venerdì 1 agosto 2025

Attenti alla “likecrazia”

Sono giornate ricchissime di fatti che meriterebbero riflessioni e approfondimenti: finalmente si allarga il numero di coloro che chiamano quello che sta succedendo a Gaza con il suo vero nome, e cioè “genocidio”; anche la Corte europea dà torto al governo Meloni su quell’obbrobrio che è quella specie di carcere costruito in Albania e destinato a rinchiudere esseri umani che non hanno commesso alcun reato e che è costato centinaia di migliaia di euro per qualche decina di poveretti che poi, alla fine, hanno dovuto essere riportati in Italia; continua il vergognoso bullismo di Trump sui dazi al quale corrisponde l’inerzia europea obbligata dai sostenitori del presidente statunitense che, pur di non dispiacere al capo, continuano a dire che va bene così.

E potremmo continuare con altri spunti di discussione. Eppure, nonostante tutto, credo che sia il caso di soffermarsi per un momento su quello che sta accadendo in Calabria dove il presidente di quella Regione, Roberto Occhiuto, indagato per corruzione, dopo aver avvertito i suoi capi di coalizione – Giorgia Meloni, Antonio Tajani, Matteo Salvini e Maurizio Lupi – ha deciso di dimettersi ma per ricandidarsi immediatamente.

Si tratta di una mossa inedita che, però, si inserisce perfettamente nel modo di intendere giustizia e soprattutto democrazia da parte dei partiti di destra attualmente al governo. La decisione di Occhiuto, infatti, ben lungi dal rispettare scelte, modalità e tempi della magistratura e, quindi, delle leggi in vigore, altro non fa che negarne la funzione e l’autorità non soltanto rifiutando la separazione dei poteri che è la base di ogni democrazia che non stia già franando nel satrapismo, ma, anzi dando a un teorico popolo la preminenza sulla giustizia e confermando quella teoria malata che però sta sempre più prendendo piede, secondo la quale chi vince le elezioni può fare quello che vuole e non deve essere assolutamente disturbato da nessuno: opposizione, giustizia, informazione, manifestazioni di dissenso più o meno organizzato.

Occhiuto, infatti, oltre che autoassolversi preventivamente, finisce col dire che l’inchiesta della magistratura deve sottomettersi ai risultati delle prossime elezioni. Avrebbe già dovuto farlo – è sottinteso – al risultato delle elezioni precedenti, ma adesso, sempre che sia ricandidato e rieletto, chi potrebbe – secondo lui – avere la sfrontatezza di rimetterlo sotto giudizio?

Cioè, per essere più chiari, secondo Occhiuto e i suoi capi che gli hanno dato l’ok, la giustizia vale talmente poco da dover tacere se un certo numero di cittadini vota per lui. Magari perché disinformati, magari in quanto spinti da quelle forze che sono coinvolte nelle accuse di corruzione, magari perché del tutto indifferenti a Occhiuto, ma fedeli ai partiti che lo hanno sostenuto.

Sarebbe sempre il caso di ricordare che democrazia non vuol dire soltanto voto, ma è un complesso meccanismo di scelta collettivo nel quale le basi sono l’informazione, la conoscenza, la discussione, la scelta delle parti e soltanto alla fine il voto che, tra l’altro fornisce un risultato temporaneo, anche se, disgraziatamente, maggioritario.

Quella imboccata da Occhiuto è una strada già prefigurata dalla destra in altre occasioni, ma finora mai imboccata con decisione. Ed è una strada pericolosissima che rischia di mandare in frantumi il concetto di democrazia, e quindi di libertà, per dare vita a un qualcosa che, con un neologismo, potremmo chiamare “likecrazia” nella quale l’importante diventa non la capacità, la rettitudine, il programma sociale, ma soltanto la simpatia e la capacità di fare propaganda per raccogliere il numero maggiore possibile di quei “like” che – i social insegnano – non soltanto non sono in grado di definire ciò che è giusto, ma che possono rovesciarsi da un momento all’altro e trasformare il pollice in su in pollice verso.

Sarebbe il caso di cominciare a prendere davvero sul serio anche quelle che, a prima vista, possono apparire come delle buffonate.

venerdì 25 luglio 2025

Cara democrazia

Nel 2006 Ivano Fossati scriveva la canzone “Cara democrazia” nella quale, tra l’altro, cantava: «Cara, cara democrazia / sono stato al tuo gioco / anche quando il gioco / si era fatto pesante». Adesso, a quasi vent’anni di distanza, il gioco in Italia si è fatto davvero molto pesante. Alcuni potrebbero anche obbiettare che, davanti ai comportamenti disumani, autocratici e dispotici di gente come Netanyahu e Trump, solo per fermarci ai due più nominati in questo periodo, noi non dovremmo lamentarci più di tanto, ma la strada che abbiamo imboccato è una discesa nella quale, se non azioneremo in tempo i freni, saremo condannati a veder sfracellare la nostra democrazia e, quindi, noi stessi.

Per convincercene basta osservare nei dettagli la riforma costituzionale “della giustizia” nella quale ci si ferma soprattutto a considerare la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante e a mettere in rilievo che questo era il progetto di Licio Gelli e della sua P2, il sogno di Berlusconi, un obbiettivo primario di quella destra che sta cancellando per legge molti reati dei cosiddetti “colletto bianchi”, mentre ne inventa di nuovi per tutti coloro che non sono d’accordo. Intanto la stragrande maggioranza della magistratura stessa la considera una mordacchia proprio contro i giudici: alla faccia della tanto sbandierata separazione dei poteri.

Secondo me, però, l’agonia della democrazia la si può ancor meglio contemplare in quello che è considerato un aspetto accessorio della riforma e che, invece, è una specie di cartina al tornasole della reale aderenza dell’attuale maggioranza allo spirito democratico. Mi riferisco al sistema di designazione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, anzi dei due CSM che saranno necessari dopo l’approvazione di questa legge costituzionale che è stata scritta dal governo in carica, che, per sicurezza, ha addirittura impedito che il Parlamento, prima di votare, potesse presentare le proprie controproposte.

La designazione, infatti, secondo la nuova legge, sarà effettuata non per elezione, ma per sorteggio. Ora ripensate al primo comma dell’articolo 1 della nostra Costituzione: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Lasciamo per un momento perdere le considerazioni sul lavoro che, molto spesso, se c’è, non è né dignitoso, né in grado di fornire i mezzi per vivere dignitosamente, ma ditemi: cosa c’è di democratico in un sorteggio? E come può la politica abdicare alla propria natura che prevede obbiettivi, discussioni e scelte, per preferire il caso?

La risposta è semplice: perché in nessun’altra maniera, almeno per un congruo numero di anni, la destra potrebbe sperare, viste anche le sue leggi e i suoi condoni sempre assolutamente diretti verso una sola e ben identificata parte della popolazione, di raggiungere una maggioranza per via elettorale nel, o nei, CSM. Senza tener conto che è decisamente più facile pensar di taroccare un sorteggio che un’elezione.

Interessante, oltre che rivelatrice, è anche la motivazione con la quale si giustifica questa scelta: bisogna limitare lo strapotere delle correnti interne alla magistratura, come se le associazioni di persone che la pensano in maniera molto simile fosse un ostacolo alla democrazia. Vista la loro evidente insofferenza nei confronti di una Costituzione nata tenendo ben presente il drammatico e schifoso ventennio fascista in cui il pensiero unico era obbligatorio, sarebbe il caso di ricordare a Meloni e complici, di cui il ministro Nordio è soltanto quello più in vista, che l’artico 18 della nostra carta dice che «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale» e che l’articolo 49 addirittura precisa: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Le cosiddette correnti, insomma, altro non sono che piccoli partiti di interesse settoriale che hanno il diritto di vivere e di comportarsi come i fratelli maggiori perché sono proprio loro le arterie che, tramite il concorso di tutti quelli che si impegnano in tal senso, portano il sangue politico che nutre la democrazia. Combattere le correnti equivale a combattere i partiti, proprio come avveniva nei vent’anni dominati da quel Mussolini di cui il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, tiene orgogliosamente il busto nella propria abitazione.

Sarebbe interessante ascoltare la risposta che la destra darebbe, ora che è al potere, a un’assurda richiesta di sorteggio, al posto delle elezioni, per il Parlamento allo scopo di combattere lo strapotere dei partiti politici e delle loro segreterie.

Ivano Fossati concludeva cantando: «Cara democrazia, ritorna a casa che non è tardi». È vero, ma perché questo possa avvenire è necessario che le si aprano nuovamente le porte, parlando, scrivendo, manifestando e, alla fine, tornando ad andare a votare. In ballo c’è proprio la democrazia e, quindi, la libertà.

 

 

giovedì 17 luglio 2025

I pesi e le misure

E finalmente, dopo più di venti mesi di bombardamenti indiscriminati contro Gaza e i suoi abitanti, anche Giorgia Meloni ha detto qualcosa contro il comportamento di Israele e degli assassini comandati da Netanjahu.

