E potremmo continuare con altri spunti di discussione. Eppure, nonostante tutto, credo che sia il caso di soffermarsi per un momento su quello che sta accadendo in Calabria dove il presidente di quella Regione, Roberto Occhiuto, indagato per corruzione, dopo aver avvertito i suoi capi di coalizione – Giorgia Meloni, Antonio Tajani, Matteo Salvini e Maurizio Lupi – ha deciso di dimettersi ma per ricandidarsi immediatamente.
Si tratta di una mossa inedita che, però, si inserisce perfettamente nel modo di intendere giustizia e soprattutto democrazia da parte dei partiti di destra attualmente al governo. La decisione di Occhiuto, infatti, ben lungi dal rispettare scelte, modalità e tempi della magistratura e, quindi, delle leggi in vigore, altro non fa che negarne la funzione e l’autorità non soltanto rifiutando la separazione dei poteri che è la base di ogni democrazia che non stia già franando nel satrapismo, ma, anzi dando a un teorico popolo la preminenza sulla giustizia e confermando quella teoria malata che però sta sempre più prendendo piede, secondo la quale chi vince le elezioni può fare quello che vuole e non deve essere assolutamente disturbato da nessuno: opposizione, giustizia, informazione, manifestazioni di dissenso più o meno organizzato.
Occhiuto, infatti, oltre che autoassolversi preventivamente, finisce col dire che l’inchiesta della magistratura deve sottomettersi ai risultati delle prossime elezioni. Avrebbe già dovuto farlo – è sottinteso – al risultato delle elezioni precedenti, ma adesso, sempre che sia ricandidato e rieletto, chi potrebbe – secondo lui – avere la sfrontatezza di rimetterlo sotto giudizio?
Cioè, per essere più chiari, secondo Occhiuto e i suoi capi che gli hanno dato l’ok, la giustizia vale talmente poco da dover tacere se un certo numero di cittadini vota per lui. Magari perché disinformati, magari in quanto spinti da quelle forze che sono coinvolte nelle accuse di corruzione, magari perché del tutto indifferenti a Occhiuto, ma fedeli ai partiti che lo hanno sostenuto.
Sarebbe sempre il caso di ricordare che democrazia non vuol dire soltanto voto, ma è un complesso meccanismo di scelta collettivo nel quale le basi sono l’informazione, la conoscenza, la discussione, la scelta delle parti e soltanto alla fine il voto che, tra l’altro fornisce un risultato temporaneo, anche se, disgraziatamente, maggioritario.
Quella imboccata da Occhiuto è una strada già prefigurata dalla destra in altre occasioni, ma finora mai imboccata con decisione. Ed è una strada pericolosissima che rischia di mandare in frantumi il concetto di democrazia, e quindi di libertà, per dare vita a un qualcosa che, con un neologismo, potremmo chiamare “likecrazia” nella quale l’importante diventa non la capacità, la rettitudine, il programma sociale, ma soltanto la simpatia e la capacità di fare propaganda per raccogliere il numero maggiore possibile di quei “like” che – i social insegnano – non soltanto non sono in grado di definire ciò che è giusto, ma che possono rovesciarsi da un momento all’altro e trasformare il pollice in su in pollice verso.
Sarebbe il caso di cominciare a prendere davvero sul serio anche quelle che, a prima vista, possono apparire come delle buffonate.
Ci sono,nella collettività,un sacco di luoghi comuni,concetti mai posti a verifica , e simili.uno di questi è la "maggioranza" (come sinonimo di democrazia)
RispondiEliminaConcordo in pieno: i social sono sempre più pericolosi
RispondiEliminaCondivido molte delle preoccupazioni espresse nel tuo articolo, ma mi permetto di dissentire su un punto: il concetto di “democrazia reale”.
RispondiEliminaPersonalmente non credo che la democrazia, così come idealmente viene teorizzata – cioè come sistema basato su reale partecipazione, conoscenza diffusa, giustizia imparziale e sovranità del popolo informato – sia mai davvero esistita. È forse più un orizzonte, una tensione, un ideale verso cui tendere, piuttosto che una realtà compiuta.
Nella pratica, il potere ha sempre trovato nuove forme per sottrarsi al controllo collettivo, spesso camuffandosi sotto i meccanismi democratici stessi. Parlare di “crisi della democrazia” presuppone che ci sia stata, in un passato più o meno recente, una sua piena realizzazione. Io non ne sono così convinto.
Quello che oggi vediamo – dai casi giudiziari strumentalizzati alla deriva del consenso trasformato in licenza – non è tanto la rottura di un equilibrio ideale, quanto la manifestazione plastica delle fragilità strutturali che la nostra democrazia si porta dietro da sempre.
Ciò non toglie valore al dovere di vigilare, denunciare e costruire alternative. Ma forse è tempo di ammettere che non stiamo difendendo un “modello perfetto”, quanto piuttosto l’idea che possa esistere qualcosa di meglio del potere cieco e irresponsabile. E questa è già, di per sé, una battaglia necessaria.