venerdì 28 dicembre 2012

I consigli politici della Chiesa

Alla “salita in politica” di Mario Monti corrisponde un’immediata nuova “discesa in campo” della Chiesa che interviene immediatamente in appoggio al presidente del Consiglio uscente, con una prontezza che fa capire senza sforzi che qualunque cosa può andar bene pur di mettere i bastoni tra le ruote di un centrosinistra troppo laico per i gusti di Oltretevere.
Dal Vaticano e dai suoi organi di stampa ci si aspetterebbe un più che lecito intervento in politica, se per politica si intendono i principi ai quali la politica dovrebbero uniformarsi, magari seguendo le parole del Vangelo e non i desideri dei prelati di turno; quello che sembra assolutamente fuori luogo è la discesa in “partitica” che corrisponde a uno sposalizio aprioristico - e per molti improprio oltre che sgradevole - con uno schieramento.
Non serve andare all’atteggiamento vaticano nei confronti dei fascisti dopo i Patti Lateranensi, ma già soltanto l’esperienza fatta sostenendo a spada tratta Berlusconi in questi ultimi due decenni dovrebbe essere stata sufficiente: i compromessi accettati da molti prelati pur di non andare contro Berlusconi e i suoi ha tolto molta autorevolezza e credibilità purtroppo al corpo completo della Chiesa e non soltanto a coloro che avevano sostenuto Berlusconi. Sono in gran parte gli stessi che oggi sostengono Monti.

giovedì 27 dicembre 2012

Riformatori e conservatori? No, progressisti e restauratori

Quando questo Paese comincerà a ridare il giusto peso al significato delle parole allora molti dei suoi problemi potranno cominciare a essere risolti. In realtà dovremmo essere già abbondantemente vaccinati contro la manomissione e l’usurpazione delle parole e, invece, nella maggior parte dei casi stiamo lì come allocchi a lasciare che con le parole il potente di turno – o aspirante tale – ci prenda in giro, ci avviluppi fino a strangolare la nostra coscienza rendendola non insensibile, ma incapace di intendere.
Eppure basterebbe ricordare come tutte le dittature – e molti partiti politici – si siano fregiati impunemente dell’aggettivo “democratico” senza mai dare la parola al demos, al popolo, oppure limitandone la scelta a un’unica opzione; come si sia stati ad ascoltare senza reagire a stupidaggini come “guerra umanitaria”. E, per venire a questioni che ci riguardano molto da vicino e che si rifanno alla recente politica italiana, come con leggerezza abbiano tentato di parificare la parola “prescrizione” con “assoluzione”, e di camuffare il concetto di “arbitrio” con quello di “libertà”, di “schiavitù” con “liberismo”, di “socialità” con “comunismo”. Fino ad arrivare alle vere e proprie truffe palesi come l’utilizzo della parola “lodo” che indica una transazione, o un compromesso, per definire, invece, una furbata, un’imposizione della maggioranza alla minoranza che poi fortunatamente è stata cassata dalla Corte Costituzionale e non per motivi linguistici. E si potrebbe continuare a lungo.
Adesso ci riprovano tentando non soltanto di rendere indifferenziati i significati dei termini “riformatore” e “conservatore”, ma addirittura di invertirne il significato asserendo che riformatore è colui che cambia l’esistente, mentre conservatore è quello che si oppone al suo cambiamento. È vero, ma soltanto in minima parte.
Per fare un esempio semplice e chiaro, secondo questi imbroglioni linguistici si potrebbe dire che chi si oppone a una nuova legalizzazione della schiavitù è un conservatore, mentre chi ne chiede la reintroduzione è un riformista. Esempio assurdo? Sì, ma mica tanto, visto che sono i supposti conservatori quelli che oggi si impegnano a difendere i diritti dei lavoratori, delle donne, dei deboli, degli immigrati, dei poveri, degli ultimi. Mentre sono i cosiddetti riformatori a pensare a come tagliare questi diritti per dare maggiori poteri e maggiore ricchezza a chi già ne ha. Per capirci, pur con grande rispetto per la libertà delle sue idee, Ichino a me sembra un conservatore della più bell’acqua.
Il fatto è che invece di parlare di riformatori e conservatori, in questo momento storico dovremmo parlare di progressisti e di restauratori, laddove per progresso si intende davvero il progredire verso condizioni migliori per tutti con una prospettiva che non si fermi soltanto alle necessità contingenti, ma sconfini almeno un po’ nell’utopia.

mercoledì 12 dicembre 2012

Lo sprezzo del ridicolo

È incredibile come in Italia siano in tanti ad agire con sommo sprezzo del ridicolo.
Cito, solo per parlare degli ultimissimi giorni, Beppe Grillo che dice: «Se mi accusate di non essere democratico, vi caccio fuori dal partito». E lo fa, anche se sono tantissimi dei suoi a ribellarsi per questo diktat antidemocratico.
Oppure Berlusconi che afferma che lo spread è un imbroglio di cui non merita parlare. Che sia un imbroglio tra i tanti creati dalla finanza per portare via soldi agli altri, siamo d’accordo. Sul non parlare dello spred e delle cause che lo hanno fatto inalzare di tanto, decisamente no, visto che ogni variazione di spread comporta maggiori o minori esborsi per interessi dell’ordine di milioni di euro.
E ancora: i berlusconiani dicono che Berlusconi è un fervente europeista. Tanto europeista da dire che l’Europa non esiste se non per obbedire agli ordini della Germania e che bisognerebbe uscire dall’euro per stampare nuova carta moneta.
Mi fermo qui, ma si potrebbe andare avanti a lungo.
La cosa strana è che nel resto del mondo queste cose sarebbero sepolte immediatamente da immensi cumuli di risate. In Italia, invece, ci si preoccupa dei risultati che queste incredibili portatori di faccia tosta potrebbero ottenere alle elezioni.

sabato 1 dicembre 2012

La regola delle regole

In un paio di precedenti blog avevo già dichiarato esplicitamente la mia contrarietà all’ipotesi che Matteo Renzi potesse diventare il candidato premier del centrosinistra argomentando la mia scelta soprattutto con l’idea che non si sarebbe più trattato di quel centrosinistra in cui credo e spero io.
Gli ultimi giorni mi hanno rafforzato nelle mie idee che ritengo doveroso esprimere: la voglia di cambiare le regole per il voto alle primarie nasconde, non troppo bene, l'intenzione di tentare di vincere facendo aumentare la quantità di persone, non della parte politica alla quale mi sento vicino, intenzionate a inquinare le scelte dell’elettorato che poi tornerà davvero a votare per il centrosinistra nel momento in cui si sceglierà il nuovo Parlamento.
Ma non è tanto il timore dell’inquinamento esterno a farmi paura: è quello dell’inquinamento ideale interno. Perché se anche da noi dovesse passare il concetto che le regole valgono fin quando fanno comodo e che poi, in corso d’opera e non democraticamente, possono essere cambiate a piacere, allora davvero cadrebbe una delle differenze più marcate con il centrodestra berlusconiano; allora davvero la parola “rigore” non significherebbe onestà di comportamento e rispetto dei patti, ma soltanto tagli economici indiscriminati e soprattutto sempre a carico di chi non ha il potere, appunto, di cambiare le regole che lo affamano.

venerdì 30 novembre 2012

La solita trappola del tesoretto

Non era soltanto prevedibile: era scontato. Come ogni volta, dopo la richiesta di sacrifici drammatici e assolutamente inevitabili, spunta fuori un “tesoretto”. Dato per assodato il fatto che sicuramente i tesoretti non nascono nella notte come i funghi - e proprio nel giorno in cui servono - è evidente che di quei soldi (50 o 60 milioni, mica bruscolini) Tondo e la sua giunta erano perfettamente al corrente, ma che preferivano usarli in seconda battuta un po’ per addolcire la pillola, ma soprattutto per dividere coloro che protestano.
Il gioco è tra i più antichi del mondo: fare leva non soltanto sul fatto che alcuni riceveranno alcune briciole di contributo e altri no, ma soprattutto che in questa fase chi viene indotto a sperare possa diventare più “morbido” e abbandonare la protesta nell’illusione che il farsi vedere più disciplinarti possa aiutare a entrare nel novero dei ripescati, o dei migliorati.
Spero che il vecchio trucco questa volta non abbia successo. Che tutti si rendano conto che soltanto restando uniti si può uscire da questa situazione che vuole distruggere la cultura, elemento sempre pericolosissimo per il potere. E che Tondo e i suoi, invece di parlare di tesoretti, parlino invece di “Bianco e nero” nel quale non molti mesi fa hanno gettato molte centinaia di migliaia di euro - che oggi sarebbero utilissimi per la cultura che viene fatta e non comprata, mentre la crisi era già conclamata e galoppante.

