Non vorrei
sembrare irriverente, ma alla Settimana di Passione propriamente detta
questa volta è corrisposta una settimana di passione democratica davvero
profondissima che non soltanto ha messo in rilievo difetti ormai
cronicizzati, ma che addirittura ha fatto capire che probabilmente siamo
ancora ben lontani dall’aver toccato il fondo.
I conflitti a colpi di clava in
questa specie di inedito “tutti contro tutti” stanno sminuzzando
ulteriormente quel poco di distinguibile che era rimasto tra le macerie
di un vivere democratico che, pur con tutti i suoi difetti, era riuscito
a prendere per mano un’Italia distrutta dalla guerra e prostrata dalla
dittatura e a portarla nel consesso delle prime nazioni del mondo,
assicurando ai propri cittadini benessere e sicurezza sociale che si
estrinsecavano soprattutto nel lavoro, nella sanità e
nell’istruzione.Se dovessi sintetizzare al massimo il motivo di questa
nostra crisi politica, direi che il problema risiede nel fatto che la
stragrande maggioranza dei notabili dei nostri partiti considera la
democrazia come una specie di “dittatura a tempo”: quando sei eletto fai
quello che vuoi per cinque anni, senza che chi non è d’accordo si possa
permettere di disturbare. Poi, se perdi le elezioni successive, la
colpa è del popolo che non ha capito le “meraviglie” che hai combinato.
E tutto questo senza che nessuno si
renda conto che la storia insegna che, prima o dopo, uno dei due termini
di “dittatura a tempo” finisce per cambiare e che quasi sempre non si
tratta del sostantivo iniziale, mentre invece tende a sparire il suo
specificativo limitativo. Ma pensare così lontano è faticoso e
fastidioso e, quindi, la “dittatura a termine” appare tanto comoda che
merita sfruttarla senza darsi problemi; anzi, magari tentando di
cambiare leggi elettorali e Costituzione pur di mantenerla. Lo pensano i
vincitori; lo pensavano – e forse lo pensano ancora – gli sconfitti.
Il fascino del capo, più che
subirlo, lo cercano tutti. Berlusconi è stato ed è maestro: un po’ per
il carisma della ricchezza, un po’ per la fanfaluca che tutto quello che
tocca diventa oro, un po’ perché dove queste due doti non arrivavano
poteva arrivare il denaro. Al suo posto adesso è arrivato Salvini che, a
prescindere dalla sua profonda aliofobia, sembra non essere così
autocratico («Io – ha replicato a Di Maio – non dirò mai: “O io premier,
o morte”») per poi specificare, però, che il premier non spetta ai
5stelle, ma alla coalizione del centrodestra e che a capo della
coalizione, guarda caso, c’è lui.
In comune con Di Maio ha soltanto la
drammatica frase: «Devo rispettare la volontà del popolo»
(evidentemente ognuno parla di un popolo diverso), ma il capo dei
5stelle si sente più divinamente predestinato perché, intanto, si vanta
di una finta democrazia digitale che, come dimostrano le cronache di
questi giorni, è truffabile, o già truffata; poi è convinto che soltanto
loro siano gli onesti e infine in quanto, grazie alla follia firmata da
Rosato, può affermare tranquillamente che il 32 per cento del suo solo
partito vale di più del 37 per cento della coalizione del centrodestra.
La sua “estasi da vittoria” è tale che non si accorge che, dal punto di
vista istituzionale, la Casellati fa fare addirittura bella figura a
Romani. Ed è tanta la sua boria che si sente superiore anche al
presidente della Repubblica pretendendo di fare lui le consultazioni
prima che comincino quelle del Quirinale.
Sul leaderismo di Renzi non ci
sarebbe da spendere più nemmeno mezza parola, visto che non solo ha
fatto da ras del PD per molti anni, ma che anche oggi, dopo una sfilza
incredibile di batoste, e dopo aver fatto dimezzare i voti del suo
partito, pretende ancora di dettare legge, da teorico dimissionario, ma
imponendo i propri fedelissimi come capigruppo e come vicepresidenti dei
due rami del Parlamento e già avvertendo che anche sul nuovo segretario
la decisione sarà sua. La domanda è semplice: perché il partito non si
ribella? E la risposta è altrettanto lapalissiana: perché il partito non
esiste più, visto che si è trasformato in un comitato elettorale nel
quale i posti importanti sono saldamente presidiati da renziani.
