioni, quelle del 2022 la coalizione che ha vinto e che ancora oggi governa ha ottenuto il 43,7 per cento dei suffragi dei votanti che sono stati il 63,9 per cento degli aventi diritto di voto. Questo vuol dire che, a fronte di un 30,2 per cento di voti sul totale del corpo elettorale, con il premio di maggioranza previsto dalla legge, governa con il 59,25 per cento dei seggi alla Camera e il 57,5 per cento al Senato.

Questo con il proporzionale puro non accadeva: le maggioranze si costituivano per strada e magari cambiavano all’interno della stessa legislatura, ma avevano davvero il diritto di chiamarsi maggioranza nei riguardi della popolazione italiana e non soltanto dei due rami del Parlamento.

A peggiorare la situazione, riducendo lo spazio della discussione, e quindi del possibile dissenso, si è aggiunta la drastica riduzione dei parlamentari motivata da risibili ragioni di risparmio, mentre si gettano via miliardi a puro scopo di propaganda elettorale.

Democrazia, poi, vuol dire scelta e la scelta può essere tale soltanto nel caso la si possa effettuare con sufficienti informazioni a disposizione. Sempre negli anni Quaranta e immediatamente successivi, le voci da cui la popolazione poteva apprendere quello che stava succedendo erano moltissime e presentavano punti di vista diversi che potevano aiutare nel comprendere a quale forza politica si era più vicini. Oggi le voci della carta stampata si sono ridotte di molto e alcune sono veri e propri bollettini di propaganda; le televisioni, soprattutto quelle controllate dai governi di turno si fanno notare più per le cose che tacciono che per quelle che dicono; il web è preda di chiunque voglia fare propaganda, o, ancor peggio, voglia far passare per vere realtà inesistenti, o situazioni diametralmente opposte a quello che realmente succede.

Potremmo andare avanti a lungo nel parlare di come il concetto di democrazia sia andato in crisi nel nostro Paese, e non soltanto con l’attuale governo, ma già da alcuni decenni, soprattutto nel nome di quella “governabilità” che ha come vero significato quello che appariva su un cartello dei tram di una volta: “Non parlare al manovratore”. E – non può in alcun modo consolarci – ma in altri Paesi sta già andando decisamente peggio, tanto che in una Nazione democratica, in cui il governo è davvero l’espressione del popolo al potere, alcune alleanze internazionali oggi sarebbero fortemente messe in dubbio.

Il fatto è che se si vuole davvero festeggiare la Repubblica, lo si può fare soltanto riconquistando la democrazia. E una prima occasione può essere colta già tra una settimana andando a votare ai referendum. Io voterò cinque Sì, ma l’importante in questo momento è smentire coloro che non vogliono che si vada a votare: a loro la democrazia non solo dà fastidio, ma fa addirittura spavento.

giovedì 29 maggio 2025

I sei referendum

Probabilmente nel leggere il titolo di questo “Eppure…” avrete pensato che io abbia fatto un errore perché i quesiti referendari per i quali si voterà domenica 8 e lunedì 9 sono cinque. Lo so benissimo e su tutte le cinque schede barrerò la casella con il “Sì” per abrogare leggi che considero ingiuste e sbagliate.

Lo farò per ridare il diritto al reintegro ai licenziati senza giusta causa, per togliere penosi limiti di risarcimento imposti ai giudici per la stessa circostanza, per proibire contratti a termine senza serie motivazioni, per non permettere che negli appalti la ditta principale si lavi le mani nei confronti della sicurezza e per non far aspettare molto più di dieci anni chi si merita la cittadinanza italiana.

Ma nei seggi elettorali si procederà anche a un altro voto referendario, anche se non sarà data alcuna scheda per esprimerlo e se il suo risultato non avrà immediati effetti pratici. La sesta consultazione sarà effettuata con la semplice partecipazione al voto che è esplicitamente avversata dalla quasi totalità dell’attuale maggioranza parlamentare che vuole approfittare dell’articolo 75 della Costituzione che prescrive che nei referendum abrogativi «La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi».

