È successo alla 
Camera e al Senato. Ed è successo anche per la Regione Friuli Venezia 
Giulia e per il Comune di Udine. Quindi non si tratta di casi isolati e 
sporadici, ma di abitudini, o, meglio, di costumi ormai radicati 
profondamente nella mentalità – diciamo così – politica del nostro 
Paese.
A livello nazionale, per superare i 
veti incrociati che rendevano ostiche le scalate agli scranni 
presidenziali di Camera e Senato, la Lega ha usato, e poi gettato in un 
angolo, Giulia Bongiorno, dei suoi, e Anna Maria Bernini di Forza 
Italia; i 5 stelle hanno illuso Riccardo Fraccaro prima di far eleggere,
 alla Camera, Roberto Fico; i berlusconiani hanno fatto sentire 
importante Paolo Romani prima di metterlo da parte per fare spazio per 
la massima carica del Senato a Maria Elisabetta Alberti Casellati che, 
chissà per quale motivo al di là dell’umiliazione inferta a Berlusconi, è
 stata ritenuta più degna di essere votata dai grillini che poi, però, 
vergognandosi almeno un po’ di avere accettato colei che strillava al 
golpe davanti al tribunale di Milano quando l’uomo di Arcore era stato 
condannato, hanno preferito essere molto evasivi sul richiesto alto 
profilo istituzionale della nuova presidentessa del Senato.
In Regione la Lega, certa della 
propria forza a Roma, ha insistito su Fedriga, mentre Forza Italia ha 
lasciato cucinare a fuoco lento, prima di toglierli dal tavolo, Riccardo
 Riccardi, Sandra Savino e Renzo Tondo. E per il Comune di Udine la 
situazione è stata simile con Pietro Fontanini sostenuto soprattutto dal
 risultato nazionale della Lega e con Forza Italia che ha tentato di 
opporsi allettando invano Fabrizio Cigolot, Fabrizio Anzolini, Renato 
Carlantoni, Giovanni Barillari e forse ancora qualcun altro che adesso 
mi sfugge, prima di accettare di farsi rappresentare da Enrico Bertossi 
che si era proposto in quel ruolo già da molti mesi ma che fino a pochi 
giorni fa aveva ricevuto in risposta soltanto una sdegnosa indifferenza.
E il PD? Nulla di tutto questo, ma 
non per una scelta di comportamento virtuoso. Soltanto perché a livello 
nazionale è diventato del tutto ininfluente anche perché è ancora Renzi a
 dominare il partito, mentre a livello locale aveva già scelto in forte 
anticipo i candidati governatore e sindaco – Sergio Bolzonello e 
Vincenzo Martines – mettendosi al riparo da qualunque altra 
controcandidatura che potesse arrivare da una sinistra che sta ancora 
cercando di fondere i suoi vari pezzi, ma in un periodo elettorale che, 
per motivi di ambizioni personali edi vecchio partito, porta a esaltare 
più le differenze che le somiglianze.
La politica, insomma, si dimostra un
 tritacarne cieco e insensibile, disposto a fare a pezzi chiunque, anche
 il più fedele, anche colui che per una vita ha servito con dedizione e 
sacrificio i propri ideali e coloro che li rappresentavano. E il 
risultato è sotto gli occhi di tutti: uno sfacelo che sta lasciando 
soltanto macerie dei partiti tradizionali e sta creando al loro posto 
meccanismi senz’anima, senza ideali e con pochi obbiettivi seriamente 
raggiungibili e comunque limitati, più che a un futuro molto prossimo, a
 un presente un po’ allungato.
Per analizzare questa situazione mi 
sembra utile partire da uno dei modi di dire per me più fastidiosi usati
 da Bersani, persona che, peraltro, continuo a stimare moltissimo. Non 
ho mai accettato, infatti, che potesse definire il suo partito «la 
ditta», sia perché, se di ditta si trattava, allora doveva rendersi 
subito conto che aveva cambiato completamente produzione, sia in quanto 
tra gli ideali e gli obbiettivi di un partito politico e i prodotti e i 
bilanci di una ditta le distanze continuano a essere siderali.