giovedì 29 novembre 2012

Le due ricchezze della cultura

Impressiona quanto la devastazione berlusconiana e quella dei suoi seguaci sia riuscita a falsare le prospettive di una società come quella italiana, sicuramente non senza pecche, ma che altrettanto sicuramente non era desertificata come appare oggi.
Prendiamo il caso della cultura e dei tagli indiscriminati in cui Tondo e la sua giunta sono riusciti a superare addirittura il loro maestro, azzerando totalmente i contributi a molte realtà che da decenni caratterizzano il volto della nostra regione. Per difendere la cultura ora non si muovono soltanto gli addetti ai lavori, ma anche un bel numero di altri cittadini. Quello che colpisce negativamente è il fatto che quasi tutti insistono soltanto sul fatto – vero e assolutamente importante – che i tagli alla cultura getterebbero sul lastrico centinaia di persone, e le loro famiglie, che nel settore cultura e nel suo indotto lavorano.
Quasi nessuno, invece, si batte perché la cultura ha il compito fondamentale di dare dignità alla gente, portandole notizie e ragionamenti, facendola pensare, innescando dibattiti e crescita civile e sociale. È sempre stata la cultura a far progredire le società; mai il mercato, mai la potenza militare, mai la governabilità intesa come stagnante dominio di pochi.
E altrettanto stupisce che praticamente nessuno parli dello scempio fatto da Tondo e dai suoi in questi anni nella distribuzione dei contributi. Perché i soldi c’erano, ma sono stati usati tagliando ogni nutrimento ai politicamente lontani, e aumentando a dismisura i contributi ai politicamente vicini, o addirittura resuscitando mummie senz’anima come “Bianco e nero”, riversandovi centinaia di migliaia di euro e offrendo (a pagamento)in cambio soltanto cose di grande apparenza ed enorme costo, dopo un anno in cui la manifestazione, nata da pochissimo, era stata sospesa addirittura per «mancanza di idee».
Anche Tondo e i suoi, insomma, si erano accorti che con la cultura si possono aprire o chiudere le menti. Sarebbe ora che tutti si impegnassero a mettere bene in luce che la cultura è importantissima perché è anche ricchezza economica, ma è soprattutto ricchezza umana.

sabato 3 novembre 2012

La privacy e la democrazia

Messa in ombra da altri avvenimenti più clamorosi, una notizia di questi giorni ha ottenuto uno spazio molto minore di quello che avrebbe meritato. Mi riferisco al fatto che l’Authority per la Privacy, rispondendo a un ricorso di Renzi, ha chiarito che i dati sia dell’albo degli elettori, sia dell’appello per il centrosinistra non andranno diffusi.
Sia la decisione dell’Authority, sia soprattutto la richiesta di Renzi mi appaiono come altri due chiodi piantati nel coperchio della bara della democrazia italiana. Nessuno, ovviamente contesta il fatto che il voto debba essere segreto, ma che debba restare segreta anche la decisione di andare a votare è davvero qualcosa di stridente con il concetto di libertà che è uno delle basi fondanti su cui ogni democrazia dovrebbe reggersi.
La scelta – e non il dovere – di andare a esprimere il proprio voto alle primarie è – o almeno dovrebbe essere – un’indicazione di voto per una parte politica ed è soltanto questa indicazione che si può pensare di neutralizzare rendendo segreti albo e appello ed è in quest’ottica che vanno fatte almeno un paio di considerazioni.
La prima: è il definitivo funerale per quello che potremmo definire “l’orgoglio delle proprie idee”: ricorso e risposta sembrano non disdegnare l’ipotesi di una grottesca scena in cui la gente si reca a votare mascherata per non far sapere in giro che ha idee di centrosinistra: sì, perché, trattandosi di primarie di coalizione, l’azione del voto non dimostra la scelta di un partito, ma soltanto di una delle parti maggiori in lizza per governare l’Italia, la scelta di una filosofia politica e sociale ritenuta migliore rispetto a un’altra.
La seconda: dato per assodato che ritengo ridicolo qualsiasi timore di ritorsioni, appare evidente che chi chiede la segretezza teme che sia proprio l’elenco dei votanti a suscitare fastidio, se non scandalo. Per parlarci chiaro: l’unico frutto della segretezza sarebbe quello di celare le infiltrazioni di elettori del centrodestra, o di altri nemici del centrosinistra che vengono considerate probabili, più che possibili.
Non mi vergogno delle mie idee e andrò a votare alle primarie di coalizione a faccia scoperta, facendo sapere a più gente possibile che la scelta di centrosinistra mi sembra l’unica valida e possibile, e con il timore che queste possano essere le ultime, perché un’intossicazione esterna del loro risultato potrebbe decretarne la morte. Poi, eventualmente, si andrebbe inevitabilmente verso primarie di partito riservate soltanto agli iscritti.
Avevo già detto che non ho fiducia in Renzi come possibile guida del nostro Paese. Anteporre la privacy interessata alla democrazia me lo fa vedere addirittura un po’ pericoloso.

domenica 28 ottobre 2012

Quelle strane primarie per il ruolo di obbediente

Poco da fare. Bisogna ammettere che Berlusconi ci prova davvero – ogni tanto – a fingersi sinceramente democratico, ma c’è sempre qualcosa che gli rovina la recita. Questa volta è stata di nuovo la magistratura che lo costringe – così lui dice – a rimanere in campo dopo aver solennemente annunciato con voce e faccia grave che si sarebbe ritirato dal palcoscenico primario della politica per restare a dare consigli ai giovani, stando ben attento a non specificare di quali consigli si sarebbe trattato.
Adesso dopo la condanna a 4 anni e l’interdizione ai pubblici uffici per cinque, dice che non può non ridiscendere in campo: non per fare il premier, per carità, perché «le primarie si faranno lo stesso», ma «per riformare la giustizia italiana e per completare l’opera di modernizzazione del Paese».
Nessuna sorpresa, ovviamente: anche i suoi giornali avevano dubitato esplicitamente delle sue intenzioni di ritiro, ma mi sembra giusto attirare l’attenzione, questa volta, non tanto sul capo, bensì sulla triste sorte dei suoi seguaci, soprattutto di quelli che hanno maggiori ambizioni perché le primarie del Pdl, Forza Italia o di come si chiamerà, saranno fatte soltanto apparentemente per designare il candidato premier per la prossima legislatura: in realtà sceglieranno soltanto chi dovrà rassegnarsi a fare il burattino pronto a eseguire gli ordini del capo.
Ma forse qualcosa sta davvero cambiando perché i luogotenenti di Berlusconi continuano a dire di sì, ma cominciano anche a fare qualche distinguo.