È un articolo che oggi sentiamo fortemente penalizzante nei confronti di chi chiede di abrogare una legge ingiusta, ma che verso la fine degli anni Quaranta, quando raramente l’affluenza scendeva sotto il 90 per cento, appariva non soltanto legittimo, ma quasi doveroso.

Oggi, a percentuali di votanti che non raramente non arrivano al 50 per cento, riuscire a raggiungere il quorum vorrebbe dire sconfessare il governo in carica, quello che si impegna a far andare deserta la consultazione.

E non si tratterebbe di sconfessarlo soltanto sui cinque quesiti, ma si tratterebbe soprattutto di affermare che l’Italia non intende continuare a vergognarsi delle azioni e delle decisioni di Meloni e complici non soltanto dal punto di vista politico, ma anche e soprattutto da quello umano.

Ho detto che andrò a votare per dire Sì ai cinque quesiti, ma lo farò soprattutto per dire No a un governo e a una maggioranza i cui membri restano seduti quando la minoranza chiede di alzarsi in piedi per rendere omaggio alle decine di migliaia di bambini e di altri innocenti uccisi a Gaza dalle bombe di quel criminale di guerra che si chiama Netanyahu. Per dire No a una presidente del consiglio che mai ha detto una sola parola per condannare il primo ministro di Israele, amico di quel Trump che la Meloni vede come il suo miglior alleato anche quando decide cose nocive per l’Europa. Per dire No a un governo che in Europa fa votare contro le proposte di decisioni sostanziali sul piano del commercio per indurre Netanyahu a interrompere una strage che fa ribollire il sangue a chiunque abbia ancora in sé qualcosa di umano.

Quindi, vi prego, domenica 8 e lunedì 9 andate a votare per cinque Sì, ma soprattutto per un implicito No che non avrebbe conseguenze immediate, ma che ci consentirà almeno di salvare la nostra dignità personale e che ci permetterà di dire che noi non siamo complici di colui che ammazza e affama un popolo intero soprattutto per difendere sé stesso ed evitare quei processi che lo aspettano da anni e neppure di quelli che, sostenendolo, hanno le mani lorde di sangue.

In questo caso il voto, oltre che un diritto, è anche un dovere. Ricordatevelo e ricordatelo anche a tutti coloro con cui avete a che fare.

giovedì 15 maggio 2025

L’assurda speranza dell’inferno

Almeno altri ottanta morti mercoledì, di cui 22 sono bambini. Un altro centinaio nella notte successiva. Dopo gli orrori commessi da Hamas il 7 ottobre del 2023, a Gaza l’esercito israeliano continua nella sua opera di strage giustificandosi, proprio come dicevano quelli che hanno sterminato gli ebrei sotto il regime di Hitler, «Non faccio altro che eseguire gli ordini».

E, intanto, quello che non fa l’esercito lo fa la fame, la sete, la mancanza di medicine, perché è da almeno due mesi che nella Striscia non entrano più aiuti, e il fatto che gli ospedali non ci siano praticamente più, se non a livello di macerie. Altri ottanta morti che fanno sempre più avvicinare alla terribile cifra di quasi 50 mila civili ammazzati da soldati con la stella di David sulla divisa. E qualcuno ama ancora cavillare sulla parola “genocidio”.

Ma Gaza non basta perché anche nella Cisgiordania stanno accadendo cose indicibili ben testimoniate dalle immagini di “No Other Land”, che ha vinto l’Oscar per la categoria documentari. Di questo si parla poco perché i morti sono molti di meno, ma l’obbiettivo finale è il medesimo: cacciare tutti i palestinesi dalla terra in cui abitano da secoli e alla quale sentono di appartenere. E i metodi sono, come sempre, violenti: ruspe che abbattono case e scuole, cementificazione dei pozzi d’acqua e tagli delle tubature idriche e, se qualcuno protesta, un colpo di pistola a bruciapelo da parte di quelli che hanno l’impudenza di farsi chiamare coloni.

E intanto, mentre finalmente c’è davvero tantissima gente che comincia a indignarsi e a non sentirsi antisemita se è contraria a Netanyahu e ai crimini che gli hanno procurato un mandato di cattura da parte della Corte penale internazionale, nel nostro Parlamento alla presidente del consiglio Meloni viene quasi un’ernia cerebrale nello sforzo di dire che in alcune cose non è proprio d’accordo con il rais israeliano e resta seduta con tutti i suoi seguaci quando viene rivolto un invito a tutti i presenti ad alzarsi in piedi in segno di dolente rispetto nei confronti delle migliaia di morti.