La RAI ha definito “durissima” la reazione della presidente del Consiglio che ha dichiarato: «I raid israeliani su Gaza colpiscono anche la chiesa della Sacra Famiglia. Sono inaccettabili gli attacchi contro la popolazione civile che Israele sta dimostrando da mesi. Nessuna azione militare può giustificare un tale atteggiamento».

Già su quel “durissima” ci sarebbe da obbiettare, perché più che un giudizio negativo, mi sembra essere un puro appunto di cronaca. Ma la cosa che lascia esterrefatti è che è la prima volta che dalla orrenda e disumana strage compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023 in cui sono stati uccisi oltre 1.200 israeliani e altri 247 sono stati presi in ostaggio e dalla altrettanto orrenda e disumana reazione israeliana che finora ha ucciso circa 100 mila arabi, che Giorgia Meloni sembra essersi accorta che Netanjahu sta lanciando quotidiani e spietati «attacchi contro la popolazione civile».

Potrebbe quasi sembrare – ma è evidente il mio malevolo atteggiamento contro la presidente del Consiglio – che a Giorgia Meloni non sia importato nulla dei circa centomila arabi ammazzati dalle bombe e dai proiettili israeliani, oltre che dalla fame, dalle sete, dalle malattie e dalle ferite che non si riescono a curare, e che altrettanto insensibile sia stata davanti alla morte di sei bambini, che l’altro giorno stavano andando a prendere l’acqua, per quello che è stato definito un «errore tecnico», che evidentemente per loro rientra nella logica delle cose. Ma una ferita alla gamba del parroco della Sacra Famiglia, don Gabriel Romanelli, ha avuto il potere di ridestarla – temporaneamente, mi sentirei di scommettere – e di prendere posizione contro un bombardamento che ha causato altri due morti e undici feriti. Questa volta si sarebbe trattato di «un errore di tiro». 

A darle man forte, poi, è accorso un altro che è stato capace, per tutti questi mesi, di voltarsi dall’altra parte pur di non disturbare Netanjahu, fedele alleato di quell’orrendo Trump che è il punto di riferimento inamovibile di ogni governo di destra. Mi riferisco al ministro degli Esteri Antonio Tajani che ha detto: «Gli attacchi dell'esercito israeliano contro la popolazione civile a Gaza non sono più ammissibili. Nel raid di questa mattina è stata colpita anche la Chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, un atto grave contro un luogo di culto cristiano. Tutta la mia vicinanza a Padre Romanelli, rimasto ferito durante il raid. È tempo di fermarsi e trovare la pace». Prima della ferita alla gamba di padre Romanelli, a cui va la mia totale e assolutamente non ironica solidarietà, evidentemente per lui gli attacchi erano perfettamente ammissibili.

Anche Papa Leone XIV si è detto «profondamente addolorato nell'apprendere la perdita di vite e di feriti causati dall'attacco militare alla chiesa cattolica», ma lui ha parlato ogni giorno contro gli attacchi israeliani e non ha avuto bisogno che a essere ferito fosse, un cattolico, un bianco, un prete, per criticare Netanjahu e i suoi killer.

Anche questo dimostra che il discrimine nel giudizio delle persone e dei gruppi politici è dato dalla differenza tra chi si fa guidare dall’umanità e chi pratica la disumanità, una differenza che consiste soprattutto nel fatto che per i primi tutti gli esseri umani meritano lo stesso rispetto e la medesima pietà, mentre per i secondi le differenze tra gli uomini non soltanto sono profonde, ma dipendono esclusivamente dalle visioni e dalle convenienze di chi si sente in diritto di discriminare dando pesi e misure diverse a esseri che sono sempre persone con responsabilità individuali e non indistinguibili particelle di ammassi ipotetici di essesi intruppati sotto una medesima e assurda etichetta.

Dovrebbe bastare questo per decidere da che parte stare e per allontanare da sé coloro che sulle differenze basano la propria politica e il proprio comportamento.

giovedì 5 giugno 2025

Sicurezza, ma per chi?

Che sia un “decreto sicurezza” non c’è alcun dubbio, ma bisogna capire questa sicurezza a chi sarebbe garantita. Perché per il governo in carica problemi e rischi dovrebbero diminuire in quanto, in teoria, le nuove norme dovrebbero ridurre drasticamente il dissenso e le relative manifestazioni. Per i cittadini, invece, i problemi cresceranno visto che alcuni diritti previsti dalla Costituzione sono ostacolati con la minaccia di arresti e detenzioni.

In teoria nessuno potrebbe più protestare, se non a tavola tra amici, al telefono, o via internet, visto che il governo si scatena contro le manifestazioni pubbliche, anche se già alcune procure hanno affermato che, per esempio, non si può procedere contro le occupazioni delle scuole perché il fatto non costituisce reato in quanto gli studenti che prendono temporaneo possesso degli edifici scolastici protestando e manifestando starebbero soltanto esercitando un diritto garantito dalla Costituzione nell’articolo 17, quello di “riunione” e “manifestazione”. In più le occupazioni studentesche non costituiscono reato di interruzione di pubblico servizio poiché «gli studenti devono essere considerati soggetti attivi della comunità scolastica e partecipi alla sua gestione».

Ma il cosiddetto “decreto sicurezza”, in realtà, è una specie di “decreto manette” non soltanto perché restringe alcune libertà che la Costituzione ha affermato esplicitamente e che il fascismo esplicitamente aveva negato: è soltanto una nuova tappa in un percorso di progressivo autoritarismo che diventa sempre più evidente e che comincia a urtare la sensibilità anche di tante persone non particolarmente impegnate.

In questo quadro tra poco sarà chiaro, perché diventerà effettivo, anche il peso delle scelte del ministro Piantedosi sulla scuola. Non saranno promossi, né ammessi agli esami, infatti, coloro che in condotta non avranno ottenuto almeno il 6. Giusto, si potrebbe dire; ma, a ben guardare, non è proprio così. E, se non si avrà almeno un 9, non si potrà ottenere il massimo dei voti.

È evidente che, rispetto al passato, Valditara ha voluto rendere il voto in condotta numericamente un po’ più aderente a quelli delle altre materie, ma la sostanza del concetto di condotta non cambia. Se guardiamo a un passato non tanto remoto, era evidente il valore simbolico del 7 in condotta, fissato dall'allora ministro Giovanni Gentile e dal governo Mussolini nel 1923: era un voto più alto rispetto agli altri di molte pagelle, ma nella condotta si pretendeva la perfezione del 10, o quasi. Il 9 era accettato, ma con malcelato disappunto, l’8 ti faceva guardare come un potenziale piccolo delinquente e comunque un rompiscatole che voleva discutere, il 7 era tanto basso da condannarti agli esami di riparazione in tutte le materie.

E questo perché? Forse perché il comportarsi bene è più importante del conoscere l’italiano, il latino, la matematica, una lingua straniera? Assolutamente no. E, infatti, non si potrebbe capire il perché di una simile severità se si pensasse alla buona condotta come sinonimo di buona educazione. 

Tutto diventa, invece, platealmente comprensibile se buona condotta diventa sinonimo di disciplina. E la differenza tra disciplina ed educazione è enorme. La disciplina è il rigoroso rispetto delle regole. L’educazione, invece, è il rispetto delle persone.

 La differenza è fondamentale perché l’educazione è un modo di porsi davanti agli altri, mentre la disciplina è il rispetto di dettami che possono essere fissati da chiunque, magari nella legalità, ma non necessariamente con giustizia. E il rispetto resta doveroso anche se le regole cambiano soltanto perché più comode per chi detiene – pro tempore, si spera – il potere e le applica soltanto a coloro che non sono ossequienti. La severità tanto rivendicata da Meloni, Salvini e complici va, infatti, a corrente alternata. Sullo sgombero “immediato” delle case occupate illegalmente, per esempio, ci piacerebbe capire quale significato danno all’aggettivo “immediato” visto che Casapound occupa un intero palazzo romano da ventidue anni e non mi sembra che lo sgombero sia già in atto.

Domenica e lunedì si voterà per un referendum che ha il compito di cancellare cinque leggi sul lavoro e sulla cittadinanza che considero ingiuste, ma che può anche lanciare, raggiungendo il quorum, un potente messaggio contro chi crede di poter fare sempre quello che vuole tramutando una democrazia rappresentativa in una democrazia delegata. Quindi andate a votare e fate di tutto per convincere più gente possibile ad andare alle urne perché la democrazia, per salvarsi, ha un assoluto bisogno di gente che creda che sia possibile una democrazia reale e non quel simulacro che ci ostiniamo a chiamare così.

martedì 3 giugno 2025

Gli acrobati delle norme e delle parole

L’articolo 48 della Costituzione dice: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico». È un testo chiarissimo, ma è già da un bel po’ di anni sul diritto-dovere di voto si esercitano i nostri migliori acrobati delle norme e delle parole.

