Mercoledì 14
febbraio, contemporaneamente ricorrenza di San Valentino e giornata
delle ceneri, la presidentessa del Lions Club Udine Castello, Alma
Maraghini Berni, mi ha invitato a tenere una lunga conversazione sul
tema “Amore ferito”. Ve la propongo.
Quando la vostra presidentessa mi ha indicato l’“Amore ferito”
come tema per la chiacchierata della serata di San Valentino, mi sono
reso conto che di affrontare questo argomento mi è capitato soltanto
occasionalmente, e abbastanza di sfuggita pur nel mio quasi mezzo secolo
di professione, e, quindi, ho provato ad avvicinarmici gradatamente,
cercando punti di vista per me inconsueti e stando attento a non
infarcire la serata di luoghi comuni, o di considerazioni prettamente
personali. Ma soprattutto ponendomi l’obbiettivo di rispondere a due
domande. La violenza nasce soltanto da rapporti di forza, fisica o
psicologica che sia, squilibrati? E, ancora più importante, stiamo
sempre parlando di amore?
Vi chiedo, quindi, di accompagnarmi con pazienza in questo percorso
la cui prima tappa è costituita da una curiosità da soddisfare: chi era
San Valentino che, tra l’altro, è anche protettore degli epilettici ed è
capace – giurano a Chiasiellis e a Zoppola – di scongiurare grandine e
tempeste durante i temporali. Ma a noi interessa soltanto perché è
diventato patrono degli innamorati. Vissuto nel II secolo, divenne
vescovo a soli 21 anni e poi morì martire per decapitazione, dopo
l’immancabile tortura, vicino al ponte Milvio. Secondo alcune fonti
Valentino sarebbe stato giustiziato perché aveva celebrato il matrimonio
tra una giovane cristiana e un legionario romano pagano: la cerimonia
avvenne in fretta, perché la giovane era malata, e i due sposi morirono,
insieme, proprio mentre Valentino li benediceva. E questa è la prima
versione, non propriamente consolante, del perché San Valentino sia
legato agli innamorati.
Però ci sono anche racconti più romantici. In uno il vescovo,
passeggiando, vide due giovani che stavano litigando e andò loro
incontro porgendo una rosa e invitandoli a tenerla unita nelle loro
mani: i giovani si allontanarono non solo riconciliati, ma addirittura
innamorati, mentre numerose coppie di piccioni – piccioncini, appunto –
svolazzavano loro intorno scambiandosi sfioramenti e beccatine
d’affetto. In un altro il santo avrebbe donato a una fanciulla povera
una somma di denaro necessaria come dote per il suo sposalizio, evitando
che la ragazza, priva di sostanze, rischiasse la perdizione.
La realtà, però, è probabilmente molto meno romantica. Le origini di
questa festa, infatti, potrebbero risalire al IV secolo, quando fu
introdotta per sostituire e far dimenticare la festa dei Lupercalia, gli
antichi riti pagani dedicati al fauno Luperco, protettore della
fertilità, che si celebravano il 15 febbraio e prevedevano
festeggiamenti sfrenati, in aperto e netto contrasto con la morale e
l’idea di amore dei cristiani. In particolare, il clou della festa si
aveva quando le matrone romane si offrivano, spontaneamente e per
strada, a gruppi di giovani che scorrazzavano nudi. Anche le donne in
attesa si sottoponevano volentieri al rituale, convinte che avrebbe
fatto bene alla nascita del futuro pargolo. Per creare la festa di un
amore molto diverso, papa Gelasio I, nel 496, decise di spostarla al
giorno precedente, già dedicato a San Valentino, facendolo così
diventare automaticamente il protettore degli innamorati.