Io non ho una fede certa e so soltanto che in vita non potrò mai sapere, ma davanti a quelle immagini di bombe che polverizzano civili inermi – i cosiddetti danni collaterali, quasi parificati ai vetri delle finestre in frantumi – di bambini mutilati, di madri e padri che portano in braccio fagotti di tela bianca che contengono i corpicini senza vita dei loro figlioletti (pensate se quei bambini fossero i vostri), dei volti emaciati per mancanza di cibo, del mare di macerie, mi scopro a pregare Dio di esistere e di dare vita a quell’inferno nel quale spero possano patire in eterno Netanyahu, i suoi complici, i suoi obbedienti carnefici e anche tutti coloro che non soltanto non fanno nulla per indurlo a fermarsi, ma addirittura negano la realtà  per meschini e supposti motivi di alleanza.

 

mercoledì 14 maggio 2025

La lezione uruguayana

José Alberto Mujica se n’è andato sei giorni prima di compiere novant’anni. Era l’ex guerrigliero tupamaro che nel 2010 è diventato presidente dell'Uruguay, un Paese che, come molti dell’America latina ha visto passare la storia sotto dittature non sempre militari, ma invariabilmente molto lontane da ogni elementare forma di democrazia.

Negli anni Sessanta Mujica entra nel Movimento di Liberazione Nazionale – Tupamaros e partecipa alla guerriglia uruguayana. Catturato, trascorre oltre dieci anni in carcere, molti dei quali in isolamento. Ne esce senza rancore, diventando un raro modello di politico etico, umile e profondamente umano che lo fa apprezzare, per la sua capacità di dialogo, dalla maggior parte degli elettori del suo Paese, che lo scelgono come presidente, e ammirare da centinaia di milioni di donne e uomini in tutto il mondo.

È stato noto per la vita lontana dal lusso: Mujica viveva in una modesta casa di campagna e si spostava su un Maggiolino di quasi quarant’anni fa. È stato uno strenuo combattente contro la corruzione e ha dato vari esempi del fatto che viveva nello stesso modo in cui pensava e parlava. Donava, tra l’altro, il 90% del suo assegno da presidente a organizzazioni non governative che aiutano i più disagiati.

Vorrei ricordare due sue frasi che mi sembrano fondamentali per capire e affrontare la tetra notte che stiamo attraversando e che prima o poi dovrà pur finire.

La prima: «Sono consapevole di appartenere a una generazione che se ne va, che si congeda. La lotta continua e deve sopravvivere». E, infatti una delle sue maggiori preoccupazioni è stata quella di dedicare buona parte delle sue energie a non far apparire sé stesso come un leader insostituibile, di quelli che ritengono necessario mettere il proprio nome nel simbolo del partito che, in definitiva, ha come primo compito, quello di mantenere il capo al potere. Infatti il suo partito, quando lui ha smesso di essere presidente e si è ritirato nella sua casetta, ha continuato a comportarsi nello stesso modo non dimenticando un comandamento di Mujica: «Lo sviluppo non può essere contrario alla felicità. Deve essere a favore della felicità umana; dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, dell’attenzione ai figli, dell’avere amici, dell’avere il giusto». E il successo sociale, politico ed elettorale continua a sorridergli.

L’altra frase che dovrebbe essere scolpita nella testa di chiunque governi non “pro domo sua”, è: «Dobbiamo investire primo sull’istruzione, secondo sull’istruzione, terzo sull’istruzione. Un popolo istruito ha le migliori possibilità nella vita ed è difficile che si faccia ingannare dai bugiardi e dai corrotti». Ed è stato uno strenuo difensore dell’istruzione e della cultura perché, sottolineava, «sono le basi per difendere quei diritti che sono stati conquistati con tanto sangue e tanta fatica e che continuano a essere messi in pericolo».