Sui primi quattro aggettivi da abbinare al sostantivo “voto” c’è poco da dire: coloro che tentano di aggirare i concetti di personale, eguale, libero e segreto, vengono denunciati penalmente. Quello su cui i tanti furbi del nostro panorama politico effettuano le giravolte più pericolose, non per loro ma per la democrazia, è il concetto di “dovere civico”. Ne parlano come se l’aggettivo civico togliesse valore al concetto di “dovere”, mentre, invece, lo rende ancora più cogente perché sottolinea che questo dovere riguarda l’intera comunità, e cioè tutti i cittadini, perché senza senso civico nessuna comunità può restare viva, compresa una repubblica e, a maggior ragione, una democrazia che è struttura mirabile, ma delicatissima.

Va detto che in questo caso il non adempiere a un dovere, pur riguardando tutti, può essere privo di gravi conseguenze per un normale cittadino in quanto potrebbe addurre svariatissime scusanti che finirebbero per impedire ogni sanzione in quanto sarebbe impossibile accompagnarle con un giudizio: per esempio l’assenza al voto di un malato sarebbe giustificata, ma da provare.

Questo, però, non può non valere per i rappresentanti delle istituzioni che, come dice l’articolo 54 della Costituzione, oltre ad avere gli stessi doveri degli altri cittadini, visto che a loro «sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». E non c’è alcuna disciplina, né alcun onore nel suggerire che il voto non è un “dovere civico”.

A suo tempo avevo scritto contro il comportamento dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, da senatore a vita, nel 2016, prima del voto sulle estrazioni di idrocarburi, aveva detto che sperare che il referendum fosse non valido per il mancato raggiungimento del quorum non è antidemocratico o anticostituzionale.

Oggi, però Meloni e complici fanno ancora peggio non soltanto invitando esplicitamente a non andare al voto, ma addirittura non rinunciando nemmeno alla possibilità di una fotografia di propaganda in più: «Vado a votare, ma non ritiro la scheda: è una delle opzioni», ha detto Giorgia Meloni.

La fantasia dei costituenti non arrivava neanche lontanamente a pensare che il diritto di voto, che contemporaneamente definivano “dovere civico”, per ottenere il quale decine di migliaia di italiani avevano sacrificato la propria vita, potesse essere non soltanto trascurato, ma addirittura irriso.

Ma sicuramente non avevano neppure previsto che a guidare il governo della Repubblica Italiana un giorno sarebbero stati dei personaggi che pervicacemente si rifiutano di affermare di essere antifascisti. E che hanno ragione di farlo perché antifascisti non sono.

Andare a votare, soprattutto in questo caso, è doveroso come “dovere civico”, ma “dovere civico” è anche spingere più gente possibile ad andare alle urne, a prendere le schede e a esprimere il proprio voto, qualunque esso sia.

 

domenica 1 giugno 2025

Repubblica non è sinonimo di democrazia

Quando l’uso di determinate parole diventa abituale, il rischio che si corre è quello di non percepire più la complessità della loro natura e, quindi, la realtà del loro significato.

Il 2 giugno, per esempio, in Italia si festeggia la nascita della Repubblica e la data si riferisce al referendum in cui il popolo italiano ha deciso di non volerne più sapere del re, e così, per molti la parola “repubblica” è diventata semplicemente il contrario di “monarchia” e contemporaneamente, vista la situazione del momento, ha assunto anche il ruolo di sinonimo di “democrazia”.

Eppure etimologicamente la non obbligata corrispondenza tra i due termini è più che evidente: repubblica significa cosa pubblica, mentre democrazia vuol dire potere del popolo e non sempre nella realtà le cose sono coincise. Molte sedicenti repubbliche, soprattutto quelle che nella dizione ufficiale sono accompagnate da aggettivi specificativi, non sono state assolutamente democratiche, ma ostaggi di tiranni, dittatori, capi religiosi. Ma anche molte altre hanno visto separare sempre di più la realtà repubblicana da quella democratica.

Se ci fermiamo al nostro Paese, la cosa poteva aver senso nel 1946 e nei primi decenni successivi, ma con il passare degli anni la situazione è drasticamente cambiata e repubblica e democrazia sono diventate sempre meno coincidenti.

Provate a pensarci. Quella volta la percentuale del popolo che decideva, cioè quello che andava a esprimere il proprio voto nelle elezioni di ogni tipo, raramente scendeva sotto il 90 per cento. Oggi ci si considera soddisfatti se si riesce a superare il 50 per cento e così nelle ultime elezioni, quelle del 2022 la coalizione che ha vinto e che ancora oggi governa ha ottenuto il 43,7 per cento dei suffragi dei votanti che sono stati il 63,9 per cento degli aventi diritto di voto. Questo vuol dire che, a fronte di un 30,2 per cento di voti sul totale del corpo elettorale, con il premio di maggioranza previsto dalla legge, governa con il 59,25 per cento dei seggi alla Camera e il 57,5 per cento al Senato.

Questo con il proporzionale puro non accadeva: le maggioranze si costituivano per strada e magari cambiavano all’interno della stessa legislatura, ma avevano davvero il diritto di chiamarsi maggioranza nei riguardi della popolazione italiana e non soltanto dei due rami del Parlamento.

A peggiorare la situazione, riducendo lo spazio della discussione, e quindi del possibile dissenso, si è aggiunta la drastica riduzione dei parlamentari motivata da risibili ragioni di risparmio, mentre si gettano via miliardi a puro scopo di propaganda elettorale.

Democrazia, poi, vuol dire scelta e la scelta può essere tale soltanto nel caso la si possa effettuare con sufficienti informazioni a disposizione. Sempre negli anni Quaranta e immediatamente successivi, le voci da cui la popolazione poteva apprendere quello che stava succedendo erano moltissime e presentavano punti di vista diversi che potevano aiutare nel comprendere a quale forza politica si era più vicini. Oggi le voci della carta stampata si sono ridotte di molto e alcune sono veri e propri bollettini di propaganda; le televisioni, soprattutto quelle controllate dai governi di turno si fanno notare più per le cose che tacciono che per quelle che dicono; il web è preda di chiunque voglia fare propaganda, o, ancor peggio, voglia far passare per vere realtà inesistenti, o situazioni diametralmente opposte a quello che realmente succede.

Potremmo andare avanti a lungo nel parlare di come il concetto di democrazia sia andato in crisi nel nostro Paese, e non soltanto con l’attuale governo, ma già da alcuni decenni, soprattutto nel nome di quella “governabilità” che ha come vero significato quello che appariva su un cartello dei tram di una volta: “Non parlare al manovratore”. E – non può in alcun modo consolarci – ma in altri Paesi sta già andando decisamente peggio, tanto che in una Nazione democratica, in cui il governo è davvero l’espressione del popolo al potere, alcune alleanze internazionali oggi sarebbero fortemente messe in dubbio.

Il fatto è che se si vuole davvero festeggiare la Repubblica, lo si può fare soltanto riconquistando la democrazia. E una prima occasione può essere colta già tra una settimana andando a votare ai referendum. Io voterò cinque Sì, ma l’importante in questo momento è smentire coloro che non vogliono che si vada a votare: a loro la democrazia non solo dà fastidio, ma fa addirittura spavento.

giovedì 29 maggio 2025

I sei referendum

Probabilmente nel leggere il titolo di questo “Eppure…” avrete pensato che io abbia fatto un errore perché i quesiti referendari per i quali si voterà domenica 8 e lunedì 9 sono cinque. Lo so benissimo e su tutte le cinque schede barrerò la casella con il “Sì” per abrogare leggi che considero ingiuste e sbagliate.

Lo farò per ridare il diritto al reintegro ai licenziati senza giusta causa, per togliere penosi limiti di risarcimento imposti ai giudici per la stessa circostanza, per proibire contratti a termine senza serie motivazioni, per non permettere che negli appalti la ditta principale si lavi le mani nei confronti della sicurezza e per non far aspettare molto più di dieci anni chi si merita la cittadinanza italiana.

Ma nei seggi elettorali si procederà anche a un altro voto referendario, anche se non sarà data alcuna scheda per esprimerlo e se il suo risultato non avrà immediati effetti pratici. La sesta consultazione sarà effettuata con la semplice partecipazione al voto che è esplicitamente avversata dalla quasi totalità dell’attuale maggioranza parlamentare che vuole approfittare dell’articolo 75 della Costituzione che prescrive che nei referendum abrogativi «La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi».

È un articolo che oggi sentiamo fortemente penalizzante nei confronti di chi chiede di abrogare una legge ingiusta, ma che verso la fine degli anni Quaranta, quando raramente l’affluenza scendeva sotto il 90 per cento, appariva non soltanto legittimo, ma quasi doveroso.

Oggi, a percentuali di votanti che non raramente non arrivano al 50 per cento, riuscire a raggiungere il quorum vorrebbe dire sconfessare il governo in carica, quello che si impegna a far andare deserta la consultazione.

E non si tratterebbe di sconfessarlo soltanto sui cinque quesiti, ma si tratterebbe soprattutto di affermare che l’Italia non intende continuare a vergognarsi delle azioni e delle decisioni di Meloni e complici non soltanto dal punto di vista politico, ma anche e soprattutto da quello umano.