martedì 23 ottobre 2012

Forse al 40 per cento, ma non sarebbe più il Pd

Matteo Renzi parla di un Pd che con lui arriverebbe al 40%. Una frase confezionata appositamente per galvanizzare le proprie truppe e per attrarre ulteriori favori alla propria candidatura alle primarie di centrosinistra con la certezza incontrovertibile che, come in fisica, anche in politica i corpi che hanno maggiore massa esercitano anche più forza di attrazione.
Ma è anche una frase che fa capire come ormai, anche in politica, i parametri di comunicazione e di ragionamento siano profondamente cambiati. Il sindaco di Firenze, infatti, al di là della sgradevolezza del termine “rottamazione”, nello stesso tempo accusa la sinistra di avere idee “vecchie” e sottolinea anche che il suo obbiettivo è di andare oltre le ideologie : «Ci sono 14 milioni di voti di persone indipendenti che scelgono la persona e non la qualificazione di sinistra o di destra».
Con la doverosa specificazione che io non appartengo a questi 14 milioni di persone, vorrei sottolineare alcune cose.
La prima è che, visti anche i risultati di questo ventennio, bisognerebbe combattere proprio contro l’identificazione di un partito con una persona: Berlusconi dovrebbe averci insegnato qualcosa come già prima avrebbero dovuto insegnarci molto tutte le dittature – vicine e lontane – che hanno insanguinato e schiavizzato il nostro mondo. Insomma, se le ideologie vengono fatte coincidere con un nome, il risultato inevitabile è che finiscono per assommarsi i difetti – e non i pregi – della persona e dell’ideologia.
La seconda: siamo tutti d’accordo che vincere è importante, ma per Renzi sembra che questa sia l’unica cosa importante, a prescindere da come ci si arriva. Vincere per arrivare nella stanza dei bottoni e dopo non usare quei bottoni per tentare di migliorare il mondo nel senso in cui sinceramente e convintamente lo si vorrebbe veder andare a me non interessa proprio. Il modo di fare del Pdl nella regione Lazio e nella regione Lombardia, con il balletto sulla data delle elezioni a seconda delle convenienze, va proprio in questo senso. E per il centrosinistra un discorso di “vittoria a ogni costo e a prescindere” non dovrebbe neppure essere accostabile perché il centrosinistra – se è davvero tale – deve occuparsi soprattutto di altre cose, come, per esempio, degli uomini, del loro lavoro, della loro uguaglianza, della loro libertà.
Ultima cosa: un’entità che non ha più traccia della “vecchia” ideologia di sinistra potrebbe essere qualsiasi cosa, ma non certamente più il Pd. Se fossi un iscritto del Pd mi ribellerei; come convinto sostenitore delle “vecchie” ideologie del centrosinistra non riesco a trovare molti punti di vicinanza con Renzi.

domenica 19 agosto 2012

Il diritto di avere diritti

Se ci avete fatto caso, l’economia e la finanza, oltre ad aver mandato in crisi buona parte della gente che vive in questo nostro Paese, ha anche invaso l’informazione. Giornali in carta, telegiornali, giornali radio dedicano spazi sempre crescenti ai frutti degli stregoni del capitalismo e necessariamente lo tolgono alle altre cose che, però, non sono assolutamente meno importanti.
Che il benessere economico sia fondamentale nessuno lo mette in dubbio, ma mi riesce difficile digerire il fatto che siano state dedicate poche righe ai 34 lavoratori neri di una miniera di platino sudafricana che sono stati uccisi con le mitragliatrici dalla polizia perché chiedevano troppo rumorosamente e animatamente uno stipendio meno da fame; che alla vergognosa condanna al carcere duro delle ragazze oppositrici di Putin sia stato un po’ di spazio in più, ma neppure troppo; che la quotidiana strage dei siriani sia rientrata tra le notizie di routine; che il governo Monti riproponga quell’assassinio della libertà di stampa e, quindi, della democrazia che va sotto il nome di riforma sulla legge delle intercettazioni; che si continui a porre in contrasto, nella vicenda dell’Ilva di Taranto, il diritto al lavoro con il diritto alla vita senza cercare di approfondire autonomamente un argomento tanto delicato.
Non vi viene il dubbio che questo essere acquiescenti ai capricci di coloro che si fanno chiamare “il mercato” possa servire anche a mettere la sordina a quelle che dovrebbero essere per noi preoccupazioni primarie e cioè la libertà e la democrazia? In poche parole, il diritto di avere diritti?

venerdì 13 luglio 2012

Chiarezza dalla concertazione

Davvero in questi giorni il panorama politico italiano è cambiato in maniera decisissima. E non mi riferisco certamente alla ridiscesa in campo di Berlusconi e dei suoi dipendenti – Tremonti in testa – perché la notizia poco vuol dire, oltre che confermare la squallida pochezza di una destra italiana che, senza gli interessi privati di Berlusconi da difendere, addirittura quasi non esiste visto che, a dare ascolto ai sondaggi berlusconiani, passerebbe dal 10 al 30 per cento a seconda che si presenti senza o con l’omino di Arcore.
Mi riferisco invece, alle parole pronunciate da Monti davanti ai banchieri – proprio a quelli che rappresentano una categoria alla quale si deve per la stragrande parte la crisi che stiamo vivendo – parole in cui ha attribuito i danni maggiori della nostra Italia, non alla corruzione, non alla voracità dei politici, non alla miopia degli imprenditori, non alla sottovalutazione che senza stipendi non esiste il mercato, bensì alla concertazione, cioè alla pratica di concordare le riforme con le parti sociali e non con autoritarie decisioni dall’alto, magari dopo consultazioni effettuate soltanto con la parte più vicina, quella che già detiene la stragrande parte del potere.
Si potrebbe dire a Monti di guardare alla vicina Francia dove il governo Hollande dice alla Peugeot che è inaccettabile una decisione di licenziare 8 mila lavoratori e che ogni decisione deve passare attraverso una concertazione. Si potrebbe ricordare a Monti che la concertazione è l’essenza stessa della democrazia che altrimenti si scinde in contrapposizione tra smanie di autoritarismo e voglie di rivoluzione.
Ma probabilmente Monti a queste cose non bada. E allora merita molto di più ricordare a Bersani che uno schieramento riformista – di sinistra o di centrosinistra che sia – non può accettare una posizione simile. D’accordo, adesso è inattuabile un’interruzione del governo Monti, ma alle prossime elezioni gli schieramenti devono essere chiari e non equivoci e la parte riformista deve mettere in campo la propria serietà che proprio sulla concertazione tra le parti opposte si è basata e dovrà basarsi.

giovedì 28 giugno 2012

I limiti della rassegnazione

Dalla disperazione si può uscire in due maniere soltanto: rassegnandosi e accettando di subire una specie di lobotomia capace di non farci sobbalzare davanti a ogni spregio alla nostra dignità, oppure arrabbiandosi e agendo di conseguenza per cambiare la situazione. Nel primo caso si rinuncia alle proprie caratteristiche di esseri umani e si è certi di essere sconfitti; nel secondo, invece, si riafferma il valore della propria umanità e si va incontro alla concreta probabilità di essere sconfitti, ma anche alla residua possibilità di riuscire a fare qualcosa di buono.
Per illustrare completamente la situazione disastrosa occorrerebbero pagine su pagine. Voglio soffermarmi soltanto su tre cose.
Con il pacchetto lavoro l’articolo 18 è stato sfregiato e lo sfregio è avvenuto con il voto favorevole anche di coloro che dovrebbero avere nel dna la difesa dei lavoratori e non quella dei cosiddetti “mercati”. Non mi sogno di pensare a iniziative rivoluzionarie nel senso proprio del termine, ma davvero è possibile per il centrosinistra massacrare, pur con qualche disagio, quelle che dovrebbero essere le sue radici?
Il ministro Fornero si permette di dire che il lavoro – semplifico, ma è proprio così, nonostante le immancabili e imbarazzatissime rettifiche – non è più un diritto. E tutti stanno lì a chiamarla ancora ministro e a non apostrofarla in maniere poco acconce perché ha giurato su un testo che neppure conosce, oppure che disconosce.
I rappresentanti del Pd regionale vota assieme all’Udc e decreta la fine di Film Commissione dei fondi destinati al film su Eluana per «dimostrare che il centrodestra è spaccato». Scusi, Moretton, ma chi se ne frega? È importante dimostrare che è spaccato, oppure che è sbagliato. Avete ancora, in quell’aula che ha ospitato anche giornate gloriose, l’idea che la politica significa ricercare il bene pubblico, oppure pensate che sia soltanto un giochetto per tentare di vincere le elezioni, quasi non sapeste che la gente vi guarda sempre più annichilita dalla vostra distanza?
Ma è possibile che le uniche apparenze di dissenso e di protesta in questo Paese siano rappresentate dal rancoroso razzismo della Lega, dal vanitoso classismo del Pdl e dal miopissimo populismo di un Grillo che elogia l’Iran e la Siria?
Ma davvero – mi rivolgo al Pd perché è la maggiore forza del centrosinistra – pensate di poter fare scemenze – il turpiloquio è caldamente sconsigliato – per l’eternità? Alla lunga la rassegnazione perde qualunque tipo di fascino.