Comunque della giornata di San Valentino si parla da moli secoli. Nel 1601 Shakespeare, nell’“Amleto”,
durante la scena della pazzia di Ofelia, fa cantare la fanciulla
vaneggiante: «Domani è san Valentino e, appena sul far del giorno, io
che son fanciulla busserò alla tua finestra; voglio essere la tua
Valentina». Ma risale addirittura a circa tre secoli prima un
manoscritto in cui l’inglese Geoffrey Chaucer raccontava come nel giorno
di San Valentino gli uccellini iniziassero le loro danze d’amore. A
Parigi, il 14 febbraio 1400, fu fondato l’Alto Tribunale dell’Amore,
un’istituzione ispirata ai principi dell’amor cortese che aveva lo scopo
di decidere su controversie legate ai contratti d’amore, ai tradimenti,
e – già quella volta – alla violenza contro le donne. Curioso il fatto
che i giudici erano selezionati sulla base della loro familiarità con la
poesia d’amore. E la più antica “valentina” di cui sia rimasta traccia
fu scritta da Carlo d’Orléans, all’epoca detenuto nella Torre di Londra
dopo la sconfitta alla battaglia di Agincourt nel 1415. Carlo si
rivolgeva a sua moglie, Bonne di Armagnac, con le parole: «Anche qui io
sono preda dell’amore, mia dolcissima Valentina».
Non possiamo, però, dimenticare che oggi è anche il mercoledì delle
ceneri, il giorno in cui comincia la Quaresina che ci porterà a quel
Giovedì Santo che, in qualche modo, ci ricollega, anch’esso, al titolo
della serata – “Amore ferito” – perché nulla
può ferire un amore, di qualsiasi genere sia, più di un tradimento;
proprio come quello compiuto da Giuda il giovedì.
A questo punto, appoggiandoci al concetto di tradimento, potrebbe
apparire naturale inoltrarsi nello sterminato campo dei problemi
psicologici ed etici che sono il brodo di cultura nel quale prosperano
quelle violenze sulle donne e quei femminicidi che quotidianamente
rattristano le nostre cronache.
Ma, prima di entrare nel rapporto tra violenza e amore, credo sia
necessario dare una dimensione un po’ più definita al fenomeno delle
prepotenze sulle donne, anche se va rilevato che in molti casi il
rapporto con l’amore non esiste nemmeno a scopo di presunta
giustificazione. È proprio di ieri un rapporto Istat nel quale si
sottolinea che si stima, ma ovviamente per grande difetto causato dalla
vergogna a denunciare, e anche soltanto a confidarsi, che siano quasi 9
milioni, circa il 44 per cento, le donne fra i 14 e i 65 anni che nel
corso della vita abbiano subito una qualche forma di molestia sessuale e
che siano oltre 3 milioni quelle che le hanno subite negli ultimi tre
anni. Non solo: nel corso della vita più di un milione e 173 mila donne
sono state vittime di ricatti sessuali sul luogo di lavoro per essere
assunte, per mantenere il posto, o per ottenere progressi di carriera. E
stupisce, ma solo a prima vista, che la maggior parte di questi fatti
sia accaduta nel settore delle attività professionali, scientifiche e
tecniche, seguite da quello del lavoro domestico. Tra l’altro, se nel
loro insieme i dati sulle molestie sulle donne negli ultimi anni
risultano in diminuzione, sono invece stabili i ricatti sessuali sul
lavoro.
Quindi, prima di soffermarci su problemi psicologici ed etici, mi
appare necessario un passaggio di tipo educazionale che si riferisce a
qualcosa di ben più materiale della psicologia e dell’etica e che può
essere completamente estraneo a qualsivoglia implicazione sentimentale. E
mi riferisco al corpo.
A nessuno sfugge che qualunque nostra fotografia non ci mostra in
maniera completa e assoluta, ma soltanto come siamo in quel determinato
momento; e sappiamo bene che, a meno di eventi traumatici, nessuno si
accorgerà del cambiamento sopravvenuto anche soltanto un giorno dopo; ma
siamo ben consci che quel cambiamento inevitabilmente ci sarà stato, in
quanto ogni contatto con l’esterno ci trasforma perché il corpo, anche
se questo può apparire sorprendente, non è un’entità finita, né
definita. E quello che vale per il corpo, vale anche per la mente e per
il cuore.
Ma forse ancora più stravolgente, se guardiamo al corpo pensando alla
realtà della società in cui viviamo, alle sue leggi scritte e non
scritte, è il fatto che ci rendiamo conto che noi non siamo gli
esclusivi padroni del nostro corpo.
