venerdì 2 marzo 2018

Chi resta fuori?

Prima che scatti l’anacronistica regola del silenzio elettorale vorrei spendere ancora qualche parola su un argomento - quello dell’immigrazione, dei profughi, dei migranti - che sembra averla fatta da padrone della cosiddetta campagna elettorale, ma che, in realtà, non ha mai affrontato davvero l’argomento, visto che si è andati avanti quasi esclusivamente a colpi di slogan contrapposti e con un vero e proprio sperpero di quelle che oggi sono chiamate “fake news” e che una volta andavano sotto il meno affascinante, ma più comprensibile, nome di bugie truffaldine e deliberatamente disoneste.

In una propaganda pubblicitaria infarcita di falsità in ogni settore quello che, però, mi ha colpito di più è che tutte le parti contendenti e anche coloro che, temendo di perdere voti - indifferente quali - danno un colpo al cerchio e uno alla botte, hanno sempre affrontato l’argomento dal puro punto di vista numerico ed economico senza mai andare a disturbare quei ragionamenti etici che potrebbero mettere in crisi.

Provo a spiegarmi. Spesso si dividono coloro che arrivano da altri Paesi in almeno tre categorie: gli immigrati (che vengono da noi in cerca di un lavoro), i profughi (che scappano da una guerra) e i richiedenti asilo (che fuggono da persecuzioni e violenze che possono arrivare fino all’omicidio e alla strage). È sicuramente una distinzione importante dal punto di vista legislativo, ma la ritengo eticamente sbagliata; e che filosoficamente sia addirittura un non senso.

La prima domanda che mi e vi pongo riguarda coloro che scappano. L’essere costretti a morire di fame, oppure essere obbligati a prostituirsi, fisicamente o spiritualmente, per dar da mangiare a sé e ai propri cari, è davvero tanto diverso, è davvero tanto meno grave dell’essere perseguitati nell’accezione canonica del termine? La fame o il non avere la possibilità di curarsi, è davvero tanto meno terribile della tirannide, o del despotismo? Il secondo quesito riguarda, invece, coloro che sarebbero chiamati ad accogliere: è giusto legare l’obbligo di aiuto nei confronti del proprio prossimo alle contingenze politiche del luogo e del momento in cui l’aiuto dovrebbe arrivare?

Per la prima domanda la risposta mi sembra debba essere indiscutibilmente negativa. Non è possibile che una generalizzata tortura per fame possa essere meno grave di un pur mirato supplizio individuale, o di gruppo, effettuato con raffinati strumenti, o metodi, ideati per causare dolore. Si può forse consigliare calma e pazienza a un genitore che vede ischeletrire e morire i propri figli, solo perché quelli che sono comunque veri e propri soprusi di regimi di vario tipo non sono particolarmente appariscenti? Direi proprio di no.
Insomma, a voler parlare di diritto d’asilo, ci si trova obbligati a dover confrontarsi con almeno due discriminanti. 

La prima è di tipo quantitativo, e cerco di esemplificarla. Prendiamo il Kurdistan, un Paese creato sulla carta subito dopo la fine della prima guerra mondiale, ma mai realizzato sul terreno vero e proprio. Bene: è difficile trovare qualcuno che davanti alle stragi di curdi perpetrate, alternativamente o contemporaneamente, da iracheni, turchi e siriani, con gas, agenti chimici e altre armi, più o meno convenzionali, possa dire razionalmente che i curdi non devono chiedere e ottenere diritto d’asilo. Ma molti sostengono anche che un limite sia necessario. E lo dicono non riferendosi soltanto all’Italia, ma a tutta l’Europa e anche all’Occidente, al cosiddetto mondo libero. Allora un altro interrogativo appare inevitabile e conseguente: davanti alla lunghissima fila di curdi che chiedono di entrare per salvare se stessi e i propri cari, quando e perché si dirà: «Basta. Il posto è esaurito. Tu ancora puoi passare; tu, invece, devi tornartene indietro a morire. E, attenti bene!, senza protestare, senza rompere le scatole e senza tentare di entrare lo stesso.»?.