Ho detto che andrò a votare per dire Sì ai cinque quesiti, ma lo farò soprattutto per dire No a un governo e a una maggioranza i cui membri restano seduti quando la minoranza chiede di alzarsi in piedi per rendere omaggio alle decine di migliaia di bambini e di altri innocenti uccisi a Gaza dalle bombe di quel criminale di guerra che si chiama Netanyahu. Per dire No a una presidente del consiglio che mai ha detto una sola parola per condannare il primo ministro di Israele, amico di quel Trump che la Meloni vede come il suo miglior alleato anche quando decide cose nocive per l’Europa. Per dire No a un governo che in Europa fa votare contro le proposte di decisioni sostanziali sul piano del commercio per indurre Netanyahu a interrompere una strage che fa ribollire il sangue a chiunque abbia ancora in sé qualcosa di umano.

Quindi, vi prego, domenica 8 e lunedì 9 andate a votare per cinque Sì, ma soprattutto per un implicito No che non avrebbe conseguenze immediate, ma che ci consentirà almeno di salvare la nostra dignità personale e che ci permetterà di dire che noi non siamo complici di colui che ammazza e affama un popolo intero soprattutto per difendere sé stesso ed evitare quei processi che lo aspettano da anni e neppure di quelli che, sostenendolo, hanno le mani lorde di sangue.

In questo caso il voto, oltre che un diritto, è anche un dovere. Ricordatevelo e ricordatelo anche a tutti coloro con cui avete a che fare.

giovedì 15 maggio 2025

L’assurda speranza dell’inferno

Almeno altri ottanta morti mercoledì, di cui 22 sono bambini. Un altro centinaio nella notte successiva. Dopo gli orrori commessi da Hamas il 7 ottobre del 2023, a Gaza l’esercito israeliano continua nella sua opera di strage giustificandosi, proprio come dicevano quelli che hanno sterminato gli ebrei sotto il regime di Hitler, «Non faccio altro che eseguire gli ordini».

E, intanto, quello che non fa l’esercito lo fa la fame, la sete, la mancanza di medicine, perché è da almeno due mesi che nella Striscia non entrano più aiuti, e il fatto che gli ospedali non ci siano praticamente più, se non a livello di macerie. Altri ottanta morti che fanno sempre più avvicinare alla terribile cifra di quasi 50 mila civili ammazzati da soldati con la stella di David sulla divisa. E qualcuno ama ancora cavillare sulla parola “genocidio”.

Ma Gaza non basta perché anche nella Cisgiordania stanno accadendo cose indicibili ben testimoniate dalle immagini di “No Other Land”, che ha vinto l’Oscar per la categoria documentari. Di questo si parla poco perché i morti sono molti di meno, ma l’obbiettivo finale è il medesimo: cacciare tutti i palestinesi dalla terra in cui abitano da secoli e alla quale sentono di appartenere. E i metodi sono, come sempre, violenti: ruspe che abbattono case e scuole, cementificazione dei pozzi d’acqua e tagli delle tubature idriche e, se qualcuno protesta, un colpo di pistola a bruciapelo da parte di quelli che hanno l’impudenza di farsi chiamare coloni.

E intanto, mentre finalmente c’è davvero tantissima gente che comincia a indignarsi e a non sentirsi antisemita se è contraria a Netanyahu e ai crimini che gli hanno procurato un mandato di cattura da parte della Corte penale internazionale, nel nostro Parlamento alla presidente del consiglio Meloni viene quasi un’ernia cerebrale nello sforzo di dire che in alcune cose non è proprio d’accordo con il rais israeliano e resta seduta con tutti i suoi seguaci quando viene rivolto un invito a tutti i presenti ad alzarsi in piedi in segno di dolente rispetto nei confronti delle migliaia di morti.

Io non ho una fede certa e so soltanto che in vita non potrò mai sapere, ma davanti a quelle immagini di bombe che polverizzano civili inermi – i cosiddetti danni collaterali, quasi parificati ai vetri delle finestre in frantumi – di bambini mutilati, di madri e padri che portano in braccio fagotti di tela bianca che contengono i corpicini senza vita dei loro figlioletti (pensate se quei bambini fossero i vostri), dei volti emaciati per mancanza di cibo, del mare di macerie, mi scopro a pregare Dio di esistere e di dare vita a quell’inferno nel quale spero possano patire in eterno Netanyahu, i suoi complici, i suoi obbedienti carnefici e anche tutti coloro che non soltanto non fanno nulla per indurlo a fermarsi, ma addirittura negano la realtà  per meschini e supposti motivi di alleanza.

 

mercoledì 14 maggio 2025

La lezione uruguayana

José Alberto Mujica se n’è andato sei giorni prima di compiere novant’anni. Era l’ex guerrigliero tupamaro che nel 2010 è diventato presidente dell'Uruguay, un Paese che, come molti dell’America latina ha visto passare la storia sotto dittature non sempre militari, ma invariabilmente molto lontane da ogni elementare forma di democrazia.

Negli anni Sessanta Mujica entra nel Movimento di Liberazione Nazionale – Tupamaros e partecipa alla guerriglia uruguayana. Catturato, trascorre oltre dieci anni in carcere, molti dei quali in isolamento. Ne esce senza rancore, diventando un raro modello di politico etico, umile e profondamente umano che lo fa apprezzare, per la sua capacità di dialogo, dalla maggior parte degli elettori del suo Paese, che lo scelgono come presidente, e ammirare da centinaia di milioni di donne e uomini in tutto il mondo.

È stato noto per la vita lontana dal lusso: Mujica viveva in una modesta casa di campagna e si spostava su un Maggiolino di quasi quarant’anni fa. È stato uno strenuo combattente contro la corruzione e ha dato vari esempi del fatto che viveva nello stesso modo in cui pensava e parlava. Donava, tra l’altro, il 90% del suo assegno da presidente a organizzazioni non governative che aiutano i più disagiati.

Vorrei ricordare due sue frasi che mi sembrano fondamentali per capire e affrontare la tetra notte che stiamo attraversando e che prima o poi dovrà pur finire.

La prima: «Sono consapevole di appartenere a una generazione che se ne va, che si congeda. La lotta continua e deve sopravvivere». E, infatti una delle sue maggiori preoccupazioni è stata quella di dedicare buona parte delle sue energie a non far apparire sé stesso come un leader insostituibile, di quelli che ritengono necessario mettere il proprio nome nel simbolo del partito che, in definitiva, ha come primo compito, quello di mantenere il capo al potere. Infatti il suo partito, quando lui ha smesso di essere presidente e si è ritirato nella sua casetta, ha continuato a comportarsi nello stesso modo non dimenticando un comandamento di Mujica: «Lo sviluppo non può essere contrario alla felicità. Deve essere a favore della felicità umana; dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, dell’attenzione ai figli, dell’avere amici, dell’avere il giusto». E il successo sociale, politico ed elettorale continua a sorridergli.

L’altra frase che dovrebbe essere scolpita nella testa di chiunque governi non “pro domo sua”, è: «Dobbiamo investire primo sull’istruzione, secondo sull’istruzione, terzo sull’istruzione. Un popolo istruito ha le migliori possibilità nella vita ed è difficile che si faccia ingannare dai bugiardi e dai corrotti». Ed è stato uno strenuo difensore dell’istruzione e della cultura perché, sottolineava, «sono le basi per difendere quei diritti che sono stati conquistati con tanto sangue e tanta fatica e che continuano a essere messi in pericolo».

Questo mio scritto è un pensiero rivolto a Mujica? In parte, perché è soprattutto un pensiero rivolto all’Italia, dove da decenni di felicità non si parla più, ma soltanto di ricchezza e di guadagno, dove sempre da decenni il settore in cui vengono effettuati costanti tagli è quello dell’istruzione e della cultura, in cui il nuovo maccartismo di Giorgia Meloni e complici impone di tagliare fuori coloro che non fanno cose che esplicitamente gradite al loro governo.

A José Pepe Mujica un reverente e commosso saluto; a voi la calorosa raccomandazione non soltanto di andare a votare al referendum dell’8 e 9 giugno, ma anche e soprattutto di impegnarsi a far andare a votare più gente possibile. Quelli che affiancano la Meloni sanno benissimo che la loro unica speranza di non perdere clamorosamente davanti ai quesiti sulla dignità del lavoro e contro la fobia nei confronti di chi non è figlio di italiani è quella che non si raggiunga il quorum. Votare è sempre un’alta forma di resistenza civile-

domenica 11 maggio 2025

La schifosa legge del silenzio

Talvolta il silenzio è molto più fragoroso delle parole. Talvolta l’assenza è terribilmente più clamorosa della presenza. Sarebbe da ciechi non aver notato che l’attuale maggioranza della Regione Friuli Venezia Giulia non ha ritenuto di partecipare, neppure con una singola presenza ufficiale, all’inaugurazione di vicino/lontano, né alla serata dedicata al premio Terzani nella quale il riconoscimento è stato attribuito alla memoria degli oltre duecento giornalisti palestinesi che sono stati uccisi dalle bombe, dai droni, dai proiettili dell’ l’IDF (una sigla inizialmente sincera e poi divenuta tristemente sarcastica, visto che significa “Forze di difesa israeliane”).