E partiamo proprio dall’effettiva titolarità del nostro corpo
domandandoci cos’altro è la violenza sulle donne, sui bambini, sui
malati, sugli handicappati, sui deboli in genere, se non l’impadronirsi
del corpo di un altro? E di cos’altro parliamo, se non di questo, quando
ci dobbiamo confrontare con il ritorno della cultura della violenza e
della tortura nelle istituzioni del nostro Paese? Sono ragionamenti
spinosi, e probabilmente divisivi, ma che, a prescindere da come una la
pensi, non possono essere sottaciuti. Pensiamo alla giustizia fai da te
vista in questi giorni, ma anche, per esempio, alla Diaz di Genova, o a
Cucchi morto martoriato mentre era in custodia cautelare. E non perché
sia lecita la violenza – diciamo così – privata, ma perché mentre quella
suscita inequivocabile riprovazione, quella praticata delle istituzioni
rischia, pur se in limitate circostanze, di far passare il messaggio di
una sua presunta liceità.
Soffermiamoci anche a riflettere sul fatto che a suo tempo il corpo
di Eluana Englaro e quello di Piergiorgio Welby sono diventati campi di
battaglia su cui, a prescindere dalle rispettive posizioni, si sono
affrontati, spesso disinteressandosi della volontà dei diretti
interessati e dei loro familiari, politica, Chiesa, scienza medica,
gruppi di pressione di vario tipo. E realizziamo anche che sono sempre
piccoli e inessenziali particolari del corpo, come il colore della
pelle, il taglio degli occhi, o il tipo di capelli, che portano alle
discriminazioni, ai respingimenti, alle moderne schiavitù, al sempiterno
razzismo.
Il corpo, insomma, è un elemento centrale della discussione pubblica e
i vari orientamenti politici e sociali derivano soprattutto da due modi
principali di interpretare la vita: il primo ne considera preminente la
sacralità perché ritiene che la vita discenda da Dio e che, quindi, non
sia disponibile da parte del soggetto che la riceve in dono, né,
ovviamente, da parte di altri; il secondo, invece, antepone a tutto la
libertà in quanto ritiene che la vita emerga, diciamo così, dal basso e
che, quindi, sia totalmente disponibile da parte di chi la riceve in
sorte.
Ed è proprio su questi scivolosi argomenti che la società ha sempre
mostrato il massimo dell’ipocrisia. Non entriamo in considerazioni
etiche, ma se c’è davvero tanto rispetto per il corpo da opporsi, anche
con la forza, a decisioni individuali come il suicidio, o il lasciarsi
morire per mantenere intatta la propria dignità, perché questo rispetto
scompare del tutto davanti a cose molto simili, ma decise dall’alto come
le guerre, gli sfruttamenti, le discriminazioni? Viene quasi il dubbio
che il disegno più importante sia proprio il fatto che la vita e il
corpo non restino nelle mani di coloro cui quel corpo davvero
appartiene, ma che passino nelle disponibilità di chi detiene il potere.
Credo, insomma, che non potremmo capire bene il rapporto tra corpo e
società, e, per quello che questa sera ci interessa, tra amore e
violenza, se trascurassimo inizialmente il fatto che il nostro involucro
di pelle, carne e ossa è anche oggetto di una continua rappresentazione
e manipolazione che ha fatto sì che il corpo, per definizione sede
dell’umano, oggi sembri essere diventato una specie di luogo di
transizione che spossessa il corpo stesso dal suo reale padrone.
Culture e religioni spesso hanno vietato la rappresentazione del
corpo umano, o l’hanno manipolato e cambiato. Pensiamo ad antiche
pratiche corporee di tipo sacrale, come la circoncisione e
l’infibulazione. Pensiamo alle mostrificazioni tribali di orecchie,
nasi, colli e corpi, a deformità varie, tra l’altro quasi sempre non
accessibili a tutti, ma usate per segnalare cariche particolari, potere,
ruoli sociali, rapporti privilegiati con il sacro. Nella modernità li
abbiamo sostituiti con elementi come paramenti sacri, o corone, gradi
sulle maniche, o fregi sui cappelli, perché comunque il corpo, con le
sue appendici, resta un immediato strumento di identificazione di una
persona con un sistema di segni e informazioni.