La seconda discriminante – che si ricollega anche alla seconda domanda – è di tipo qualitativo: davanti a quale diritto conculcato si può dire «Tu puoi passare» e davanti a quale, invece, si chiude la porta e si dice «Tu resti fuori»? Chi è che deve stabilire qual è il limite oltre il quale si è autorizzati a non sopportare più e a cercare di andarsene per sopravvivere, se non si ha l’animo di fare rivoluzioni? Si può forse legarlo ai voleri della maggioranza del momento del Paese di accoglienza? La risposta è chiaramente negativa e, per sostenere questa tesi, vi porto un esempio soltanto: un antinazista, o anche un ebreo non particolarmente politicizzato, che avesse deciso di scappare da Hitler nella seconda metà degli anni Trenta non sarebbe certamente stato accolto in Italia.

Eppure, per superare oggi questa barriera, la risposta sarebbe semplice: basterebbe, infatti, affidarsi all’articolo 10 della nostra Costituzione che dice: «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge». È uno dei passi più belli, più commoventi, delle regole che si era dato un Paese che usciva da dittature, guerre, torture, fame e distruzioni e nel quale si era ancora convinti – come avrebbe detto anni più tardi Giorgio Gaber – di poter essere liberi e felici, solo se lo erano anche gli altri».

L’alibi principale dietro al quale si nascondono leghisti, neofascisti, liberisti, egoisti, ma anche alcuni che amano farsi passare per progressisti, pur di potersi defilare da ogni imperativo etico, è quello della cosiddetta «richiesta strumentale» e di quella quota di delinquenza che l’immigrazione porta con sé. È sicuramente un problema, ma è un altro problema. Non è un filtro legittimo, bensì un problema successivo, perché la delinquenza va scoperta, fermata e punita esattamente come si fa – o come si dovrebbe fare, in taluni casi – per gli italiani.

Perché, con buona pace di tutti coloro che si appellano alle tradizioni di non si sa chi, in uno dei Paesi più meticciati dell’intero mondo, non è respingendo masse di affamati e disperati alle frontiere, non è cancellando la loro identità e cultura per fare posto alla nostra, non è ghettizzando i “diversi” che sono già entrati, che si riuscirà a mantenere intatta la società civile occidentale che alcuni indicano trionfalmente e tronfiamente come quella superiore a tutte le altre esistenti al mondo.

Sarebbe il caso di ricordare a chi è affascinato dalle teorie dell’esclusione, ma non è ancora totalmente obnubilato, che noi italiani eravamo considerati dal resto del mondo molto peggio di quando oggi in Italia molti, comunque troppi, considerano i migranti. Sarebbe il caso di ricordare che ancora oggi nel Nord Italia molti guardano con diffidenza chi parla con accento meridionale, che nel Triveneto si prova un certo fastidio se si sente parlare in dialetti lombardi, piemontesi, liguri, che in Friuli si arriccia il naso se c’è traccia di triestinità in colui che ci si trova di fronte, che in Carnia si è diffidenti con chi parla in un friulano che non ha in sé alcuni vocaboli e alcune durezze ereditate dalla durezza della vita tra le montagne. E così via, in una parcellizzazione che sembra in grado di concludersi soltanto quando uno resta solo con se stesso. Se poi riesce davvero a sopportarsi.

È soltanto con la cultura, e non con gli slogan, che si può mantenere gli “altri” «vivi e felici» e a ricordare che l’umanità è così preziosa proprio perché è una sommatoria di individualità.

Un ultimo appunto. Salvini si scaglia anche contro i vescovi pur di lucrare qualche voto tramite la semina di odio e di paura, quasi fosse lui il depositario dell’ortodossia del cattolicesimo. A tale proposito vorrei concludere citando un passo di Erri De Luca che, riferendosi a Gesù, scrive: «Nascesse oggi, sarebbe in una barca di immigrati, gettato a mare insieme alla madre in vista delle coste di Puglia o di Calabria. Forse continua a nascere così, senza sopravvivere, e il 25 dicembre è solo il più celebre dei suoi compleanni. Dopo di lui il tempo si è ridotto a un frattempo, a una parentesi di veglia tra la sua morte e la sua rivenuta. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti sono ospiti in attesa di un visto. Siamo noi, pasciuti di Occidente, la colonna di stranieri in fila; fuori; all’ultimo sportello».

Insomma, forse cominceremo a risalire quando, invece di “diritto di asilo”, parleremo di nuovo di “diritto di vivere assieme”. O, più semplicemente, di “diritto di vivere”.

Buon voto a tutti. Ricordando che chi non vota comunque non si libera dal peso della complicità con coloro che potrebbero continuare a sottrarci ulteriormente umanità.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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