Per l’esattezza, uno studio della statunitense Brown University ha calcolato che dal 7 ottobre 2023, il giorno dell’orrendo massacro perpetrato da Hamas, a Gaza sono stati ammazzati almeno 232 giornalisti, più di quanti ne siano morti sommando i colleghi uccisi nella guerra civile americana, nelle due guerre mondiali, nella guerra di Corea, nella guerra del Vietnam, nelle guerre in Jugoslavia e nella guerra in Afghanistan dopo l’11 settembre. Il tutto in un quadro generale che parla di quasi 50 mila morti palestinesi di cui circa 20 mila erano bambini.

Com’è possibile una simile mancanza di pietas? Come si fa a negare quello che sta succedendo a Gaza? Si pensa davvero di poterlo cancellare con il silenzio? Era stato l’orrore per la connivenza nel silenzio lo stimolo che ha portato David Goldhagen a scrivere, riferendosi alla seconda guerra mondiale, “I volonterosi carnefici di Hitler”, libro molto apprezzato da tutti in Israele e avversato soltanto dalle destre estreme nel resto del mondo.

È evidente che questa assenza si spiega nel conformarsi anche della maggioranza di questa Regione all’attuale maggioranza pro tempore del nostro Paese. Ma qui la critica non trae forza dall’avversità politica, bensì dalla differenza del concetto di umanità che viene sottomesso alle presunte opportunità di alleanze che non hanno più il significato di una volta e che non possono restare totalmente invariate davanti non a normali mutamenti politici, ma a veri e propri stravolgimenti di tutti quei patti che sono stati firmati dalle varie nazioni per dare stabilità e umanità, appunto, ai rapporti internazionali con lo scopo principale – di cui, però, non si ricorda più quasi nessuno – di evitare la guerra che è la negazione di ogni concetto di civiltà.

Condannare il genocidio di Gaza – e finiamola di giocare anche su queste parole – e questo silenzio che tenta di nasconderlo non è opposizione politica: è semplicemente dignità umana. Papa Francesco è stato chiaro definendo come «ignobile» quello che sta succedendo e che, come ha scritto Anna Foa, altra ebrea come Goldhagen e come tanti israeliani ed ebrei che non accettano la bestialità di Netanyahu, assomigli molto a un sanguinoso suicidio di Israele.

Ed è ridicola l’accusa di antisemitismo che viene sparsa quasi in automatico contro chi parla contro l’attuale ras di Israele. Io ho orrore per Salvini e per tutti coloro che lo hanno assecondato nei suoi cosiddetti “decreti sicurezza” che hanno l’evidente, dichiarato e unico scopo di rendere più difficile, quasi impossibile, il soccorso in quell’immenso cimitero marino che è diventato il Mediterraneo. Come ho orrore per Minniti che ha venduto buona parte dei migranti agli aguzzini libici per regalare teorica tranquillità, ma soprattutto angosciante rimorso, all’Italia. Se non li posso vedere, se parlo contro di loro, sono forse anti-italiano? Evidentemente no: ritengo che gli anti-italiani siano loro. Esattamente come per me è Netanyahu a essere anti-israeliano. E ancora più evidente è il fatto che parlando male di lui non divento assolutamente antisemita. Non è mica che, con quello che penso di Salvini, io sia diventato anti-lombardo.

Giorgia Meloni ama ripetere «Dio, patria e famiglia». Già sul suo concetto di patria e di famiglia avrei un bel po’ da ridire, ma di che Dio sta parlando? Francesco ha detto: «Credo in Dio, non in un Dio cattolico; non esiste un Dio cattolico, esiste Dio». Ma il Dio dell’attuale presidente del consiglio pro tempore mi sembra un Moloch. Di che dio crudele sta parlando?

Del resto tutto questo non deve stupire perché quella del silenzio e dell’impedire l’informazione è un’arma che questa destra usa abitualmente, disertando le conferenze stampa, tacendo su alcune realtà e travisando molti numeri dei quali tace la reale consistenza. E, oggi, stando rigorosamente zitti sui referendum dell’8 e 9 giugno e puntando a non far raggiungere il quorum, unico sistema per evitare di risultare sonoramente sconfitti.

E noi cosa possiamo e dobbiamo fare? Dobbiamo quantomeno parlare, scrivere, manifestare per infrangere il silenzio, perché sempre più gente sia conscia di quello che sta succedendo e agisca di conseguenza. Parlare, scrivere, manifestare è una doverosa forma di resistenza civile.

Non posso dire agli esponenti della destra che «Una risata vi seppellirà»: non siamo più nel ’68 e non c’è proprio nulla da ridere, ma posso loro assicurare che faremo di tutto perché possano affogare nelle nostre lacrime.

 PS - Se lasciate dei commenti, vi prego di firmarli perché altrimenti li vedo firmati da "Anonimo" e mi è impossibile impostare un dialogo che mi sembrerebbe davvero utile. Grazie.

domenica 4 maggio 2025

Un problema serissimo

 

Il problema non è serio: è serissimo.

Il 25 aprile ad Ascoli una panettiera espone davanti al suo negozio un pezzo di stoffa bianco su cui è scritto «25 aprile: buono come il pane, bello come l’antifascismo». E viene identificata sia dalla polizia locale, sia dai carabinieri.

A Mottola, in provincia di Taranto, durante la manifestazione per la Liberazione viene intonata “Bella ciao”. un carabiniere si avvicina e identifica una decina di persone, giustificandosi con l'invito alla sobrietà diffuso del governo per il lutto per la morte di papa Francesco.

A Orbetello un paio di giorni dopo il 25 aprile la locale sezione dell’ANPI si vede recapitare una multa da 566 euro per “occupazione di suolo pubblico” durante la manifestazione per la cacciata dei nazifascisti.

A Dongo un centinaio di nostalgici del fascismo si raduna per ricordare (anche se per loro sarebbe meglio dimenticare) la cattura di un terrorizzato Mussolini in fuga travestito da militare tedesco: si presentano in camicia nera, alzano il braccio teso e urlano «Presente». Ma a loro non si avvicina nessuno per identificarli.

E ci sono anche altri esempi ancora degli atteggiamenti diametralmente opposti che le forze dell’ordine hanno tenuto nei confronti di chi celebra la Liberazione e di chi rimpiange la dittatura.

Per capire quello che sta succedendo forse è il caso di soffermarsi sul comportamento di alcuni carabinieri.

La prima ipotesi è quella di una serie di stupidaggini, ma ho sempre avuto la massima considerazione per i rappresentanti dell’Arma e considero del tutto ingiuste le decine di barzellette che li prendono in giro.

L’altra ipotesi chiama in causa la prima parte di un loro motto: “Usi a obbedir tacendo…” e questa mi sembra possa spiegare molto di più il verificarsi di questi avvenimenti altrimenti incredibili. Obbedienza, insomma. Ma l’obbedienza presuppone l’esistenza di un ordine e l’esistenza di un ordine è strettamente collegata a una catena di comando. Diventerebbe fondamentare, dunque, capire dove questa catena inizia, se nei vertici più o meno alti dell’Arma, oppure – cosa che sembra probabile – ancora più su.

Comunque sia, da qualunque posizione arrivi quell’ordine, non si può dimenticare che, militari, politici, o servitori dello Stato che siano, hanno necessariamente giurato su una Costituzione che è dichiaratamente antifascista e che, quindi, coloro che sono preposti alla sicurezza dei cittadini italiani talvolta devono adeguarsi agli ordini di qualche spergiuro.

 

PS - Ricordatevi di andare a votare l'8 e 9 giugno per i referendum. Meloni e complici giocano sull'astensionismo che minaccia seriamente il raggiungimento del quorum. È obbligo per ognuno di noi non soltanto di andare a votare, ma anche di convincere più gente possibile ad andare alle urne. I quesiti riguardano i licenziamenti illegittimi e la durata dei contratti di lavoro, il mantenimento delle responsabilità negli infortuni subiti dai lavoratori per chi decide di dare in subappalto la propria committenza, il dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana. Ricordo anche che si tratta di referendum abrogativi di leggi vigenti che personalmente considero ingiuste. Quindi voterò SI.

giovedì 1 maggio 2025

Propaganda e Primo maggio

Non fossimo direttamente e drammaticamente coinvolti, sarebbe davvero interessante mettersi a osservare fin dove può arrivare la creduloneria e la sopportazione di una parte non trascurabile – per ora la maggioranza relativa – degli italiani che vanno a votare. Lo spot video autoprodotto della presidente del Consiglio per farsi vedere vicina alla festa del Primo maggio è ricchissimo di spunti in questo senso, ma ve ne voglio segnalare due soltanto.

Il primo: «Crescono – dice – i salari reali in controtendenza rispetto a quello che accadeva nel passato». E lo dice con una faccia di bronzo davvero ammirabile, visto che nelle stesse ore Eurostat annuncia che in Italia nel 2024 le persone a rischio povertà o esclusione sociale sono state 13,52 milioni, pari al 23,1% della popolazione nazionale, di cui quelli già in povertà assoluta nel 2022 erano 5,6 milioni. Intanto l’Istat sottolinea che coloro che lavorano, ma sono in condizioni di indigenza, se non di povertà assoluta, sono un quinto – il 20 per cento – del totale.