domenica 17 giugno 2012

Poteri forti e antipolitica

Mario Monti non ha mai amato parlare, al di là delle occasioni obbligate ancor prima che ufficiali. E anche in quelle occasioni ha accettato di parlare, ma ha preferito non dire. Se nel messaggio all’Acri, che associa le Fondazioni di origine bancaria, ha strappato da questa sua abitudine di evitare di entrare nella sostanza dei problemi, allora vuol dire che qualcosa davvero sta accadendo e che con tutta probabilità non si tratta di nulla di piacevole.
Tra le tante cose ha detto: «L'Italia ha attraversato momenti difficili che purtroppo non sono dietro le spalle», e questo era francamente scontato. Poi ha affermato: «Non posso negare che avremmo potuto fare di più e meglio», e anche questa frase non desta eccessiva sorpresa visto che arriva da uno che non fa il politico di professione e che, quindi, non è preoccupatissimo di farsi rieleggere.
Ma sono due le espressioni sulle quali merita soffermarsi: «Il mio governo e io - ha detto Monti - abbiamo sicuramente perso negli ultimi tempi l'appoggio che gli osservatori ci attribuivano da parte dei cosiddetti poteri forti» e «La riforma della semplificazione e del lavoro sono state sottovalutate dal mondo dell'impresa. Penso alla riforme della pensioni».
Bene, quella dei poteri forti è davvero sorprendente: è una vita che sentiamo chi sta ai vertici dello Stato affermare che i poteri forti non esistono; e, allora, due domande. La prima: vogliamo per favore identificarli con nome e cognome, o almeno con la ragione sociale? La seconda: i poteri forti andavano bene a Monti fino a quando sostenevano il suo governo e diventano pericolosi soltanto adesso?
Noi siamo sempre stati convinti che in una repubblica che all’articolo 1 della sua Carta fondamentale recita «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», l’unico potere forte ammissibile sia quello che deriva dalle scelte del popolo. Non è che oltre che la politica, anche la tecnocrazia si faccia bellamente beffe di quella «cosa sporca – come diceva Giorgio Gaber in “Qualcuno era comunista” – che ci ostiniamo a chiamare democrazia»?
Altra cosa: ma non abbiamo sempre sentito affermare, dalla Fornero e dai suoi colleghi, che le riforme sociali e del lavoro sono «estremamente equilibrate». E, allora, anche qui due domande. La prima: ma allora era vero che l’occhio di riguardo è stato riservato agli imprenditori che ora lo stanno «sottovalutando»? La seconda: le lamentele dei lavoratori ex dipendenti e ora cassintegrati, esodati o disoccupati non meritano neppure di essere prese in considerazione? Non hanno alcun peso?
Non è la prima volta che si dice che il governo Monti, efficiente sul piano dei desiderata europei e anche nel cercare salvezza dell’Italia ben prima che quella degli italiani (la prima non porta necessariamente alla seconda), non sembra il massimo dal punto di vista dei valori democratici, ma ora sembra davvero sempre più pericolante l’edificio statale italiano che regge dal 1946, anche e soprattutto perché è la politica che davvero dimostra di essere incapace di capire alcunché. L’edificio va in fiamme e loro continuano a spartirsi l’Agicom come se nulla fosse mai successo, o a trovare modi per nascondere la valanga di scandali che entra quotidianamente nelle stanze della politica, o a combinare per salvare De Gregorio dagli arresti.
Ho già detto che sono lontano dalle posizioni populistiche di Grillo, ma francamente, se cerchiamo esempi di antipolitica, è più facile trovarli nei partiti cosiddetti tradizionali che in Cinque stelle.

lunedì 14 maggio 2012

Semplicità e semplificazione

Tanto mi divertiva il Beppe Grillo comico e tanto ammiravo il Beppe Grillo indagatore e accusatore, quanto poco mi convince il Beppe Grillo politico. E certamente non perché, come dicono alcuni, ha invaso uno spazio che non appariva suo; anzi, questo mi appare come un suo merito in quanto l'unica salvezza per la politica può arrivare proprio dall'ingresso della società nei partiti dopo che per decenni è stata la politica a colonizzare e a occupare la società.
Quello che, invece, mi appare come un terribile limite di Grillo è il fatto che si è portato in politica quella inevitabile spinta alla sintesi che in un comico è un assoluto punto di forza, ma che in politica si rivela, invece, un momento di grande debolezza perché, in una società complessa come la nostra, l'eccesso di semplificazione non porta alla semplicità, ma a un caos ancora maggiore poiché non prende minimamente in considerazione il fatto che la società è un po' come un serpente: se la tocchi in un qualunque punto, poi a muoversi di conseguenza è tutto il corpo. Ma anche perché il graffio della sintesi è efficacissima nel demolire, ma del tutto inadeguata a costruire.
Detto ciò, ancora meno simpatico mi è l'atteggiamento di chi pensa a Grillo e ai grillini come a un semplice fastidio passeggero da esorcizzare demonizzandolo e dimentica che alla base dei loro successi elettorali ci sono motivi assolutamente seri tra cui proprio l'intolleranza accumulata nei confronti di quegli stessi partiti alcuni dei quali non ce la fanno nemmeno più ad atteggiarsi a virtuosi ma che – tutti – tra egoismi e semplificazioni miopi e velleitarie, hanno decretato la loro stessa crisi e, purtroppo, anche quella della democrazia.
Insomma, Grillo – almeno secondo la mia opinione – sta sbagliando la cura, ma la diagnosi è esatta. I partiti, che potrebbero e dovrebbero essere in possesso della cura, preferiscono, invece, far finta di non riconoscere la malattia.

giovedì 26 aprile 2012

Il senso di quei fischi

Molto probabilmente dalle cronache delle manifestazioni udinesi per il 25 aprile resteranno in evidenza soprattutto i fischi che hanno accompagnato il sindaco di Cividale, Balloch, nelle sue prime parole in piazza Libertà.
Per alcuni si è trattato di fischi giusti in quanto Balloch è quel sindaco che con altri due ha dato il via al tentativo di spaccare anche visivamente il ricordo della Resistenza; perché è esponente di un partito – il Pdl – che ha fatto e fa di tutto per stravolgere la Costituzione che della Resistenza è figlia legittima; perché il suo Comune è quello che ha voluto dare lustro ai gladiatori tutti, dimenticando che se certi erano persone del tutto degne (anche se secondo me sbagliavano), altri non lo erano affatto visto che hanno dato a terroristi ancora per buona parte ignoti l’esplosivo che ha ucciso tre carabinieri a Peteano; perché… potrei andare avanti ancora, ma mi sembra sufficiente.
Per altri si è trattato di fischi sbagliati perché in democrazia, come ha detto immediatamente dopo e in maniera cristallina Luciano Rapotez, tutti hanno diritto di esprimere la loro opinione, pur se personalmente ritengo che Balloch si sia limitato a snocciolare nomi, numeri e ovvietà che prescindevano da ogni opinione possibile; perché… anche qui mi sembra che l’argomento sia già sufficiente.
Io credo che di quei fischi si dovrebbe parlare in maniera diversa perché in realtà la loro sostanza era rivolta proprio a noi che la Resistenza la onoriamo ogni anno e che la rispettiamo per tutto l’anno; o, meglio, che crediamo di rispettarla perché in realtà così non è. Se davvero l’avessimo rispettata ogni giorno, mai si sarebbero potute creare le condizioni perché una persona che appartiene a un partito che non crede nei valori della Resistenza e, anzi, spesso li dileggia potesse parlare il 25 aprile in piazza Libertà. Se davvero avessimo anche noi resistito, senza armi in mano ma con la Costituzione e l’indignazione sempre dentro di noi, non saremmo mai arrivati a questo punto dopo aver visto sfarinarsi e crollare molti dei valori sui quali questa Italia è nata e sui quali avrebbe dovuto reggersi.
È inutile che imprechiamo contro i tanti Balloch e il fortunatamente raro Berlusconi: dovremmo invece imprecare contro noi stessi per la pigrizia o lo stolido ottimismo indotto dalla pigrizia stessa che ha permesso a Berlusconi, ai suoi e agli ex suoi (non pensiamo, per favore, che siano diventati né santi, né paladini della libertà) di arrivare dove sono arrivati.
Avremmo dovuto sempre avere in testa che, come ha detto Honsell, non si può esistere senza resistere. Ce ne siamo dimenticati e buona parte di quei fischi toccano ineluttabilmente a noi. Anche per ricordarci di non ricadere mai più negli stessi errori.