Questo mio scritto è un pensiero rivolto a Mujica? In parte, perché è soprattutto un pensiero rivolto all’Italia, dove da decenni di felicità non si parla più, ma soltanto di ricchezza e di guadagno, dove sempre da decenni il settore in cui vengono effettuati costanti tagli è quello dell’istruzione e della cultura, in cui il nuovo maccartismo di Giorgia Meloni e complici impone di tagliare fuori coloro che non fanno cose che esplicitamente gradite al loro governo.

A José Pepe Mujica un reverente e commosso saluto; a voi la calorosa raccomandazione non soltanto di andare a votare al referendum dell’8 e 9 giugno, ma anche e soprattutto di impegnarsi a far andare a votare più gente possibile. Quelli che affiancano la Meloni sanno benissimo che la loro unica speranza di non perdere clamorosamente davanti ai quesiti sulla dignità del lavoro e contro la fobia nei confronti di chi non è figlio di italiani è quella che non si raggiunga il quorum. Votare è sempre un’alta forma di resistenza civile-

domenica 11 maggio 2025

La schifosa legge del silenzio

Talvolta il silenzio è molto più fragoroso delle parole. Talvolta l’assenza è terribilmente più clamorosa della presenza. Sarebbe da ciechi non aver notato che l’attuale maggioranza della Regione Friuli Venezia Giulia non ha ritenuto di partecipare, neppure con una singola presenza ufficiale, all’inaugurazione di vicino/lontano, né alla serata dedicata al premio Terzani nella quale il riconoscimento è stato attribuito alla memoria degli oltre duecento giornalisti palestinesi che sono stati uccisi dalle bombe, dai droni, dai proiettili dell’ l’IDF (una sigla inizialmente sincera e poi divenuta tristemente sarcastica, visto che significa “Forze di difesa israeliane”).

Per l’esattezza, uno studio della statunitense Brown University ha calcolato che dal 7 ottobre 2023, il giorno dell’orrendo massacro perpetrato da Hamas, a Gaza sono stati ammazzati almeno 232 giornalisti, più di quanti ne siano morti sommando i colleghi uccisi nella guerra civile americana, nelle due guerre mondiali, nella guerra di Corea, nella guerra del Vietnam, nelle guerre in Jugoslavia e nella guerra in Afghanistan dopo l’11 settembre. Il tutto in un quadro generale che parla di quasi 50 mila morti palestinesi di cui circa 20 mila erano bambini.

Com’è possibile una simile mancanza di pietas? Come si fa a negare quello che sta succedendo a Gaza? Si pensa davvero di poterlo cancellare con il silenzio? Era stato l’orrore per la connivenza nel silenzio lo stimolo che ha portato David Goldhagen a scrivere, riferendosi alla seconda guerra mondiale, “I volonterosi carnefici di Hitler”, libro molto apprezzato da tutti in Israele e avversato soltanto dalle destre estreme nel resto del mondo.

È evidente che questa assenza si spiega nel conformarsi anche della maggioranza di questa Regione all’attuale maggioranza pro tempore del nostro Paese. Ma qui la critica non trae forza dall’avversità politica, bensì dalla differenza del concetto di umanità che viene sottomesso alle presunte opportunità di alleanze che non hanno più il significato di una volta e che non possono restare totalmente invariate davanti non a normali mutamenti politici, ma a veri e propri stravolgimenti di tutti quei patti che sono stati firmati dalle varie nazioni per dare stabilità e umanità, appunto, ai rapporti internazionali con lo scopo principale – di cui, però, non si ricorda più quasi nessuno – di evitare la guerra che è la negazione di ogni concetto di civiltà.

Condannare il genocidio di Gaza – e finiamola di giocare anche su queste parole – e questo silenzio che tenta di nasconderlo non è opposizione politica: è semplicemente dignità umana. Papa Francesco è stato chiaro definendo come «ignobile» quello che sta succedendo e che, come ha scritto Anna Foa, altra ebrea come Goldhagen e come tanti israeliani ed ebrei che non accettano la bestialità di Netanyahu, assomigli molto a un sanguinoso suicidio di Israele.