E non giunge certamente a sproposito il fatto che il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sottolinei che gli stipendi sono troppo bassi lasciando intendere il fatto, già evidente da anni, che se i cittadini non guadagnano a sufficienza non possono nemmeno spendere e che così, alla lunga, i tagli per ottenere maggiori guadagni da parte degli imprenditori a lungo termine si rivelano un boomerang perché sempre meno gente sarà in grado di acquistare i prodotti.

Piccola nota a parte; per ricordare il nome della titolare del dicastero del lavoro, ho dovuto frugare abbastanza a lungo nella mia memoria per ricordare che si chiama Marina Calderone. Non una prova di superattivismo.

Il secondo: «Oggi – dice sempre Giorgia Meloni – dedichiamo la festa dei lavoratori al tema della sicurezza e ci impegniamo a fare ancora di più. Abbiamo reperito insieme all'Inail altri 650 milioni di euro per mettere in campo nuove misure concrete che insieme ai 600 milioni già disponibili dei bandi Inail destinati a cofinanziare gli investimenti delle imprese in questi ambiti portano a oltre 1 miliardo e 200 milioni le risorse disponibili per migliorare la sicurezza sui posti di lavoro».

Al di là del fatto che sembra sia la prima volta che per lei lavoro e sicurezza sono due realtà che devono andare di pari passo e che 600 più 650 fa un miliardo e 250 milioni e non un miliardo e 200, appare clamoroso il fatto che in tema di sicurezza sul lavoro questi fondi fossero già nelle casse dell’INAIL (L'Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro), probabilmente a fare cassa, mentre avrebbero già dovuto essere impiegati per ridurre quell’ecatombe di morti sul lavoro che, al di là di quello che già dice la Costituzione, mette in un lutto costante ed erode dalle fondamenta il nostro Paese.

Se, come diceva Robert Kennedy, nel calcolare il PIL, oltre agli aspetti economici si inserissero anche i fattori davvero importanti come la qualità della vita e la sicurezza di chi lavora, non saremmo al tanto vituperato “zero virgola”, ma saremmo abbondantemente e decisamente in cifra negativa.

Si potrebbe dire: in politica qualche bugia la dicono tutti, ma non è proprio così perché per l’attuale presidente del Consiglio, e non premier, come ama farsi chiamare, la falsificazione nell’interpretazione delle risultanze numeriche non è l’eccezione, bensì la regola.

Vorrei concludere con il classico «Buon Primo maggio a tutti», ma sarebbe sbagliato: Come per il 25 aprile, anche il Primo maggio non è la festa di tutti. E manca soltanto che raccomandino di farlo con sobrietà, anche perché non sanno che non c’è sobrietà più grande del mettersi a marciare insieme dietro a qualche striscione di protesta e rivendicazione, e dell’ascoltare musica, spesso anche impegnata, per esprimere in maniera contenuta la rabbia che sale per i tanti morti sul lavoro e per i tantissimi che sono già arrivati, o almeno si sono avvicinati di molto, alla povertà.

Insomma, buon Primo maggio, ma soltanto a coloro che il lavoro lo rispettano sul serio.

PS - Ricordatevi di andare a votare l'8 e 9 giugno per i referendum. Meloni e complici giocano sull'astensionismo che minaccia seriamente il raggiungimento del quorum. È obbligo per ognuno di noi non soltanto di andare a votare, ma anche di convincere più gente possibile ad andare alle urne. Gli studenti fuori sede possono votare senza tornare a casa, se lo richiedono entro il 4 maggio.

sabato 26 aprile 2025

Gli invasori di diritti

Ieri a Udine ha piovuto insistentemente per tutta la mattinata. Eppure non ho mai visto tanta gente presente alla celebrazione del 25 aprile. Poi ho seguito alcuni canali televisivi (ovviamente non tutti) e ho guardato piazze stracolme e lunghissimi cortei di gente che acclamava la Resistenza. E la stessa cosa l’ho vista nelle fotografie postate su internet.

È ovvio che il cuore si è allargato perché nel buio più assoluto basta un lumino, per quanto fioco, per rafforzare la speranza che questa maledetta notte debba pur finire. Ma contemporaneamente ha continuato a grattare nel cervello l’urticante constatazione che a votare va soltanto la metà, o poco più, degli italiani e che quelli che restano a casa non sono certamente coloro che l’antifascismo lo odiano perché lo vedono come una testimonianza della sconfitta dell’ideologia che aveva massacrato l’Italia fino a ottant’anni fa e che loro rimpiangono. E con questa constatazione, c’è anche la parziale conferma che, come diceva Krippendorff, «l’insoddisfazione è il vero motore della sinistra». Dico “parziale” perché l’insoddisfazione porta anche alla costante ricerca dell’ottimo e alla sottovalutazione del buono.

Questo è un difetto costante nei progressisti italiani fin dai tempi in cui l’unità d’Italia era ancora un sogno che appariva lontanissimo, un difetto che si è interrotto soltanto con la svolta di Salerno quando nell’aprile del 1944 – e siamo sempre nell’ambito della Resistenza – su impulso di Togliatti, le varie anime dei gruppi che combattevano contro i fascisti e i nazisti hanno deciso di mettere da parte temporaneamente le loro più o meno grandi divergenze politiche per creare un fronte unico contro chi aveva invaso l’Italia e contro chi l’aveva ceduta all’invasore. E a questo proposito mi piacerebbe sentire la definizione di patriottismo secondo La Russa e camerati assortiti.

Oggi, tranne per il fatto che non siamo direttamente in guerra, la situazione è simile perché non ci troviamo di fronte a invasori di territori, ma di fronte a invasori di diritti e l’unico modo per “tornar a veder le stelle” è quello di mettere temporaneamente da parte le divergenze su alcuni particolari politici ed economici e soprattutto molte egoistiche e scellerate ambizioni personali, per opporsi insieme a chi sta avvelenando la nostra democrazia e sta ignorando e stravolgendo l’anima della nostra Costituzione.

Forse nelle celebrazioni del 25 aprile sbagliamo a ricordare soltanto alcune individualità, alcuni episodi, alcune stragi nazifasciste, alcuni ideali: dovremmo ricordare più spesso lo spirito del CLN, del Comitato di Liberazione Nazionale, correggendo anche a muso duro quelli che si ostinano a cambiare il concetto di “liberazione” nel concetto di “libertà” perché i nostri padri si sono liberati di loro, mentre la libertà l’avevano già dentro: soprattutto quella di decidere di mettere a rischio la loro vita per assicurare la libertà a noi, indegni eredi.

giovedì 24 aprile 2025

Le differenze ineliminabili

È da alcuni anni che scrivo che il 25 aprile non è di tutti, ma in realtà sono davvero molte le cose che non sono di tutti. Se la vediamo in maniera diversa, questo vuol dire che siamo degli inguaribili sognatori, o, semplicemente, che preferiamo non vedere la realtà che ci circonda e che, piuttosto che affrontare discussioni e dissensi, siamo più che disposti a sdoganare l’ipocrisia di chi, tanto per dare un esempio, ogni tanto dice che è innegabile il significato e il valore di questa data, ma che proprio in quella data organizza una visita di Stato in Uzbekistan.

Per fortuna, a svegliare almeno qualcuno, ci sono persone come Francesco Borgonovo, vicedirettore de “La verità” (in questo caso una rara specie di ossimoro in una parola sola), che, fiero della propria inventiva, titola la prima pagina con “25 aprile: lutto nazionale” approfittando della genialata del governo che per la prima volta estende a cinque giorni il lutto nazionale per la morte di un Papa per riuscire a coinvolgere anche il 25 aprile, ottantesimo anniversario della Liberazione che per loro corrisponde a una sconfitta alla quale non si sono ancora rassegnati. Un lutto che, tra l’altro, è evidentemente a singhiozzo, visto che campionati e coppe di calcio, al di là del giorno della scomparsa di Francesco e di quello del funerale, proseguono tranquillamente.

E, a proposito di lutto e di ipocrisia, è molto difficile non provare rabbia nel pensare che adesso verranno a fare omaggio a Papa Bergoglio, personaggi come Trump, Milei, solo per fare due nomi, che lo hanno offeso indegnamente perché ricordava al mondo che il Vangelo predica esattamente il contrario di quello che loro combinano. E anche la sfilata dei finti dolenti nel Parlamento italiano ha lasciato un forte amaro in bocca sia per l’ipocrisia che abbiamo sentito, sia perché siamo sicuri che per gran parte dell’elettorato l’ipocrisia non è un difetto che possa impedire un voto in favore dell’ipocrita.