Eppure questa definizione oggi ci 
torna utile per capire quello che realmente è successo; perché è 
assolutamente vero che la politica ha deciso di modellarsi sui 
comportamenti delle ditte. E non soltanto trattando la sanità, 
l’istruzione, e altre cose ancora, come aziende che devono produrre 
utili, tanto che si decide di premiare personalmente e riccamente i 
dirigenti che questi utili raggiungono, ma anche coinvolgendo e 
stravolgendo una mentalità che prima cercava – o almeno diceva di 
cercare – il bene del cittadino, mentre ora si occupa soprattutto ed 
esplicitamente del benessere dei bilanci. E il parallelo con il mondo 
delle aziende balza agli occhi già ascoltando discorsi che non parlano 
di “investimenti”, ma soltanto di “spese”.
Però la cosa che appare più evidente
 è che in politica non dovrebbe trovare spazio quella che da sempre 
definisco la “sindrome dell’amministratore delegato”. Mi spiego: 
ricordate le vecchie iconografie classiche dell’industriale-padrone che 
potevano attagliarsi a non pochi protagonisti dell’economia di una 
volta? Ebbene, oggi ci appaiono quasi da rimpiangere, sia perché 
comunque rispettavano il valore della loro azienda che volevano 
mantenere sana e vitale, sia perché la sentivano come una propria 
creatura da lasciare integra e vitale ai propri eredi, sia soprattutto 
poiché, per una parte non irrisoria, erano perfettamente coscienti che 
la loro fortuna dipendeva in parte non trascurabile dalle capacità di 
coloro che in quella ditta lavoravano e che, quindi, dovevano essere 
pagati e trattati con dignità. Oggi non è più così. Le aziende sono 
affidate per la maggior parte ad amministratori delegati ai quali dagli 
azionisti è chiesto in primis, se vogliono mantenere il loro posto, di 
presentare bilanci positivi e in continua crescita. E per riuscire a 
fare ciò non sono pochi quelli che agiscono in maniera tale che la 
casella finale degli utili diventa non solo la cosa importante, ma 
l’unica cosa importante.
Se poi, per ottenere che questa 
casella contenga cifre sempre più cospicue, visto che è difficile 
aumentare la quantità dei ricavi, si finisce per operare più facilmente 
soprattutto sui risparmi, prosciugando le ricchezze interne non 
direttamente monetizzabili dell’azienda, indebolendone le strutture 
umane e tecniche, che sono i pilastri sui quali si regge, fino a 
portarla verso un inevitabile collasso, la cosa appare secondaria ed 
eventualmente riguarderà chi sarà chiamato alla difficile opera di 
risanamento. L’amministratore delegato, insomma, se non è davvero un 
fuoriclasse, rischia di essere miope per contratto.
Il politico questo non può – o non 
potrebbe – permetterselo, se vuole davvero cercare il bene della polis. 
Si tratta, insomma, di avere una visione a lungo raggio, di piantare 
alberi che daranno frutti probabilmente solo molto più tardi, spesso a 
mandato concluso. Ma oggi tutto questo anche in politica sembra non 
avere più senso. Non soltanto ci si limita a pensare al bilancio 
piùvicino, a praticare unicamente la tattica senza neppure immaginare 
una strategia, ma si agisce con sommo sprezzo del pericolo altrui, 
mandando avanti i più obbedienti, quelli disposti a sacrificarsi pur di 
ottenere un apparente risultato immediato. E il domani? Troppo lontano 
per pensarci.
È un atteggiamento che mi ricorda 
molto il modo di fare dei generali della prima guerra mondiale, quelli 
che agivano come se la mitragliatrice non fosse stata ancora inventata e
 mandavano a morire i loro soldati in una carneficina senza speranze. 
Svendevano l’umanità per una misera trincea. E molto spesso non 
riuscivano ad arrivare nemmeno a un risultato così meschinamente 
piccino.
Sinceramente mi interessa poco del 
destino di schieramenti politici neofascisti, aliofobi, od ondivaghi, ma
 al centrosinistra e alla sinistra vorrei chiedere quale appeal credano 
che possa essere esercitato dai partiti politici su persone che 
vorrebbero iscriversi e partecipare alla vita democratica, ma che sanno 
anche che, in caso di presunta necessità, sarebbero ignorati, se non 
buttati a mare senza pensarci troppo su?
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
 
 
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