Prima che scatti
l’anacronistica regola del silenzio elettorale vorrei spendere ancora
qualche parola su un argomento - quello dell’immigrazione, dei profughi,
dei migranti - che sembra averla fatta da padrone della cosiddetta
campagna elettorale, ma che, in realtà, non ha mai affrontato davvero
l’argomento, visto che si è andati avanti quasi esclusivamente a colpi
di slogan contrapposti e con un vero e proprio sperpero di quelle che
oggi sono chiamate “fake news” e che una volta andavano sotto il meno
affascinante, ma più comprensibile, nome di bugie truffaldine e
deliberatamente disoneste.
In una propaganda pubblicitaria
infarcita di falsità in ogni settore quello che, però, mi ha colpito di
più è che tutte le parti contendenti e anche coloro che, temendo di
perdere voti - indifferente quali - danno un colpo al cerchio e uno alla
botte, hanno sempre affrontato l’argomento dal puro punto di vista
numerico ed economico senza mai andare a disturbare quei ragionamenti
etici che potrebbero mettere in crisi.
Provo a spiegarmi. Spesso si
dividono coloro che arrivano da altri Paesi in almeno tre categorie: gli
immigrati (che vengono da noi in cerca di un lavoro), i profughi (che
scappano da una guerra) e i richiedenti asilo (che fuggono da
persecuzioni e violenze che possono arrivare fino all’omicidio e alla
strage). È sicuramente una distinzione importante dal punto di vista
legislativo, ma la ritengo eticamente sbagliata; e che filosoficamente
sia addirittura un non senso.
La prima domanda che mi e vi pongo
riguarda coloro che scappano. L’essere costretti a morire di fame,
oppure essere obbligati a prostituirsi, fisicamente o spiritualmente,
per dar da mangiare a sé e ai propri cari, è davvero tanto diverso, è
davvero tanto meno grave dell’essere perseguitati nell’accezione
canonica del termine? La fame o il non avere la possibilità di curarsi, è
davvero tanto meno terribile della tirannide, o del despotismo? Il
secondo quesito riguarda, invece, coloro che sarebbero chiamati ad
accogliere: è giusto legare l’obbligo di aiuto nei confronti del proprio
prossimo alle contingenze politiche del luogo e del momento in cui
l’aiuto dovrebbe arrivare?
Per la prima domanda la risposta mi
sembra debba essere indiscutibilmente negativa. Non è possibile che una
generalizzata tortura per fame possa essere meno grave di un pur mirato
supplizio individuale, o di gruppo, effettuato con raffinati strumenti, o
metodi, ideati per causare dolore. Si può forse consigliare calma e
pazienza a un genitore che vede ischeletrire e morire i propri figli,
solo perché quelli che sono comunque veri e propri soprusi di regimi di
vario tipo non sono particolarmente appariscenti? Direi proprio di no.
Insomma, a voler parlare di diritto
d’asilo, ci si trova obbligati a dover confrontarsi con almeno due
discriminanti.
La prima è di tipo quantitativo, e cerco di
esemplificarla. Prendiamo il Kurdistan, un Paese creato sulla carta
subito dopo la fine della prima guerra mondiale, ma mai realizzato sul
terreno vero e proprio. Bene: è difficile trovare qualcuno che davanti
alle stragi di curdi perpetrate, alternativamente o contemporaneamente,
da iracheni, turchi e siriani, con gas, agenti chimici e altre armi, più
o meno convenzionali, possa dire razionalmente che i curdi non devono
chiedere e ottenere diritto d’asilo. Ma molti sostengono anche che un
limite sia necessario. E lo dicono non riferendosi soltanto all’Italia,
ma a tutta l’Europa e anche all’Occidente, al cosiddetto mondo libero.
Allora un altro interrogativo appare inevitabile e conseguente: davanti
alla lunghissima fila di curdi che chiedono di entrare per salvare se
stessi e i propri cari, quando e perché si dirà: «Basta. Il posto è
esaurito. Tu ancora puoi passare; tu, invece, devi tornartene indietro a
morire. E, attenti bene!, senza protestare, senza rompere le scatole e
senza tentare di entrare lo stesso.»?.