Un piccolo cenno anche alla sobrietà auspicata dal governo nelle manifestazioni del 25 aprile. Ebbene, se è difficile comprendere cosa possa voler dire “sobrietà” per personaggi come Meloni e Salvini che, mentre la televisione stata dando le notizie e gli aggiornamenti sulla colpevole strage di migranti avvenuta a Cutro, cantavano a squarciagola in un karaoke, è evidente che la Festa della Liberazione è naturalmente sobria perché non è possibile separare la gioia per la sconfitta del fascismo e del nazismo dal dolore per tutto coloro che hanno dato la vita per regalarci la libertà e la democrazia.

Quindi non solo il 25 aprile, ma nemmeno il lutto può essere di tutti perché ci sono differenze ineliminabili tra i modi di vedere il mondo da destra e da sinistra, due categorie politiche e sociali che non sono assolutamente scomparse, ma soltanto nascoste da coloro ai quali faceva comodo evitare confronti non annacquati.


 

martedì 4 febbraio 2025

La nipote di Mubarak

        Vi ricordate la nipote di Mubarak? O, meglio, il caso in cui la marocchina Karima El Mahroug, soprannominata “Ruby Rubacuori”, salì agli onori della cronaca perché Silvio Berlusconi – riassumo rozzamente – per difendersi dall’accusa di aver avuto una serie di incontri sessuali con lei quando era ancora minorenne, cercò di sottrarla alle indagini iniziali della polizia facendo affermare a una sua fedelissima che la ragazza era la nipote dell’allora Presidente dell’Egitto e che bisognava evitare un incidente diplomatico internazionale?

A tale proposito merita ricordare che Berlusconi fu poi assolto mentre furono invece condannati in via definitiva, per favoreggiamento della prostituzione, Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti. Ma ancor più doveroso è non dimenticare che la maggioranza del Parlamento, per difendere l’allora presidente del Consiglio, votò come se Berlusconi avesse avuto ragione a imbastire una bugia talmente evidente da far sogghignare l’intero mondo per come l’Italia aveva saputo mettersi in ridicolo.

Su quell’episodio sono stati versati fiumi di inchiostro, ma quella volta nessuno lo vide come un vero e proprio colpo di genio di Berlusconi che, con la compiacente complicità dei partiti che formavano la maggioranza, tra i quali erano già in posizione di rilievo Meloni, Salvini, Tajani e Lupi, è riuscito non soltanto a sdoganare la falsità, ma a indicare la strada verso quel nuovo modo di fare politica in cui la bugia è ormai assunta come regola e la verità come imprevedibile eccezione.

Da ragazzini ci sentivamo ripetere ossessivamente «Non dire mai bugie». Anzi era il comandamento, l’ottavo, che la famiglia e la società tenevano più in evidenza come base fondante dell’educazione e dell’onestà. In realtà il testo canonico dice «Non dire falsa testimonianza», ma ha un sapore un po’ troppo ufficiale, come se la verità diventasse doverosa, oltre che apprezzabile, soltanto nelle aule dei tribunali.

Oggi l’ottavo comandamento sembra essere scomparso in quella mota indistinta che ormai caratterizza una vita politica che sembra avere come unici scopi quelli di sopraffare la voce altrui di mantenersi alti nei sondaggi e di vincere le elezioni successive. E infatti dalle bugie siamo assediati e intossicati.

Esemplare è stata in questo senso la recita in forma di messaggio video da parte di Giorgia Meloni dopo che il procuratore Lo Voi aveva comunicato, com’era suo dovere, al Tribunale dei ministri che un cittadino l’aveva denunciata, unitamente a Nordio, Piantedosi e Mantovano, per la vicenda di Almasri, il torturatore, violentatore e assassino libico riportato velocemente a Tripoli con un volo di Stato.

Non era, come ha detto lei, un avviso di garanzia, ma una doverosa comunicazione che nei suoi confronti era stata presentata una denuncia. Il denunciante non era né un avvocato di sinistra, né un amico di Prodi, perché i suoi trascorsi politici si sono concretizzati nel Movimento Sociale e nell’Italia dei Valori di Di Pietro. La tempistica degli avvenimenti è stata immediatamente confutata anche dalle ridicole e contraddittorie ricostruzioni dei fatti da parte dei denunciati.

Al di là di questo episodio, di bugie, poi ne abbiamo sentite moltissime: sui migranti, sui conti pubblici, sulle necessità della giustizia, sui finanziamenti alla sanità pubblica e all’istruzione, e potrei andare avanti molto a lungo. E oggi le falsità ci arrivano anche da lontano e influenzano i nostri sovranisti tra cui fa di tutto per spiccare, come sempre, Salvini. Alle assurde sparate di Trump, un professionista del travisamento, fa eco Musk con il suo sostegno ai neonazisti che definisce «l’unica salvezza per la Germania» e con l’ultima alzata d’ingegno: «Make Europa Great Again», fai di nuovo grande l’Europa che, con tutta evidenza, significa, invece, distruggi l’Europa e fai rinascere le divisioni tra tante entità più piccole che, magari, ricominceranno a farsi la guerra. E non soltanto quella commerciale.

Però merita cercar di capire meglio perché ormai la bugia corrisponda troppe volte al successo elettorale. Fermiamoci alla nostra Italia e chiediamoci perché la disumanità contro i migranti e la vicenda di Asl Masri per il momento non sembrino togliere consensi alla Meloni e ai suoi complici.

Si potrebbe pensare che la strage di migranti annegati nel Mediterraneo, la disumanità nei confronti di quelli che si salvano, la prigionia immotivata nei CPT, i respingimenti, pur se inutili come quelli in Albania, possano benissimo attagliarsi alla mentalità dei fascisti, ma a votare per Meloni ci sono anche molte persone che, nel privato, non hanno in sé tracce di disumanità e, inoltre, il risultato elettorale ormai dipende in grandissima parte da coloro che non vanno più a votare perché non sentono il dovere di andare alle urne almeno per impedire che questi crimini si perpetuino.

Quindi, se l’attuale governo, anche se deporta poveri cristi innocenti e rimpatria con tutte le comodità delinquenti conclamati e ricercati su ordine della Corte di Giustizia Internazionale, continua a contare su sondaggi positivi, deve molta gratitudine a Berlusconi e alla sua determinazione nello sdoganare anche le bugie più ridicolmente incredibili perché a reggerlo non è soltanto la nostalgia di un mondo repellente che ha ammorbato l’Italia per un ventennio, ma anche l’ignoranza nel senso puramente etimologico del termine: non conoscenza. E la gente non sa più quello che in realtà succede perché non legge più i giornali, non ascolta i telegiornali, si lascia penetrare quasi soltanto dalla propaganda, dai social, dal deliberato e artistico diffondersi del sentito dire, mentre la cultura viene disprezzata perché inutile, mentre sarebbe fondamentale proprio per smascherare le falsità.

In queste condizioni qualunque notizia perde credibilità e allora tutto acquista una qualche plausibilità. Poi, a vincere spesso è la voglia di restarne fuori, per non sporcarsi come molti di noi hanno fatto dopo il 68 con il risultato non soltanto di macchiarci del peccato di omissione, il più grave, ma anche di lasciar sporcare il mondo che oggi è talmente lordo da poter indurre alla disperazione che nel cristianesimo è uno di quei “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”.

Disperare, insomma, anche in maniera assolutamente laica, non è né lecito, né possibile e ognuno di noi deve fare qualcosa. Proviamo a cominciare con l’impegno di leggete e far leggere, come atto di resistenza civile; non violenta, ma efficacissima ed evidentemente molto temuta.

 

martedì 28 gennaio 2025

La memoria non dura solo un giorno

 

          Oggi è il 28 gennaio e sarebbe ipocrita, oltre che stupido, sentirsi a posto con la coscienza perché ieri, 27 gennaio abbiamo celebrato la Giornata della Memoria. Perché la Memoria, se c’è, non dura soltanto una giornata. E perché, se si può dedicare un giorno a ricordare le vittime, serve l’intera vita – anche se può sembrare paradossale – per ricordare i carnefici, l’aberrazione del razzismo, l’orrore dello sterminio e per individuare i germi della xenofobia e dell’eterofobia che non sono meno gravi del “razzismo”: ne sono soltanto la pericolosissima anticamera.

Tutti conoscete la realtà dei Lager nazisti. Pensateci un po’, richiamatela alla mente e poi chiudete gli occhi e portatela avanti nel tempo di ottant’anni: portatela a oggi. Dite che è impossibile perché non ci sono le camere a gas e i forni crematori? È vero: non ci sono più – almeno per quanto ci è dato di sapere – in nessuna parte del mondo. Vi sentite rassicurati? Non credo e se così fosse, sbagliereste clamorosamente perché le camere a gas e i forni crematori erano soltanto la pur orrenda apparenza: la sostanza erano le uccisioni, gli omicidi, le crudeltà, le stragi, a prescindere dai mezzi usati.