Ma oltre che per il potere e per la sacralità, il corpo viene
manipolato per funzioni culturali. Ricordiamo i piedi deformati delle
donne cinesi, o i colli allungati, le labbra, le narici, le orecchie
allargate di alcune tribù, le perforazioni e le scarificazioni. O, per
venire ai giorni nostri, pensiamo ai tatuaggi e ai piercing che sono
strumenti per far vedere agli altri il modo in cui si vuole essere
percepiti. Pensate al trucco delle donne, cosa normale e comunissima,
che vuole far passare un’immagine di corpo che è diversa, poco o tanto
che sia, da quella reale, quasi sempre per scopi di attrazione. E la
stessa cosa, anche se in forme un po’ diverse, accade anche per gli
uomini.
Facciamo ancora un passo in avanti e pensiamo alla pubblicità
martellante che fra un po’ vorrà ricordare a tutti che torna l’estate,
che l’estate è spiaggia, che spiaggia vuol dire esposizione del proprio
corpo e che, quindi, si postula l’obbligo di prepararlo attentamente a
questa particolare forma di comunicazione. E lo si fa con diete e
ginnastiche tonificanti. Ma certi arrivano addirittura alla chirurgia
plastica. L’amore, per altri o per se stessi, resta sempre sullo sfondo,
ma siamo proprio sicuri che non sia, magari gravemente, già ferito?
Comunque, anche se non sono pochi coloro che tentano di
riappropriarsi del proprio corpo in maniere diverse da quelle del
passato, alcuni cedono il possesso del proprio corpo alle regole imposte
dalle tradizioni, dalle mode e dal mercato. E, se passa il concetto che
io accetto di non essere più padrone del mio corpo, contemporaneamente
non può non passare anche l’idea che qualcuno pensi di poter
impadronirsi di quei corpi che sono ormai senza padrone.
E in più, pur se extracorporei, si sono aggiunti anche altri aspetti
che possono mettere in crisi la reale proprietà del proprio corpo.
Perché lo spossessamento di se stessi può continuare con l’aumento del
controllo da parte di altri, conosciuti o non conosciuti che siano; un
aumento di controllo che coincide con una cessione di autonomia e,
quindi, di libertà.
Pensate soltanto a schiavitù tecnologiche che a prima vista non
appaiono tali, ma che sono molto efficaci, come per esempio il cellulare
che è tracciabile anche da spento, che è diventato una vera protesi
corporea e che , oltre a localizzare in ogni momento il nostro corpo,
fornisce una massa impressionante di informazioni che riguardano tutto
l’insieme delle nostre relazioni personali, sociali, economiche e le
nostre opinioni perché non soltanto mette in evidenza se si telefona a
un partito, o a un altro, alla parrocchia, alla sinagoga, o alla
moschea, ma fa anche registrare tutto quello che diciamo.
Ogni giorno in Italia si scambiano più di 300 milioni tra sms e
telefonate e tutto – anche i più intimi sussurri d’amore – viene
trattenuto e registrato. Questo, si dirà, riguarda esclusivamente le
forze dell’ordine, ma è vero solo in parte perché non soltanto ci sono
dei programmi che permettono, non troppo legalmente, anche ai privati di
accedere a dati teoricamente coperti da privacy. Ma non basta, perché
moltissimi fanno a gara a pubblicizzare volontariamente tutto quello che
sono e tutto quello che fanno sui cosiddetti social, senza rendersi
conto che in internet la parola “amicizia”, ha un significato
profondamente diverso da quello della vita reale dove, comunque, è già
abbondantemente inflazionato. Quindi in questa maniera quasi ci
sdoppiamo: il nostro corpo elettronico si separa da quello fisico e non è
più un’entità finita e definita perché finisce per esistere anche un
corpo virtuale ed elettronico che non può non falsare la nostra immagine
reale; che non ci consente di essere valutati in tutta la nostra
capacità e complessità. E che può portare a situazioni di grande
pericolo.
A tale proposito, tornando ai dati Istat, si evince che il 6,8% delle
donne ha avuto proposte inappropriate o commenti osceni o maligni sul
proprio conto attraverso i social network e all'1,5% è capitato che
qualcuno si sia sostituito per inviare messaggi imbarazzanti, o
minacciosi, od offensivi ad altre persone.