La seconda discriminante – che si
ricollega anche alla seconda domanda – è di tipo qualitativo: davanti a
quale diritto conculcato si può dire «Tu puoi passare» e davanti a
quale, invece, si chiude la porta e si dice «Tu resti fuori»? Chi è che
deve stabilire qual è il limite oltre il quale si è autorizzati a non
sopportare più e a cercare di andarsene per sopravvivere, se non si ha
l’animo di fare rivoluzioni? Si può forse legarlo ai voleri della
maggioranza del momento del Paese di accoglienza? La risposta è
chiaramente negativa e, per sostenere questa tesi, vi porto un esempio
soltanto: un antinazista, o anche un ebreo non particolarmente
politicizzato, che avesse deciso di scappare da Hitler nella seconda
metà degli anni Trenta non sarebbe certamente stato accolto in Italia.
Eppure, per superare oggi questa
barriera, la risposta sarebbe semplice: basterebbe, infatti, affidarsi
all’articolo 10 della nostra Costituzione che dice: «Lo straniero al
quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo
nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla
legge». È uno dei passi più belli, più commoventi, delle regole che si
era dato un Paese che usciva da dittature, guerre, torture, fame e
distruzioni e nel quale si era ancora convinti – come avrebbe detto anni
più tardi Giorgio Gaber – di poter essere liberi e felici, solo se lo
erano anche gli altri».
L’alibi principale dietro al quale
si nascondono leghisti, neofascisti, liberisti, egoisti, ma anche alcuni
che amano farsi passare per progressisti, pur di potersi defilare da
ogni imperativo etico, è quello della cosiddetta «richiesta strumentale»
e di quella quota di delinquenza che l’immigrazione porta con sé. È
sicuramente un problema, ma è un altro problema. Non è un filtro
legittimo, bensì un problema successivo, perché la delinquenza va
scoperta, fermata e punita esattamente come si fa – o come si dovrebbe
fare, in taluni casi – per gli italiani.
Perché, con buona pace di tutti
coloro che si appellano alle tradizioni di non si sa chi, in uno dei
Paesi più meticciati dell’intero mondo, non è respingendo masse di
affamati e disperati alle frontiere, non è cancellando la loro identità e
cultura per fare posto alla nostra, non è ghettizzando i “diversi” che
sono già entrati, che si riuscirà a mantenere intatta la società civile
occidentale che alcuni indicano trionfalmente e tronfiamente come quella
superiore a tutte le altre esistenti al mondo.
Sarebbe il caso di ricordare a chi è
affascinato dalle teorie dell’esclusione, ma non è ancora totalmente
obnubilato, che noi italiani eravamo considerati dal resto del mondo
molto peggio di quando oggi in Italia molti, comunque troppi,
considerano i migranti. Sarebbe il caso di ricordare che ancora oggi nel
Nord Italia molti guardano con diffidenza chi parla con accento
meridionale, che nel Triveneto si prova un certo fastidio se si sente
parlare in dialetti lombardi, piemontesi, liguri, che in Friuli si
arriccia il naso se c’è traccia di triestinità in colui che ci si trova
di fronte, che in Carnia si è diffidenti con chi parla in un friulano
che non ha in sé alcuni vocaboli e alcune durezze ereditate dalla
durezza della vita tra le montagne. E così via, in una parcellizzazione
che sembra in grado di concludersi soltanto quando uno resta solo con se
stesso. Se poi riesce davvero a sopportarsi.
È soltanto con la cultura, e non con
gli slogan, che si può mantenere gli “altri” «vivi e felici» e a
ricordare che l’umanità è così preziosa proprio perché è una sommatoria
di individualità.
Un ultimo appunto. Salvini si
scaglia anche contro i vescovi pur di lucrare qualche voto tramite la
semina di odio e di paura, quasi fosse lui il depositario
dell’ortodossia del cattolicesimo. A tale proposito vorrei concludere
citando un passo di Erri De Luca che, riferendosi a Gesù, scrive:
«Nascesse oggi, sarebbe in una barca di immigrati, gettato a mare
insieme alla madre in vista delle coste di Puglia o di Calabria. Forse
continua a nascere così, senza sopravvivere, e il 25 dicembre è solo il
più celebre dei suoi compleanni. Dopo di lui il tempo si è ridotto a un
frattempo, a una parentesi di veglia tra la sua morte e la sua rivenuta.
Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti sono ospiti in attesa di un
visto. Siamo noi, pasciuti di Occidente, la colonna di stranieri in
fila; fuori; all’ultimo sportello».
Insomma, forse cominceremo a
risalire quando, invece di “diritto di asilo”, parleremo di nuovo di
“diritto di vivere assieme”. O, più semplicemente, di “diritto di
vivere”.
Buon voto a tutti. Ricordando che
chi non vota comunque non si libera dal peso della complicità con coloro
che potrebbero continuare a sottrarci ulteriormente umanità.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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