mercoledì 18 aprile 2012

Il significato della parola lobby

Uno dei maggiori problemi italiani consiste nella distrazione con cui si ascoltano le dichiarazioni dei cosiddetti uomini politici: quando Alfano, Bersani e Casini dicono che sarebbe una sciagura cancellare il finanziamento pubblico ai partiti (che loro, per legge, chiamano "rimborso elettorale") perché darebbe spazio alle lobby, soltanto un popolo molto distratto può non rispondere loro almeno con un'assordante serie di pernacchie.
Intanto perché, visto che le spese elettorali sono state circa un quarto dei soldi che poi hanno ricevuto, sarebbe abbastanza logico - e quindi politico - parlare dei "rimborsi elettorali" almeno come si parla degli altri rimborsi spese di questo mondo: esigibili soltanto con pezze giustificative.
Ma è soprattutto quella parola "lobby" che dovrebbe far scattare l'immediata e assordante reazione di un Paese normale perché è proprio grazie alla parola "lobby" che si capisce il vero senso della loro sciagurata crociata. Per lobby, infatti, si intende un gruppo di persone che, sebbene estranee al potere politico, hanno la capacità di influenzarne le scelte, soprattutto in materia economica e finanziaria. Insomma: è naturale che non vogliano dare spazio alle influenze esterne se possono tenere tutto il potere per sé.
Il dramma è che in questa situazione aumentano i consensi coloro che parlano di antipolitica, mentre è proprio di politica, di quella vera, che si avrebbe un disperato bisogno. Di quella politica che può tentare di risolvere i problemi della gente, sia perché questi problemi li conosce, sia perché le interessano.

venerdì 13 aprile 2012

Obbedienza e democrazia

C'è poco da fare: la politica continua a essere una vera maestra nel campo dell'etica sociale. A dire il vero una volta tentava di indicare quali erano i comportamenti socialmente utili, mentre ora è efficacissima nell'insegnare quali sono quelli più deprecabili. Alcuni, però, direbbero che si tratta di un dettaglio.
Prendiamo il caso di Rosy Mauro che in un Paese normale sarebbe già stata espulsa quando dallo scranno presidenziale del Senato (lei è ne ancora vicepresidente e, pur cacciata addirittura dalla Lega, non intende proprio andarsene) ha inscenato un'indegna gazzarra, non soltanto procedurale, pur di cancellare a ritmi da Ridolini decine e decine di emendamenti che andavano contro il volere di Bossi.
Bene: oggi sbaglierebbe chi pensasse che è stata punita perché accusata di essersi resa colpevole di aver usato a fini personali del denaro - tanto denaro - che al partito era arrivato dal cosiddetto finanziamento pubblico: è stata mandata via perché si è macchiata dell'incancellabile colpa di non aver obbedito a Bossi, al capo, quando le aveva chiesto di dimettersi dalla vicepresidenza. Il Trota ha ubbidito ed è ancora lì, pronto a riprendersi posti e prebende che dinasticamente gli spettano.
Non si tratta, insomma, di una decisione etica, ma di una mancanza di obbedienza al volere del capo. Nell'Italia di oggi ci può stare di tutto, ma spero che almeno nessuno osi più dire che la Lega stia insegnando agli altri cosa sono due parole come "onestà" e "democrazia": la prima è offuscata dal numero di possibili coinvolti leghisti di altissimo grado che sta uscendo dalle inchieste delle varie procure, la seconda è cancellata dal fatto che se non si ripete esattamente quello che dice il capo si è fuori dal partito. Mentre la democrazia è proprio l'incarnazione del libero pensiero e l'obbedienza, come diceva impeccabilmente don Lorenzo Milani in tempi non sospetti, «non è più una virtù». E come impeccabilmente è stato ripreso da Vito Mancuso nel suo bellissimo "Obbedienza e libertà".
In un Paese normale queste constatazioni potrebbero già significare la fine di un partito, ma in Italia quello che da altre parti potrebbe essere paragonato a una specie di "cupio dissolvi", si rivela sempre per tutti un'inezia di poco conto. Come in altra maniera si potrebbe infatti giustificare il fatto che anche il PD è unito ai centristi e al PDL nel non accettare tagli al cosiddetto "finanziamento pubblico"?
La realtà è che anche loro dei risultati elettorali vedono soltanto le percentuali e non le cifre assolute e più vere; hanno perduto milioni di voti e altri ancora ne perderanno perché l'astensionismo si avvicina ormai al 50 per 100 per lo schifo che viene purtroppo destato dalla parola "politica" che, invece, dovrebbe essere una delle più belle del nostro vocabolario. Al pari di "democrazia" e al contrario di "obbedienza".

venerdì 6 aprile 2012

Se questa è la governabilità...

In tutta sincerità, il fatto che Bossi si sia dimesso e che se ne vada dalla vita politica italiana (ammesso che se ne vada davvero) mi riempie contemporaneamente di gioia perché è come se si fosse aperta una finestra e un po' di aria fresca fosse entrata a spazzare via alcuni dei tanti miasmi che ci soffocano, ma anche mi rattrista in quanto sono stati motivi legati al denaro, anzi al cattivo uso del denaro altrui, a costringerlo al grande passo; non quei miasmi tra cui il razzismo, l'intolleranza culturale, etnica, linguistica, religiosa, la violenza verbale, l'assenza di rispetto per le istituzioni, la minacciosità verso chi non credeva alle sue invenzioni pseudopolitiche - Padania in testa - e alle sue panzane in tutti i campi.
E ancora più triste mi rende il fatto che sembra che soltanto il denaro sia usato per mettere in crisi i leader dei partiti e che soltanto il denaro sia in grado di riuscirci. Anche per Berlusconi vale lo stesso discorso perché soltanto il crack economico nazionale è riuscito a fare quello che infinite considerazioni etiche e politiche, non soltanto personali, avrebbero dovuto riuscire a provocare ben prima.
Anche questo è un perverso frutto di quel sistema elettorale che molti si ostinano a presentare come un puro aspetto tecnico della politica e che, invece, è davvero sostanziale. Perché è il maggioritario che impone i leader e che, quindi, rende inevitabile che fortune e disgrazie di ogni partito dipendano più dalle qualità e dai difetti dei leader che non dalle idee che portano avanti.
Ogni fragorosa caduta dei leader di partito, ogni loro traballare mi fa tornare la voglia di proporzionale; corretto, sì, ma proporzionale. Perché se è questa la "governabilità" che il maggioritario assicura, allora guardo con sempre maggiore nostalgia a un'Italia in cui i governi magari cadevano un po' troppo spesso, ma nella quale comunque si continuava a cescere economicamente e socialmente e in cui ogni categoria di questo Paese riusciva a farsi ascoltare e, in piccola o grande parte, a influire sulle decisioni finali, senza mai sentirsi rispondere che il popolo non era preparato alle necessità tecniche della situazione.

Se questa è la governabilità...