Insomma, non ci sono più soltanto le superiorità di forza fisica, di
censo, di potere sociale a determinare il sopruso da parte del più
forte, ma oggi a creare quella differenza che permette, se non induce,
la violenza si sono aggiunte delle cause che annichiliscono e
disumanizzano ulteriormente il più debole.
E veniamo alla seconda domanda: se parliamo di “amore ferito”, stiamo
sempre parlando di amore? A prima vista la risposta dovrebbe essere un
ben no, tondo ed esplicito. Magari accompagnandola con la parafrasi di
una famosa frase di Jean-Jacques Rousseau che diceva che «di tutti gli
attributi di una divinità onnipotente, la bontà è quello senza il quale
non la si potrebbe neppure concepire». Sul nostro argomento potremmo
affermare, invece, che «di tutti gli attributi di un amore, la violenza è
quello che sicuramente ne negherebbe l’esistenza».
Ma ovviamente il discorso non è così semplice perché l’amore non
soltanto è un sentimento estremamente complesso, ma anche in quanto
sembra che nei secoli si sia fatto a gara per mistificarlo e travisarlo.
Magari con alti intenti. Magari da parte di personaggi al di sopra di
ogni sospetto.
Prendiamo Dante, per esempio. Chi non ricorda il verso «Amor, ch’a nullo amato amar perdona»? Siamo nel V canto dell’Inferno della “Divina Commedia”,
e Virgilio ha portato Dante davanti a Francesca da Rimini e a Paolo
Malatesta. Merita, anzi, ricordare interamente le due terzine che ci
interessano e i due versi successivi: «Amor, ch’al cor gentil ratto
s’apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ‘l
modo ancor m’offende. / Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese
del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona /
Amor condusse noi ad una morte. / Caina attende chi a vita ci spense».
La storia è quella di Francesca, amante di Paolo, e sposata con il
fratello di lui, Gianciotto che scopre il tradimento e li uccide
entrambi. Dante, insomma, parla di un femminicidio e di un fratricidio;
eppure per lui a dominare su tutto è il concetto di amore, tanto che, in
forma sostantivale o verbale, lo usa ben cinque volte di cui tre
addirittura nello stesso verso. Ma qual è il vero amore: quello
passionale che – dice lui – non consente a una persona che sia davvero
amata di non ricambiare il sentimento, oppure quello consacrato dal
sacramento del matrimonio che non consente di amare nessun altro? Non
c’è, poi, una contraddizione in termini in quel «amor ch’a nullo amato
amar perdona», che diventa assurdo se uno è amato contemporaneamente da
due, o più, persone diverse? Ed è davvero possibile che un tradimento
porti allo stesso posto – l’Inferno – di un omicidio? Se davvero esiste
un aldilà e se davvero ci dovesse essere un sistema premiale e punitivo
per ciò che si è fatto in vita, è mai possibile che Dio, nella sua
onnipotenza e, quindi, nella sua infinita saggezza, incaselli tutto in
due uniche categorie finali: innocenti e colpevoli? Perché, al di là del
fatto che tutti noi sappiamo bene di avere tanti grigi, si ha un bel
dire che fuoco, ghiaccio o escrementi sono cose ben diverse; ma passarvi
immersi l’intera eternità rende praticamente identica la pena.
Sono domande che richiedono una risposta impossibile, più che
difficile; e, infatti, anche il povero Dante non sa che dire; sa
soltanto che prova così tanta pietà per i due spiriti che ha davanti da
perdere i sensi: «…sì che di pietade / io venni men così com’io morisse.
/ E caddi come corpo morto cade».