Ed è ridicola l’accusa di antisemitismo che viene sparsa quasi in automatico contro chi parla contro l’attuale ras di Israele. Io ho orrore per Salvini e per tutti coloro che lo hanno assecondato nei suoi cosiddetti “decreti sicurezza” che hanno l’evidente, dichiarato e unico scopo di rendere più difficile, quasi impossibile, il soccorso in quell’immenso cimitero marino che è diventato il Mediterraneo. Come ho orrore per Minniti che ha venduto buona parte dei migranti agli aguzzini libici per regalare teorica tranquillità, ma soprattutto angosciante rimorso, all’Italia. Se non li posso vedere, se parlo contro di loro, sono forse anti-italiano? Evidentemente no: ritengo che gli anti-italiani siano loro. Esattamente come per me è Netanyahu a essere anti-israeliano. E ancora più evidente è il fatto che parlando male di lui non divento assolutamente antisemita. Non è mica che, con quello che penso di Salvini, io sia diventato anti-lombardo.

Giorgia Meloni ama ripetere «Dio, patria e famiglia». Già sul suo concetto di patria e di famiglia avrei un bel po’ da ridire, ma di che Dio sta parlando? Francesco ha detto: «Credo in Dio, non in un Dio cattolico; non esiste un Dio cattolico, esiste Dio». Ma il Dio dell’attuale presidente del consiglio pro tempore mi sembra un Moloch. Di che dio crudele sta parlando?

Del resto tutto questo non deve stupire perché quella del silenzio e dell’impedire l’informazione è un’arma che questa destra usa abitualmente, disertando le conferenze stampa, tacendo su alcune realtà e travisando molti numeri dei quali tace la reale consistenza. E, oggi, stando rigorosamente zitti sui referendum dell’8 e 9 giugno e puntando a non far raggiungere il quorum, unico sistema per evitare di risultare sonoramente sconfitti.

E noi cosa possiamo e dobbiamo fare? Dobbiamo quantomeno parlare, scrivere, manifestare per infrangere il silenzio, perché sempre più gente sia conscia di quello che sta succedendo e agisca di conseguenza. Parlare, scrivere, manifestare è una doverosa forma di resistenza civile.

Non posso dire agli esponenti della destra che «Una risata vi seppellirà»: non siamo più nel ’68 e non c’è proprio nulla da ridere, ma posso loro assicurare che faremo di tutto perché possano affogare nelle nostre lacrime.

 PS - Se lasciate dei commenti, vi prego di firmarli perché altrimenti li vedo firmati da "Anonimo" e mi è impossibile impostare un dialogo che mi sembrerebbe davvero utile. Grazie.

domenica 4 maggio 2025

Un problema serissimo

 

Il problema non è serio: è serissimo.

Il 25 aprile ad Ascoli una panettiera espone davanti al suo negozio un pezzo di stoffa bianco su cui è scritto «25 aprile: buono come il pane, bello come l’antifascismo». E viene identificata sia dalla polizia locale, sia dai carabinieri.

A Mottola, in provincia di Taranto, durante la manifestazione per la Liberazione viene intonata “Bella ciao”. un carabiniere si avvicina e identifica una decina di persone, giustificandosi con l'invito alla sobrietà diffuso del governo per il lutto per la morte di papa Francesco.

A Orbetello un paio di giorni dopo il 25 aprile la locale sezione dell’ANPI si vede recapitare una multa da 566 euro per “occupazione di suolo pubblico” durante la manifestazione per la cacciata dei nazifascisti.

A Dongo un centinaio di nostalgici del fascismo si raduna per ricordare (anche se per loro sarebbe meglio dimenticare) la cattura di un terrorizzato Mussolini in fuga travestito da militare tedesco: si presentano in camicia nera, alzano il braccio teso e urlano «Presente». Ma a loro non si avvicina nessuno per identificarli.

E ci sono anche altri esempi ancora degli atteggiamenti diametralmente opposti che le forze dell’ordine hanno tenuto nei confronti di chi celebra la Liberazione e di chi rimpiange la dittatura.

Per capire quello che sta succedendo forse è il caso di soffermarsi sul comportamento di alcuni carabinieri.

La prima ipotesi è quella di una serie di stupidaggini, ma ho sempre avuto la massima considerazione per i rappresentanti dell’Arma e considero del tutto ingiuste le decine di barzellette che li prendono in giro.