In tutta sincerità, il fatto che Bossi si sia dimesso e che se ne vada dalla vita politica italiana (ammesso che se ne vada davvero) mi riempie contemporaneamente di gioia perché è come se si fosse aperta una finestra e un po' di aria fresca fosse entrata a spazzare via alcuni dei tanti miasmi che ci soffocano, ma anche mi rattrista in quanto sono stati motivi legati al denaro, anzi al cattivo uso del denaro altrui, a costringerlo al grande passo; non quei miasmi tra cui il razzismo, l'intolleranza culturale, etnica, linguistica, religiosa, la violenza verbale, l'assenza di rispetto per le istituzioni, la minacciosità verso chi non credeva alle sue invenzioni pseudopolitiche - Padania in testa - e alle sue panzane in tutti i campi.
E ancora più triste mi rende il fatto che sembra che soltanto il denaro sia usato per mettere in crisi i leader dei partiti e che soltanto il denaro sia in grado di riuscirci. Anche per Berlusconi vale lo stesso discorso perché soltanto il crack economico nazionale è riuscito a fare quello che infinite considerazioni etiche e politiche, non soltanto personali, avrebbero dovuto riuscire a provocare ben prima.
Anche questo è un perverso frutto di quel sistema elettorale che molti si ostinano a presentare come un puro aspetto tecnico della politica e che, invece, è davvero sostanziale. Perché è il maggioritario che impone i leader e che, quindi, rende inevitabile che fortune e disgrazie di ogni partito dipendano più dalle qualità e dai difetti dei leader che non dalle idee che portano avanti.
Ogni fragorosa caduta dei leader di partito, ogni loro traballare mi fa tornare la voglia di proporzionale; corretto, sì, ma proporzionale. Perché se è questa la "governabilità" che il maggioritario assicura, allora guardo con sempre maggiore nostalgia a un'Italia in cui i governi magari cadevano un po' troppo spesso, ma nella quale comunque si continuava a cescere economicamente e socialmente e in cui ogni categoria di questo Paese riusciva a farsi ascoltare e, in piccola o grande parte, a influire sulle decisioni finali, senza mai sentirsi rispondere che il popolo non era preparato alle necessità tecniche della situazione.

sabato 31 marzo 2012

Democrazia di terzo grado

Probabilmente era scontato che dovesse finire così: con una cesura tra il governo Monti e una parte sempre crescente degli italiani. Non credo si tratti soltanto di un’intolleranza di tipo economico causata dal fatto che, al contrario dei posti di lavoro, le tasse sono aumentate, o perché sono sempre di più coloro che quelle stesse tasse sono costretti a pagarle. E non è neppure il rifiuto del ritorno a una sobrietà che da troppo tempo mancava dai palazzi di maggior potere. Ritengo, invece, che le motivazioni dello sfilacciamento di un idillio che sembrava solidissimo risiedano in una causa ben più nobile, anche se quasi inconscia: l’ancora profondo desiderio di tornare a una vera democrazia.
Non sto ovviamente dicendo che viviamo in un regime, ma è certo che ci troviamo in una specie di limbo laico, della cui esistenza ci si è cominciati a rendere conto quando anche le comunicazioni tra i vertici e le basi, e viceversa, sono diventate quasi indistinguibili, quasi fossero pronunciate in lingue diverse.
Non si tratta della tradizionale antipatia con cui vengono guardati i “professori”, che nella mente di chi non è più giovanissimo sono ancora gli unici giudici le cui decisioni sono insindacabili. È, invece, l’amore per la democrazia che, anche in un Paese smagato come l’Italia, torna a galla. Già il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario aveva ulteriormente allontanato, e quindi reso meno sopportabile, la democrazia rappresentativa; poi il “Porcellum” aveva tolto ancor più significato all’aggettivo “rappresentativa”; infine il fatto che anche i cosiddetti rappresentanti del popolo fossero a loro volta rappresentati da altri ha reso praticamente impossibile la comunicazione, e quindi la comprensione, tra il popolo e chi lo governa e viceversa. Fino a perdere il senso di alcune prospettive consolidate, come il fatto che siano gli elettori a dover dare il voto agli eletti e non viceversa.
Si è passati, insomma, da una democrazia rappresentativa, e quindi di secondo grado, a una democrazia delegata. E quando la democrazia diventa di terzo grado inevitabilmente lascia in bocca l’amaro sospetto che in realtà si tratti di una democrazia sospesa in cui le cosiddette “richieste dei mercati” abbiano molta più voce in capitolo delle reali necessità dei cittadini.
Questa parentesi “tecnica”, però, almeno un merito ce l’ha, al di là del settore economico: quello di aver fatto riscoprire ai più che i valori sociali esistono ancora: possono essere di destra o di sinistra, cattolici o laici, ma ci sono ancora e spetta a tutti, ma soprattutto alla gente, il dovere di difenderli con vigore ricollocandoli nella posizione che loro spetta in questo nostro Paese.

mercoledì 21 marzo 2012

Diritto di veto

Monti dice alla Cgil: «Mi spiace, ma nessuno ha più il diritto di veto». È una bella frase, a effetto, ma se viene accompagnata anche dall’altra specificazione del presidente del Consiglio- «Sull’articolo 18 la trattativa è chiusa, basta esami» - dà un’idea abbastanza precisa di come molte siano le discontinuità tra l’era berlusconiana e quella montiana, ma non sull’uso strumentale delle parole, né soprattutto sul concetto che la democrazia – e quindi la discussione – venga considerata un po’ fastidiosa. È pur vero, infatti, che a un certo punto è la maggioranza – e quindi il parlamento - a decidere, ma è altrettanto incontestabile che dopo la decisione si può e si deve continuare a discutere. E che si può esprimere il proprio motivato dissenso anche a decisione in corso.
Parlare in questi termini di negazione del “diritto di veto” può apparire a prima vista una cosa saggia, ma in realtà non tiene conto del fatto che Susanna Camusso rappresenta il maggiore sindacato italiano e, quindi, milioni di lavoratori che hanno pieno diritto di tentare di difendersi. Perché è sulla pelle dei lavoratori che l’articolo 18 viene macellato. Proibire loro di dissentire sarebbe come sostenere che un uomo non ha diritto di opporsi a chi gli sottrae qualcosa perché nessuno ha il diritto di “veto”.
Il dietrofront di Bonanni e Angeletti non stupisce più di tanto perché testimonia la loro coerenza nell’essere politicamente sempre filogovernativi, a prescindere da chi sia al governo, ma voler anche imporre il silenzio a chi combatte per salvaguardare diritti conquistati con anni di lotte sindacali sembra davvero eccessivo.
E comunque, poi, resta la curiosità di capire perché questa frase non sia stata usata anche rivolgendosi alla Marcegaglia quando sosteneva che la Confindustria non avrebbe firmato un accordo che non le piaceva. Intendiamoci, la frase sarebbe stata comunque sbagliata, ma almeno sarebbe stata rivolta anche a coloro che non sono i più deboli e che, tra l’altro, qualche parte nella genesi di questa crisi ce l’hanno pure visto che in non piccola parte pretendevano che il mercato continuasse a girare mentre loro, licenziando, prepensionando e delocalizzando, gli toglievano buona parte di quel carburante necessario rappresentato dal denaro di stipendi che non ci sono più.