Ed è sul PD che vorrei soffermarmi
un momento di più, perché, nonostante tutto, continuo a sperare che si
liberi di Renzi e dei suoi e che torni a guardare a sinistra, dove
ancora non c’è una altro raggruppamento che abbia una massa tale de
poter diventare centro di attrazione per gruppi minori.In questi giorni
sono stati molti gli organi di informazione che hanno fatto inchieste e
interviste sul perché il Pd sia stato abbandonato da tanti suoi elettori
che hanno finito per votare Lega, o 5stelle, o starsene a casa.
L’elenco di delusioni improntate a un comportamento certamente non di
sinistra è lungo e circostanziato, oltre che non sorprendente. Gli
elettori si sono allontanati dal PD a causa del Jobs Act che non ha
aumentato il lavoro, bensì il precariato e la conseguente subordinazione
dei lavoratori; delle ingiustizie della legge Fornero; dello svilimento
nei confronti dei non più giovani, evidente nella parola
“rottamazione”; del disprezzo per l’istruzione e la cultura con una
legge che solo con grande ironia ha potuto essere chiamata della “Buona
scuola”; della presa in giro sul lavoro per i giovani con trovate di
contratti e di stage che hanno l’unico scopo di procrastinare il momento
della disoccupazione ufficiale; della trasformazione degli organismi
della sanità in aziende che devono fare soprattutto utili; della follia
di evitare il contatto diretto con i cittadini per parlare, invece,
soltanto con tweet e apparizioni televisive; della decisione di
soccorrere le banche truffatrici e di trascurare i correntisti truffati;
dell’assoluta sordità a qualunque disaccordo interno e a ogni
suggerimento; di una politica fiscale che spesso ha trattato i ricchi
meglio dei poveri; di una totale assenza di idee sulle migrazioni, salvo
poi inseguire concetti di pura esclusione con il ministro Minniti;
dell’incapacità di aggregare su temi importanti e della facilità di
risultare divisivi davanti ad ambizioni personali. E si potrebbe andare
avanti ancora a lungo.
Ed è proprio per evitare queste
realtà che molti che avevano votato PD: per scongiurare la possibilità
che arrivassero “i barbari” a distruggere il delicato edificio dei
diritti sociali faticosamente costruito, poi si sono accorti che avevano
“i barbari” già in casa e si sono affrettati a cambiare indirizzo. Più
per rancore verso chi ha tradito gli ideali di partenza, che per fiducia
nei confronti dei nuovi.
E fa sorridere amaramente vedere
che, dopo il terribile insuccesso del 4 marzo, molti che hanno
contribuito a distruggere il partito cardine del centrosinistra, oggi
criticano le proprie stesse azioni e parlano di “discontinuità”, come se
per realizzare la discontinuità potesse bastare cambiare un renziano A
con un renziano B.
E ancora più amaro è sentire con
quale artefatta serietà alcuni sedicenti “politici” mettono a confronto i
diritti sociali con quelli personali, ipotizzando che, se si
favoriscono i secondi, occorre rassegnarsi a perdere qualcosa sui primi.
Senza rendersi conto che i diritti, o sono tali e per tutti, o sono
soltanto privilegi. Senza capire che, al di là dell’assurdità dell’idea
del baratto tra diritti, non esiste alcuna motivazione per uno scambio
che favorisca una categoria rispetto a un’altra; nemmeno quella della
quantità di persone che sarebbero coinvolte. Sarebbe come se nella
sanità si decidesse di non curare più le malattie poco frequenti per
convogliare tutti i finanziamenti solo nella lotta contro quelle più
diffuse. E quei malati non hanno diritto di vivere? Potevano essere di
più, sarebbe l’assurda risposta.
Considerando che Liberi e Uguali non
ha saputo raccogliere gli scontenti e i delusi, è il caso di
rassegnarsi? Assolutamente no: occorre, invece, sforzarsi di creare
qualcosa di nuovo, pur se con le radici saldamente affondate nelle
convinzioni democratiche e nelle ambizioni sociali espresse nella
Costituzione della nostra Repubblica. Mettendo da parte le ambizioni
personali per curare gli obbiettivi collettivi. Riprendendo a parlare
“con” la gente, e non “alla” gente. Ponendosi faccia a faccia non
esclusivamente con gli amici, ma soprattutto con chi è critico.
Ricordando che i diritti vanno non soltanto rispettati, ma anche
riconquistati giorno per giorno.
E, soprattutto che una qualsiasi
“dittatura a tempo”, anche se malamente mascherata con la parola
“governabilità”, è già la negazione della democrazia.
Buona Pasqua a tutti.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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