L’altra ipotesi chiama in causa la prima parte di un loro motto: “Usi a obbedir tacendo…” e questa mi sembra possa spiegare molto di più il verificarsi di questi avvenimenti altrimenti incredibili. Obbedienza, insomma. Ma l’obbedienza presuppone l’esistenza di un ordine e l’esistenza di un ordine è strettamente collegata a una catena di comando. Diventerebbe fondamentare, dunque, capire dove questa catena inizia, se nei vertici più o meno alti dell’Arma, oppure – cosa che sembra probabile – ancora più su.

Comunque sia, da qualunque posizione arrivi quell’ordine, non si può dimenticare che, militari, politici, o servitori dello Stato che siano, hanno necessariamente giurato su una Costituzione che è dichiaratamente antifascista e che, quindi, coloro che sono preposti alla sicurezza dei cittadini italiani talvolta devono adeguarsi agli ordini di qualche spergiuro.

 

PS - Ricordatevi di andare a votare l'8 e 9 giugno per i referendum. Meloni e complici giocano sull'astensionismo che minaccia seriamente il raggiungimento del quorum. È obbligo per ognuno di noi non soltanto di andare a votare, ma anche di convincere più gente possibile ad andare alle urne. I quesiti riguardano i licenziamenti illegittimi e la durata dei contratti di lavoro, il mantenimento delle responsabilità negli infortuni subiti dai lavoratori per chi decide di dare in subappalto la propria committenza, il dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana. Ricordo anche che si tratta di referendum abrogativi di leggi vigenti che personalmente considero ingiuste. Quindi voterò SI.

giovedì 1 maggio 2025

Propaganda e Primo maggio

Non fossimo direttamente e drammaticamente coinvolti, sarebbe davvero interessante mettersi a osservare fin dove può arrivare la creduloneria e la sopportazione di una parte non trascurabile – per ora la maggioranza relativa – degli italiani che vanno a votare. Lo spot video autoprodotto della presidente del Consiglio per farsi vedere vicina alla festa del Primo maggio è ricchissimo di spunti in questo senso, ma ve ne voglio segnalare due soltanto.

Il primo: «Crescono – dice – i salari reali in controtendenza rispetto a quello che accadeva nel passato». E lo dice con una faccia di bronzo davvero ammirabile, visto che nelle stesse ore Eurostat annuncia che in Italia nel 2024 le persone a rischio povertà o esclusione sociale sono state 13,52 milioni, pari al 23,1% della popolazione nazionale, di cui quelli già in povertà assoluta nel 2022 erano 5,6 milioni. Intanto l’Istat sottolinea che coloro che lavorano, ma sono in condizioni di indigenza, se non di povertà assoluta, sono un quinto – il 20 per cento – del totale.

E non giunge certamente a sproposito il fatto che il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sottolinei che gli stipendi sono troppo bassi lasciando intendere il fatto, già evidente da anni, che se i cittadini non guadagnano a sufficienza non possono nemmeno spendere e che così, alla lunga, i tagli per ottenere maggiori guadagni da parte degli imprenditori a lungo termine si rivelano un boomerang perché sempre meno gente sarà in grado di acquistare i prodotti.

Piccola nota a parte; per ricordare il nome della titolare del dicastero del lavoro, ho dovuto frugare abbastanza a lungo nella mia memoria per ricordare che si chiama Marina Calderone. Non una prova di superattivismo.

Il secondo: «Oggi – dice sempre Giorgia Meloni – dedichiamo la festa dei lavoratori al tema della sicurezza e ci impegniamo a fare ancora di più. Abbiamo reperito insieme all'Inail altri 650 milioni di euro per mettere in campo nuove misure concrete che insieme ai 600 milioni già disponibili dei bandi Inail destinati a cofinanziare gli investimenti delle imprese in questi ambiti portano a oltre 1 miliardo e 200 milioni le risorse disponibili per migliorare la sicurezza sui posti di lavoro».