sabato 17 marzo 2012

Meglio poveri che schiavi

Monti, rivolegndosi ai sindacati dice: «Credo che in questi giorni avrò bisogno di chiamare ancora le forze sociali a uno spirito di coesione. Se veramente teniamo al futuro e crediamo gli uni negli altri, allora bisogna cedere qualcosa rispetto al legittimo interesse di parte».
Presidente, ma, visto che i sindacati sono, in realtà, i lavoratori, non le sembra che questa categoria abbia già ceduto abbastanza in posti di lavoro, stipendi, dignità e diritti in cambio di precarietà, disoccupazione, povertà e avvilimento? Non mi sembra che questa esortazione a "cedere qualcosa" sia stata fatta concretamente anche agli imprenditori e alle banche che, tutto sommato, qualche piccola parte in questo disastro ce l'hanno pure e che hanno riversato senza battere ciglio il loro "rischio d'intrapresa" sulle spalle di coloro che non possono partecipare né alle decisioni, né agli utili, ma soltanto, e in larga parte, alle perdite.
Curioso, poi, mi pare quel suo richiamo: «Se veramente crediamo gli uni negli altri...». Ma come si può credere agli "altri"? Il quasi ventennio berlusconiano è stato cancellato dalla memoria generale? E se questo fosse vero, come mai si parla di nuovo a palazzo Chigi di limitare l'azione dei giudici e le intercettazioni e di depenalizzare un reato come la concussione che - casualmente, è chiaro - riguarda il silente ma operoso ex presidente del Consiglio e i processi in cui è coinvolto e che sono ancora troppo lontani dalla prescrizione?
Presidente, non le viene il dubbio che, al di là della gratitudine per avere ridato all'Italia un volto presentabile all'estero (ma dopo Berlusconi ci sarebbe riuscito praticamente chiunque), e avere dato un po' di fiato a un'economia ancora asfittica, più d'uno potrebbe cominciare a pensare che è meglio essere poveri piuttosto che schiavi? Perché da poveri si può essere almeno liberi, mentre da schiavi si resta poveri comunque.

lunedì 12 marzo 2012

Bisogna ringraziare Alfano

Bisogna ringraziare Angelino Alfano, o, più probabilmente, Silvio Berlusconi che continua a tirarne le redini. Angosciati come eravamo per i problemi economici personali, collettivi e sovrannazionali e preoccupati perché Mario Monti non sembra curarsi molto degli intralci della democrazia pur di centrare i suoi obbiettivi "tecnici", ci eravamo quasi dimenticati dell'esistenza della politica, quella vera, che ogni tanto ha continuato a fare capolino quasi esclusivamente a causa delle estemporanee iniziative di quei rompiscatole de sindacalisti di sinistra che continuano a insistere a porre al centro dell'attenzione il problema del lavoro e, quindi, del benessere materiale e psicologico dei cittadini che in questa Italia vivono.
Bisogna ringraziare Alfano perché ci ha ricordato che la politica esiste ancora; magari nella sua forma deteriore, ma esiste ancora.
Dopo mesi di quasi assoluta sonnolenza si è svegliato per dire, in rapida sequenza, che non si deve parlare di giustizia e di Rai (argomenti sensibilissimi per il capo), che il PD non può permettersi di tracciare un'agenda politica (incombenza che evidentemente deve restare di stretta pertinenza berlusconiana), che se le elezioni fossero vinte dal centrosinistra in Italia ci sarebbero le nozze gay e le coppie di fatto.
Dal canto suo non pochi del PD hanno tentato di inserirsi sulla stessa linea di allontanamento della politica dal bene comune continuando a massacrarsi tra fratelli pur di conquistare piccoli privilegi personali o di corrente. Ma sinceramente bisogna ammettere che non è riuscito a reggere il paragone con il segretario del Pdl.
Ringraziare Alfano per tutto questo può sembrare irragionevole, se non addirittura stupido, ma va sottolineato con forza che una politica, per quanto cattiva, è sempre meglio di quell'assenza di politica che rivela inequivocabilmente anche l'assenza della democrazia. Il fatto è che qualcuno dovrebbe riuscire davvero a fare politica vera - e quindi virtuosa - perché tutti si ricordino del vero valore del regalo di libertà e democrazia che ci è arrivato dalla Resistenza.

giovedì 16 febbraio 2012

Un senso di soffocamento

La sentenza di proscioglimento per prescrizione nei confronti di Berlusconi sul caso Mills mi lascia un senso di soffocamento. I più penseranno che questo mi accada in quanto penso che l'ex presidente del Consiglio sia colpevole dei reati per i quali era imputato. Ma non è così.
O meglio, la mia sensazione è che l'imputato sia colpevole, ma quello che mi sconvolge è la prescrizione.
Una condanna, o un'assoluzione, avrebbero dato la stura a tutta una serie di commenti acidi e diametralmente opposti, ma la prescrizione mi appare come il chiodo definitivo sulla cassa funebre della Giustizia perché, se l'errore dei giudici - in un senso o nell'altro - non può essere evitato, la prescrizione dimostra definitivamente che la giustizia dei ricchi non è la giustizia dei poveri e che quindi Giustizia non c'è. Soltanto un ricco poteva, infatti, permettersi stuoli di avvocati impegnati non a dimostrare l'innocenza del proprio cliente, bensì a scovare tutti i cavilli possibili per tirare in lungo la causa e arrivare, appunto, alla prescrizione.
Il fatto che molte delle leggi che hanno permesso questo scempio siano state ideate e approvate proprio per aiutarlo in questo e in altri processi, rende ancora più penosa la situazione perché mette bene in luce come Giustizia e Democrazia siano strettamente legate: se una manca anche l'altra cede. E sicuramente è più facile, nei nostri giorni, cominciare l'opera di demolizione dalla Giustizia.

Informazione e spettacolo

Il problema è sempre quello delle regole che, se davvero sono tali, devono essere uguali per tutti.
Se le leggi proibiscono a tutti di dare del "deficiente" a un'altra persona in pubblico, questo deve valere anche per gli artisti e le persone famose in genere e, a maggior ragione, questo vale se le parole vengono pronunciate in televisione davanti a milioni di spettatori.
Se non è democratico impedire agli altri di manifestare le proprie idee, ancor meno democratico è chiedere la chiusura di due giornali come "Famiglia cristiana" e "Avvenire" che, tra l'altro - ma questo non c' entra con l'argomeno in questione - sono state le uniche due voci giornalistiche cattoliche a richiamare con forza i doveri etici nel periodo dell'abisso morale berlusconiano.
Questi sono i peccati mortali dell'esibizione di Adriano Celentano - perché è a lui che ovviamente mi sto riferendo - a Sanremo. Per le altre cose che ha detto, a grattare sotto la spessa crosta di populismo,si può arivare a raggiungere qualche sostanza sulla quale si può essere d'accordo o meno, ma che non deve essere censurata - proprio come per i giornalei - specialmente se pone in primo piano argomenti di cui si parla troppo poco. Poi, quando canta, continua a essere, 
invece, una delle icone del pop non solo italiano.
La sua esibizione è stata utilissima - se la si vorrà tenere presente - perché è probabilmente l'esempio più clamoroso e avvilente di cosa succeda a mescolare senza alcuna attenzione informazione e spettacolo, una pratica che per decenni è stata fatta in Italia senza che si sentissero troppe opposizioni, nemmeno tra gli addetti ai lavori. E ora sono in tanti a non distinguere più tra informazione e spettacolo, ma neppure - ed era inevitabile - tra politica e spettacolo.