Il fatto è che noi siamo schiavi delle rigidità che istintivamente diamo alle parole e alle immagini. Per esempio, continuiamo a domandarci se quello che troppo spesso ci appare davanti sia fascismo, o meno, e continuiamo anche a lasciarci rispondere, senza indignarci profondamente, che il fascismo non può tornare perché è un relitto della storia. Eppure dovremmo sapere che il fascismo non è soltanto il saluto romano, il colore nero, le urla “Presente”: queste sono apparenza, non sostanza e l’apparenza è praticata solo dai meno furbi. Il fascismo è molto di più: è disprezzo per le altre vite umane, è insofferenza per la democrazia, è soddisfazione per l’approfondirsi delle diseguaglianze tra i ceti sociali, è il rancore, se non l’odio, per altre nazioni, altre religioni, altre lingue, altre inclinazioni sessuali, altre convinzioni politiche. Vi pare che di queste realtà sia priva l’Italia di oggi? E vi sembra sia importante il nome con cui questi figuri si autodefiniscono per distinguere se siano fascisti, o qualcos’altro?

E se pensiamo alla Shoah, che vuol dire “tempesta devastante”, e a quello che succede oggi, ritenete che la scelta tra chi deve vivere ancora per un po’ e chi deve morire subito sia tanto diversa se viene fatta non appena le persone scendono da un carro bestiame, o se dipende da chi c’è e chi non c’è in un condominio contro il quale si lancia una bomba sapendo benissimo che si faranno certamente centinaia di vittime innocenti soltanto per la presunzione di riuscire a uccidere un colpevole?

Credete che ci sia una differenza davvero sostanziale tra il programmare di uccidere tutti gli appartenenti a un gruppo umano e il decidere “soltanto” di ucciderne il più possibile? O che ci sia davvero un abisso tra i campi circondati da filo spinato e dotati di torrette con le mitragliatrici pronte per tenere prigionieri degli innocenti, e le alte e impenetrabili mura dei CPT dove sono tenuti prigionieri, nell’indifferenza praticamente generale, esseri umani che non hanno commesso alcun reato e che sono talmente imbottiti di farmaci, calmanti e droghe che, prima o dopo, in non pochi casi, passano senza scossoni dalla disperazione al suicidio?

Ha ragione Papa Francesco quando dice che «Viviamo in una terza guerra mondiale combattuta a pezzi». E nella stessa maniera stiamo assistendo anche a uno sterminio a pezzi, che non si svolge con tutte le sue possibili apparenze nel medesimo posto e nello stesso tempo, ma che in tanti posti diversi punta ad assassinare il maggior numero possibile di esseri umani. Con l’aggravante che quella volta si poteva davvero non sapere quello che stava accadendo, o, almeno, si poteva pensare di essere creduti se si diceva di non sapere. Oggi abbiamo tutto davanti ai nostri occhi e, quindi, non sapere è impossibile: possiamo solo far finta di non sapere per non doverci sentire nel fastidioso obbligo di indignarsi davvero e, quindi, di reagire.

Come si può vedere quello che ci succede attorno, anche a pochi chilometri di distanza, e non partecipare, per come si riesce, alla vita sociale e politica del proprio Paese, addirittura non andando nemmeno a votare? Come si fa a restare indifferenti mentre i simboli fascisti e nazisti tornano a fare proseliti che si accaparrano maggioranze anche davvero molto relative, ma che, nei computi democratici, sempre maggioranze restano?

Insomma: è necessario continuare a far vivere la Giornata della Memoria anche oggi, domani e nei giorni a seguire perché non è il negazionismo l’aspetto più pericoloso della questione, bensì la voglia di non parlare di quanto è accaduto. Il negazionismo è tanto lontano da una realtà storica più che abbondantemente provata, da non attrarre nessuno che non voglia già in partenza essere attratto. Più preoccupanti sono i tentativi di camuffare la storia e di riscriverla per lavare, soprattutto in politica, alcuni panni sporchi. Ma terribilmente pericoloso è il lasciar perdere, il lasciar dimenticare un po’ alla volta con il silenzio, perché – frase abusata ma non per questo meno valida – chi non ricorda i propri errori è condannato a ripeterli.

Un’esagerazione? Provate a pensare a quanti mattatoi si sono reincarnati nell’ex Jugoslavia, in Afghanistan, in decine di altri Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America centrale e meridionale. Provate a pensare a Gaza che non è considerato come un Lager per le sue dimensioni, non per la sua terribile realtà; pensate a quello che Trump sta imponendo non solo sul confine con il Messico, pensate al Mediterraneo dove vengono lasciati annegare migliaia di disperati e rabbrividite. Il problema è che perché il male trionfi, basta che i cosiddetti buoni non facciano niente per ostacolarlo. E sappiamo benissimo che esiste un solo miglioramento possibile per un ghetto, o per un Lager: eliminarlo.

Insomma, bisogna essere memoria, ancor prima che fare memoria. Ed essere memoria è domandarsi: cosa avrei fatto io allora? E soprattutto, pretendendo da sé stessi una risposta sincere: cosa sto facendo, per quanto posso, oggi?  

 


venerdì 24 gennaio 2025

Avvisaglie di dittatura

        

         Vi siete mai chiesti quale sia il principale segno distintivo di ogni dittatura? Pensate alla violenza, alla crudeltà, all’impego abnorme delle forze di polizia, alla soppressione di ogni forma di democrazia reale? Ci siete vicini, ma la storia non è avara di racconti di dittature che, per almeno un periodo della loro esistenza, non abbiano evitato, o che siano riuscite a tenere ben nascoste, queste caratteristiche.

La vera e inevitabile peculiarità comune, invece, è quella che i protagonisti del regime dittatoriale, anche in fase di preparazione dell’assalto definitivo al potere, raccontano menzogne evidentissime con la convinzione di riuscire a farle passare come verità, almeno in buona parte della popolazione. Per loro, insomma diventa decisamente più importante la cosiddetta realtà virtuale che fa comodo, mentre scompare la vita reale che potrebbe indurre i sudditi a pensare e a tornare cittadini.

Prendete, come esempio palmare, il ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, e il suo intervento in Senato sul caso del generale libico Najeem Osema Almasri Habish, oggetto di un mandato d'arresto internazionale a fini di estradizione, emesso dalla Corte penale internazionale dell’Aja perché considerato responsabile di omicidi, stragi, torture, violenze fisiche e sessuali e altre amenità del genere nei confronti dei migranti bloccati nelle carceri – ma sarebbe più giusto chiamarle Lager – della Libia.

Piantedosi ha detto, rispondendo al question time senatoriale, che Almasri è stato rilasciato «per poi essere rimpatriato a Tripoli, per urgenti ragioni di sicurezza, con mio provvedimento di espulsione, vista la pericolosità del soggetto». E mi è difficile trovare un esempio più chiaro di disprezzo dell’intelligenza dell’ascoltatore.

Per cominciare: se un attentatore islamico compie un attentato nel nostro Paese, vista la sua evidente pericolosità, Piantedosi farebbe preparare un aereo di Stato per portarlo velocemente e comodamente nel suo Paese? O riuscite forse a concepire che se, per esempio, nel 1972 fossero stati arrestati in Italia i terroristi di Settembre nero, autori della strage alle Olimpiadi di Monaco, il ministro degli interni dell’epoca avrebbe tenuto lo stesso comportamento di Piantedosi? Evidentemente no.

Qualcuno potrebbe dire che si è trattato di un’assurda alzata d’ingegno del ministro e magari potrebbe richiederne le dimissioni. Ma che senso avrebbe? Pensate davvero che Piantedosi abbia agito da solo senza consultare nessuno?

Se, visto che si trattava di mandato d’arresto internazionale e che andava a toccare patti internazionali, appunto, sottoscritti dall’Italia, non avesse avvertito il ministro degli Esteri Tajani, allora sarebbe lo stesso Tajani a sollevare un polverone contro Piantedosi. Ma invece Tajani risponde, evidentemente alterato, alle domande dei giornalisti: «L’Italia è un Paese sovrano e non è sotto scacco di nessuno». Laddove per scacco, visto che non si può interpretare in tal modo un trattato liberamente sottoscritto, è evidente il riferimento alla Libia con il sottinteso «Se non lo avessimo lasciato andare, la Libia non ci avrebbe più aiutato a bloccare l’emigrazione». E poi, indifferente con che modi li trattiene.

Per me già il concetto che un po’ di morti nelle carceri di Tripoli e migliaia di morti tra le onde del Mediterraneo possano essere considerati “utili” per disincentivare le fughe dalle guerre, dalla fame, dalle dittature, sarebbe più che sufficiente per considerare questo governo – come consideravo anche l’ex ministro Marco Minnitti – totalmente inadatto a rappresentare un Paese civile.

E vi sembra possibile che di tutto sia stata tenuta all’oscuro la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni? E che da lei, che tutto sempre vuole controllare, non sia arrivato il necessario imprimatur alla liberazione del criminale e al suo viaggio immediato su un aereo di Stato? Lo conferma anche il rumorosissimo silenzio del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sempre pronto a parlare, ma in questa occasione evidentemente scavalcato da ordini superiori.

Stiamo continuamente cercando tracce di fascismo, pur evidenti, ma ci stiamo dimenticando che le dittature possono essere anche diverse nell’apparenza, ma non nella sostanza che è soprattutto quella di pretendere che i propri sudditi non vedano più la realtà, ma accettino una narrazione virtuale che nel concreto non esiste.