Al di là del fatto che sembra sia la prima volta che per lei lavoro e sicurezza sono due realtà che devono andare di pari passo e che 600 più 650 fa un miliardo e 250 milioni e non un miliardo e 200, appare clamoroso il fatto che in tema di sicurezza sul lavoro questi fondi fossero già nelle casse dell’INAIL (L'Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro), probabilmente a fare cassa, mentre avrebbero già dovuto essere impiegati per ridurre quell’ecatombe di morti sul lavoro che, al di là di quello che già dice la Costituzione, mette in un lutto costante ed erode dalle fondamenta il nostro Paese.

Se, come diceva Robert Kennedy, nel calcolare il PIL, oltre agli aspetti economici si inserissero anche i fattori davvero importanti come la qualità della vita e la sicurezza di chi lavora, non saremmo al tanto vituperato “zero virgola”, ma saremmo abbondantemente e decisamente in cifra negativa.

Si potrebbe dire: in politica qualche bugia la dicono tutti, ma non è proprio così perché per l’attuale presidente del Consiglio, e non premier, come ama farsi chiamare, la falsificazione nell’interpretazione delle risultanze numeriche non è l’eccezione, bensì la regola.

Vorrei concludere con il classico «Buon Primo maggio a tutti», ma sarebbe sbagliato: Come per il 25 aprile, anche il Primo maggio non è la festa di tutti. E manca soltanto che raccomandino di farlo con sobrietà, anche perché non sanno che non c’è sobrietà più grande del mettersi a marciare insieme dietro a qualche striscione di protesta e rivendicazione, e dell’ascoltare musica, spesso anche impegnata, per esprimere in maniera contenuta la rabbia che sale per i tanti morti sul lavoro e per i tantissimi che sono già arrivati, o almeno si sono avvicinati di molto, alla povertà.

Insomma, buon Primo maggio, ma soltanto a coloro che il lavoro lo rispettano sul serio.

PS - Ricordatevi di andare a votare l'8 e 9 giugno per i referendum. Meloni e complici giocano sull'astensionismo che minaccia seriamente il raggiungimento del quorum. È obbligo per ognuno di noi non soltanto di andare a votare, ma anche di convincere più gente possibile ad andare alle urne. Gli studenti fuori sede possono votare senza tornare a casa, se lo richiedono entro il 4 maggio.

sabato 26 aprile 2025

Gli invasori di diritti

Ieri a Udine ha piovuto insistentemente per tutta la mattinata. Eppure non ho mai visto tanta gente presente alla celebrazione del 25 aprile. Poi ho seguito alcuni canali televisivi (ovviamente non tutti) e ho guardato piazze stracolme e lunghissimi cortei di gente che acclamava la Resistenza. E la stessa cosa l’ho vista nelle fotografie postate su internet.

È ovvio che il cuore si è allargato perché nel buio più assoluto basta un lumino, per quanto fioco, per rafforzare la speranza che questa maledetta notte debba pur finire. Ma contemporaneamente ha continuato a grattare nel cervello l’urticante constatazione che a votare va soltanto la metà, o poco più, degli italiani e che quelli che restano a casa non sono certamente coloro che l’antifascismo lo odiano perché lo vedono come una testimonianza della sconfitta dell’ideologia che aveva massacrato l’Italia fino a ottant’anni fa e che loro rimpiangono. E con questa constatazione, c’è anche la parziale conferma che, come diceva Krippendorff, «l’insoddisfazione è il vero motore della sinistra». Dico “parziale” perché l’insoddisfazione porta anche alla costante ricerca dell’ottimo e alla sottovalutazione del buono.

Questo è un difetto costante nei progressisti italiani fin dai tempi in cui l’unità d’Italia era ancora un sogno che appariva lontanissimo, un difetto che si è interrotto soltanto con la svolta di Salerno quando nell’aprile del 1944 – e siamo sempre nell’ambito della Resistenza – su impulso di Togliatti, le varie anime dei gruppi che combattevano contro i fascisti e i nazisti hanno deciso di mettere da parte temporaneamente le loro più o meno grandi divergenze politiche per creare un fronte unico contro chi aveva invaso l’Italia e contro chi l’aveva ceduta all’invasore. E a questo proposito mi piacerebbe sentire la definizione di patriottismo secondo La Russa e camerati assortiti.