domenica 5 febbraio 2012

Se si cancellano i poteri

L'inattesa decisione della Camera, di infilare in un'altra legge anche un emendamento che va a rispolverare la teoria della responsabilità civile dei giudici e di approvarlo viene definito da quasi tutti i partiti "un incidente di percorso". Io, invece, visto anche che la maggior parte dei voti favorevoli è arrivata dal partuito di Berlusconi, Io considero un ennesimo tentativo di vendetta contro quella magistratura che ha avuto l'incredibile impudenza di pensare che tutti i cittadini italiani - Berlusconi compreso - debbano essere uguali davanti alla legge.
Se poi qualcuno può credere che la paralisi effettiva del 90 per cento della magistratura - che, per timore di ritorsioni pecuniarie scegliera non la sentenza che ritiene più giusta, ma quella che ritiene meno rischiosa -sia una vittoria per la democrazia, lo creda pure: è padrone di farlo, anche se deve dimenticare che in Italia ci sono ben tre gradi di giudizio e anche che per ogni arresto ci sono più occhi che intervengono separatamente.
Ove fosse come dice il proponente dell'emendamento, allora non si capirebbe perché anche i parlamentari - quelli che hanno proposto e votato leggi sbagliate tecnicamente ancor prima che eticamente, oppure quelli che agli ordini di Berlusconi hanno fermato e semidistrutto l'Italia e le sue già dissestate finanze per quasi vent'anni per favorire la ricchezza e l'immunità del loro capo - non debbano sottostare a una legge sulla responsabilità civile dei parlamentari e dei ministri: dopotutto, seguendo il ragionamento che porta alla responsabilità civile dei magistrati, una legge sbagliata fa male a molte più persone che una sentenza sbagliata.
Eppure, per una volta, devo confessare che sono d'accordo con Berlusconi che rifiuta con terrore una simile possibilità. Il fatto è che lui la rifiuta per timore per sé, io la rifiuto per timore per la democrazia in quanto la nostra Costituzione non per nulla definisce poteri quello Esecutivo, quello Legislativo e quello Giudiziario e nell'articolo 104 fissa che debba essere autonoma e indipendente da ogni altro potere. Il fatto è che un potere di qualcuno è sempre un rischio per gli altri, ma, senza quei tre poteri fissati dai padri costituenti, la società comincerebbe a sfarinarsi e il punto d'arrivo sarebbe molto aleatorio e - ne sono convinto - anche molto rischioso.
Se ci pensare è molto strano che uomini che si definiscono di destra ritengano che l'ordine debba valere per tutti, eccezion fatta per i politici, e che la libertà di azione di coscienza senza pressioni esterne, debba valere soltanto per i politici e per nessun altro. Che dietro a questo atteggiamento ci siano ancora quelle suggestioni berlusconiane che hanno mandato l'Italia nelle ultime posizioni delle classifiche di merito tra le nazioni del mondo, tranne che in quella della corruzione?

venerdì 3 febbraio 2012

Estranei noi, o estranea l'Europa?

«È l'Europa che ce lo chiede». È questa la frase apparentemente taumaturgica con cui si cerca di far ingurgitare agli italiani qualsiasi provvedimento indigesto, se non addiruttura qualche vera e propria "porcata". Poi vai a vedere e scopri che nel 95% dei casi l'Europa non si è nemmeno sognata di toccare l'argomento e tantomeno di chiederne conto all'Italia. Quello della responsabilità civile dei magistrati è l'ultimo, clamoroso esempio.
Ma la cosa che più colpisce non è l'uso improprio che viene fatto di questa frase, quanto quello che nasconde; o, meglio, che rivela. Perché si capisce benissimo che l'Europa è intesa da buona parte del nostro mondo politico come un'entità "altra", forse addirittura aliena, comunque lontana da noi che pure siamo tra i padri fondatori di questa comunità di Stati. Un'Europa alla quale non si può disobbedire se si vuol far passare quacosa che interessa al proponente e disturba la maggioranza degli italiani. Un'Europa alla quale non si deve obbedire se si vuol bloccare un'iniziativa sgradita ad alcuni - tanto per fare un esempio, ai leghisti - anche se trova consensi nella maggior parte degli italiani.
Verrebbe da disperarsi a questa reciproca estraneità tra parte del mondo politico italiano ed Europa, non fosse per il fatto che c'è una notevole estraneità anche tra parte del mondo politico italiano e Italia. E questo, sia chiaro, non è un'inno all'antipolitica e alla distruzione dei partiti, bensì un inno alla politica vera, quella che cerca il bene comune, e ai partiti veri, quelli che devono essere la cinghia di trasmissione di idee e bisogni dal popolo ai luoghi dove si governa e si amministra.

sabato 21 gennaio 2012

Ovunque sempre vergogna resta

I sindaci di Cividale, Stefano Balloch, e di Tolmezzo, Dario Zearo, hanno scritto una lettera-appello a tutte le giunte a guida Pdl, al governatore Tondo, al presidente della Provincia di Udine, Fontanini e al senatore Mario Toros: «Per la Liberazione faremo una cerimonia alternativa nella città ducale». Nella lettera viene chiesto il coinvolgimento delle amministrazioni di Codroipo, Latisana, Lignano, San Daniele, San Giovanni al Natisone, Talmassons e Tarvisio.
Vogliono, insomma togliere a Udine la manifestazione unitaria per la celebrazione del 25 aprile, ma soprattutto togliere al sindaco Honsell di ricordare loro e alla gente da che parte stanno, o, almeno, da che parte stanno alcuni dei loro alleati.
La domanda è semplice: ma davvero non vi vergognate? O forse pensate che questa mossa vi convenga politicamente? O, ancora, che la vergogna di organizzare un contromanifestazione alla Resistenza sia inferiore a quella che avete provato ogni anno in piazza Libertà, quando vi è stato ricordato quello che è successo in Italia con il fascismo e con la lotta di Liberazione sulla quale sono nate la nostra Repubblica e la nostra Costituzione?
Il fatto è che potreste anche andare in capo al mondo e proibire pure che qualsiasi passante arrivi per caso davanti a voi e contesti la vostra impudenza, ma non riuscirete mai a cancellare il fatto che tentate di mescolare le carte puntando a mettere sullo stesso piano coloro che al fascismo si sono opposti e quelli che il fascismo hanno sostenuto. Un’operazione inammissibile e non perché i primi abbiano vinto la guerra e i secondi l’abbiano perduta, ma perché il fascismo è stato le leggi razziali, le spedizioni di aggressione coloniale, l’ingresso in guerra a fianco dell’orrore nazista, l’uccisione di Matteotti, dei fratelli Rosselli, di Amendola e di tanti dissidenti, l’invio al confino di molti che si opponevano perché si rifiutavano di smettere di pensare; è stato la soppressione della libertà di stampa, l’eliminazione della maggior parte dei diritti civili, la dissuasione violenta nei confronti del libero pensiero. Perché il fascismo è stata la negazione dell’umanità mentre la Resistenza, di quella stessa umanità, è stata la più alta affermazione laica.
E non vale neppure ricordare a piena voce che tutti i morti meritano identica compassione, se ci si dimentica ingiustificabilmente di dire che le cause per le quali sono morti sono diverse, che hanno ben differente motivazione e dignità e che importante è come si è vissuti e non come si è morti.

venerdì 13 gennaio 2012

La forma e la sostanza

Tutte le sentenze devono essere accettare e, quindi, devono essere rispettate. Ma non obbligatoriamente condivise. E quella della Corte Costituzionale sul referendum contro l'attuale legge elettorale non mi sembra per niente condivisibile.
A prima vista si potrebbe pensare che si tratti soltanto di una bizantina discussione leguleia sulla possibilità che, cassata per via referendaria una legge, resti un vuoto legislativo, oppure torni alla ribalta la legge precedente; ma in realtà le implicazioni sono molto più pesanti perché non di forma si tratta, bensì di sostanza.
Per prima cosa la Consulta ha vanificato preventivamente la volontà di oltre un milione e 200 mila cittadini che hanno firmato e di molti di più che non accettano il "porcellum". Per seconda cosa, ha rimesso il tesoro della democrazia nelle mani di quegli stessi che lo hanno rubato. Fuor di metafora, si incarica di apportare cambiamenti quello stesso Parlamento che ha realizzato scientemente la "legge porcata" che impedisce ai coittadini di scegliere i propri rappresentanti. Perché - lo si sapeva benissimo - la maggioranza parlamentare resta sempre la stessa, quella ricostruita pagandoda Berlusconi che ora continua a dire che l'attuale legge elettorale è una buona legge. Una maggioranza che non è più nemmeno lontanamente quella davvero esistente nel Paese: lo ammettono addirittura i sondaggi di marca berlusconiana.
Poi Napolitano ha un bel dire: «E adesso subito una nuova legge». Ma dal Parlamento che ha proibito l'arresto di Cosentino ci si può davvero aspettare qualcosa di buono? O questo sarà soltanto il primo mattone per portarci alle urne in tempi troppo brevi per promulgare una nuova legge. È quello che vogliono Berlusconi e Bossi. È quello che teme Monti. È quello che non ha la forza di impedire il PD se non saprà di nuovo saldarsi con tutti gli arrabbiati che ci sono in Italia e che ormai sempre più spesso scendono in piazza perché mal sopportano di delegare qualcosa a qualcuno. E per una democrazia rappresentativa è un vero fallimento.