Per fortuna
manca pochissimo perché si concluda questa cosiddetta campagna
elettorale che, in realtà, è qualcosa a mezza via tra la propaganda
pubblicitaria, con una serie di promesse mirabolanti ed evidentemente
per la massima parte irrealizzabili, e un libro dei (loro) sogni, in cui
si parla moltissimo di possibili future alchimie governative e
addirittura di liste di ministri stilate ancor prima che il presidente
della Repubblica possa cominciare a pensare a chi dare l’incarico.
Invece pochissimo si discute di
argomenti di fondamentale importanza, come l’aumento iperbolico delle
disuguaglianze sociali e, quindi, della povertà che è strettamente
connessa – anzi, in buona parte dipendente – dalla crisi del mondo del
lavoro.
Questa è l’ennesima conferma che non
interessa davvero debellare la povertà perché sembra bastare soltanto
non vedere i poveri allontanandoli dai centri storici cittadini. E che
non interessa davvero debellare la disoccupazione perché sembra essere
sufficiente giocare con i numeri dando per occupati contemporaneamente
sia coloro che hanno un contratto a tempo pieno e indeterminato, sia
quelli che riescono a lavorare, e spessissimo con una retribuzione
assolutamente non dignitosa, soltanto poche ore al mese.
Lo facciamo perché la vista dei
poveri e dei disoccupati è un atto di accusa per noi stessi che non
siamo stati capaci – direttamente, o per interposte persone – di
coniugare i diritti con i doveri. E abbiamo anche fatto finta di
dimenticare che il lavoro è, sì, stipendio e guadagno, ma anche e
soprattutto dignità e coscienza di utilità per sé e per i propri cari,
per l’azienda, o l’ente, in cui si lavora e per l’intera società.
Tra il decreto Poletti del 2014 e il
Jobs act del 2015 abbiamo visto imperversare – per usare il linguaggio
caro a molti politici – Mini job, Fast job, Fake job, con lavoretti
lampo anche di un giorno soltanto, lavori a termine, intermittenti, a
chiamata, voucher di vecchio e nuovo tipo, collaborazioni, fantomatici
stage e ipotetiche alternanze scuola–lavoro. Tutto questo mentre si
sbandieravano i teorici pregi dei contratti a tutele crescenti ai quali i
licenziamenti più semplici troppo spesso non hanno lasciato neppure il
tempo di crescere.
Il tutto in una giungla nella quale
si è fatto di tutto per aiutare quelli che una volta erano giustamente
chiamati “datori di lavoro” e nulla per venire incontro a quelli che il
lavoro devono farlo, con il risultato di offrire alla popolazione che
per vivere deve lavorare pochissimi diritti e nessun futuro. Tanto che,
mentre Renzi sbandiera il fatto che gli occupati sono aumentati –
comunque esagerando – di un milione di unità, la quantità di lavoro in
un anno è addirittura precipitata a oltre un miliardo di ore lavorate in
meno.
Alcune considerazioni. Intanto c’è
il fatto che i vantaggi per gli ex “datori di lavoro” sono, a lungo
termine, più apparenti che reali perché è la qualità del lavoro, e
quindi della produzione, a calare visto che gli uomini non sono macchine
a rendimento costante, ma esseri viventi che migliorano con
l’intelligenza, l’esperienza e la fidelizzazione. Se l’unica qualità
richiesta al lavoratore è la rassegnazione a stipendi sempre più bassi e
alla povertà, intelligenza, esperienza e fidelizzazione mancheranno e
la caduta di qualità sarà inevitabile.
Sempre pensando all’economia, è
incontrovertibile, poi, che una popolazione povera potrà muovere il
mercato molto meno di una che riesce ad avere ancora qualche soldo dopo
aver sostenuto le spese di prima necessità per la propria vita in una
società in cui comunque le tariffe e i ticket continuano a crescere.
Dall’altra parte il lavoro dava,
oltre alla dignità, anche la fierezza di sentirsi parte di un tutto e la
debolezza individuale diventava forza di gruppo e rendeva possibile
quell’ascensore sociale che per decenni è stata la spinta sociale
prevalente del nostro Paese e che era considerato preziosissimo se non
per sé, almeno per i propri figli. Cancellata questa realtà, sono
rimaste l’umiliazione di chi è stato lasciato in strada, l’invidia
contro chi è rimasto negli uffici o nelle fabbriche, il disprezzo
reciproco tra questi due gruppi in una serie di profonde fratture che
hanno ulteriormente indebolito i deboli a favore dei più forti.
E, alla fine, mentre coloro che
dovevano governare impiegavano la maggior parte dei loro sforzi per
convincere che la situazione era ingovernabile, mentre in altri Paesi
almeno in parte si riusciva a fare qualcosa, la povertà e la
disoccupazione sono diventate quasi come colpe da nascondere agli altri,
ma anche a se stessi. Sono diventate, come per i migranti, una specie
di peccato originale senza neppure la speranza di un nuovo battesimo che
possa lavare una colpa che non si ha.
In questa cosiddetta campagna
elettorale, tranne che a sinistra, si è preferito parlare più di
“redditi di cittadinanza” che di lavoro e di strumenti concreti per
rivitalizzarlo, ma al momento di votare è necessario ricordarsene: non
soltanto perché – come dice la Costituzione – il lavoro è il fondamento
della nostra Repubblica, ma anche in quanto è proprio da questo aspetto
che dipenderanno il volto futuro del nostro Paese e il benessere, o
meno, nostro e di chi arriverà dopo di noi.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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