Oggi, tranne per il fatto che non siamo direttamente in guerra, la situazione è simile perché non ci troviamo di fronte a invasori di territori, ma di fronte a invasori di diritti e l’unico modo per “tornar a veder le stelle” è quello di mettere temporaneamente da parte le divergenze su alcuni particolari politici ed economici e soprattutto molte egoistiche e scellerate ambizioni personali, per opporsi insieme a chi sta avvelenando la nostra democrazia e sta ignorando e stravolgendo l’anima della nostra Costituzione.

Forse nelle celebrazioni del 25 aprile sbagliamo a ricordare soltanto alcune individualità, alcuni episodi, alcune stragi nazifasciste, alcuni ideali: dovremmo ricordare più spesso lo spirito del CLN, del Comitato di Liberazione Nazionale, correggendo anche a muso duro quelli che si ostinano a cambiare il concetto di “liberazione” nel concetto di “libertà” perché i nostri padri si sono liberati di loro, mentre la libertà l’avevano già dentro: soprattutto quella di decidere di mettere a rischio la loro vita per assicurare la libertà a noi, indegni eredi.

giovedì 24 aprile 2025

Le differenze ineliminabili

È da alcuni anni che scrivo che il 25 aprile non è di tutti, ma in realtà sono davvero molte le cose che non sono di tutti. Se la vediamo in maniera diversa, questo vuol dire che siamo degli inguaribili sognatori, o, semplicemente, che preferiamo non vedere la realtà che ci circonda e che, piuttosto che affrontare discussioni e dissensi, siamo più che disposti a sdoganare l’ipocrisia di chi, tanto per dare un esempio, ogni tanto dice che è innegabile il significato e il valore di questa data, ma che proprio in quella data organizza una visita di Stato in Uzbekistan.

Per fortuna, a svegliare almeno qualcuno, ci sono persone come Francesco Borgonovo, vicedirettore de “La verità” (in questo caso una rara specie di ossimoro in una parola sola), che, fiero della propria inventiva, titola la prima pagina con “25 aprile: lutto nazionale” approfittando della genialata del governo che per la prima volta estende a cinque giorni il lutto nazionale per la morte di un Papa per riuscire a coinvolgere anche il 25 aprile, ottantesimo anniversario della Liberazione che per loro corrisponde a una sconfitta alla quale non si sono ancora rassegnati. Un lutto che, tra l’altro, è evidentemente a singhiozzo, visto che campionati e coppe di calcio, al di là del giorno della scomparsa di Francesco e di quello del funerale, proseguono tranquillamente.

E, a proposito di lutto e di ipocrisia, è molto difficile non provare rabbia nel pensare che adesso verranno a fare omaggio a Papa Bergoglio, personaggi come Trump, Milei, solo per fare due nomi, che lo hanno offeso indegnamente perché ricordava al mondo che il Vangelo predica esattamente il contrario di quello che loro combinano. E anche la sfilata dei finti dolenti nel Parlamento italiano ha lasciato un forte amaro in bocca sia per l’ipocrisia che abbiamo sentito, sia perché siamo sicuri che per gran parte dell’elettorato l’ipocrisia non è un difetto che possa impedire un voto in favore dell’ipocrita.

Un piccolo cenno anche alla sobrietà auspicata dal governo nelle manifestazioni del 25 aprile. Ebbene, se è difficile comprendere cosa possa voler dire “sobrietà” per personaggi come Meloni e Salvini che, mentre la televisione stata dando le notizie e gli aggiornamenti sulla colpevole strage di migranti avvenuta a Cutro, cantavano a squarciagola in un karaoke, è evidente che la Festa della Liberazione è naturalmente sobria perché non è possibile separare la gioia per la sconfitta del fascismo e del nazismo dal dolore per tutto coloro che hanno dato la vita per regalarci la libertà e la democrazia.

Quindi non solo il 25 aprile, ma nemmeno il lutto può essere di tutti perché ci sono differenze ineliminabili tra i modi di vedere il mondo da destra e da sinistra, due categorie politiche e sociali che non sono assolutamente scomparse, ma soltanto nascoste da coloro ai quali faceva comodo evitare confronti non annacquati.