Ma se vogliamo riallargare i confini dell’amore e abbandonare le
contraddizioni indotte dal cristianesimo, ci conviene retrocedere nel
tempo fino a imbatterci nella distaccata concretezza greca. Platone, nel
“Simposio”, dice che l’amore è un’espressione
della follia, e spiega che noi siamo fatti di una parte ragionevole e
una folle e che alla nostra parte folle possiamo accedere soltanto con
una forma di conoscenza non razionale perché la ragione è impotente a
capire la follia. Possiamo arrivarci – dice – attraverso l’erotica, che
poi è la stessa strada che porta una madre a capire i bisogni di un
neonato che non parla: lo comprende attraverso mediazioni di un amore
che è “atopia”, che si colloca fuori dal luogo della ragione e che è
figlio di povertà, trasgredendo la tradizione greca che lo faceva figlio
di Afrodite, Venere per i latini, dea della sessualità, e di Ares,
Marte, dio dell’aggressività. Platone sostiene che l’amore è figlio di
povertà perché è una dimensione di quel desiderio che, in definitiva, è
sintomo di mancanza e che, quindi, produce una tensione verso l’altro
che fa scoprire dell’altro un’infinità di cose che, senza quella
tensione desiderante, non avvertiremmo neppure lontanamente. Quindi, nel
momento della nostra irrazionalità amorosa, possiamo diventare più
capaci di capire l’irrazionalità nostra e altrui; diventiamo cioè più
razionali anche rispetto a un mondo irrazionale. Con l’amore posso
entrare nella mia follia e posso esprimerla. E, del resto, riferendosi
all’amore, comunemente si dice «Ho perso la testa», o «Mi fai
impazzire».
E Platone arriva anche a dire che l’amore è assolutamente lontano da
qualunque vizioso concetto di possesso dell’altro; quindi da ogni
aggressività e da ogni violenza. Anzi dal dialogo del filosofo greco si
desume che ogni gesto d’amore è un tentativo di ricomposizione. E, a
tale proposito, l’etimologia ci viene, premurosa, in aiuto. La parola
“sesso”, infatti, deriva dalla parola “nesso”, che significa
connessione. E non è senza importanza che in tutte le lingue indoeuropee
la radice “nek” abbia a che fare con la parola “conoscenza”. Del resto
anche la Bibbia, quando vuol indicare che due fanno l’amore, dice che si
sono conosciuti. Conosciuti “biblicamente”, diciamo noi, appunto.
Insomma, da qualunque parte lo guardiamo, anche da quello della
follia, l’amore è la negazione della violenza. Ma, allora, se in Italia
ogni anno in numero dei femminicidi è superiore a 140 (quasi uno ogni
due giorni) e se quello delle violenze domestiche è talmente elevato da
sfuggire a qualsiasi tentativo di darne una dimensione numerica, anche
soltanto per gli episodi denunciati che sono soltanto la punta
dell’iceberg di un fenomeno enormemente più diffuso, il tutto deve forse
essere associato a una grande varietà di mancanze, diciamo così,
etiche? È possibile che tutto dipenda da un momento storico in cui
dominano l’edonismo, la ricerca di divertimento e di svago a prescindere
dalle conseguenze per sé e per gli altri; in cui dilaga una
superficialità legata a un presente cannibale, che non è in grado di
pensare strategicamente al futuro e che deliberatamente preferisce non
conoscere e comunque non considerare il passato?
Non ci sono dubbi sul fatto che nell’amore ci sia sicuramente bisogno
di etica e che, dunque, non abbia fondamento quella cultura, per certi
versi dominante, che sostiene che al cuore non si comanda e che, quindi,
nell’amore non ci possano, né debbano, esistere obblighi di tipo
morale. Altrimenti, tra i tanti limiti che vengono soppressi, c’è anche
quello che impedisce gli sconfinamenti nel possesso e nella violenza.
Ma approfondiamo ancora il nostro tema e, non sottovalutando il fatto
che ogni volta in cui diciamo «Ti amo», a ben guardare, puntiamo a
tranquillizzare non soltanto l’oggetto del nostro amore, ma anche noi
stessi, andiamo a scandagliare alcuni aspetti dell’amore: quelli che,
forse, possono riuscire a spiegare tanti eccessi praticati tentando di
nascondersi indegnamente dietro il suo nome. Mentre, come scriveva
Ungaretti, «Il vero amore è una quiete accesa».
Prendiamo la passione, per esempio, sulla quale a Illegio fino a
pochi mesi fa era aperta una mostra intitolata “Amanti. Passioni umane e
divine. Cos’e? l’amore?”, sulla quale recentemente sono venuti a
parlare in sala Ajace, chiamati dalla vostra presidentessa, i due
organizzatori, monsignor Angelo Zanello e don Alessio Geretti. In una
visione artistica e non esclusivamente ecclesiastica, la mostra ha
voluto sottolineare che saper amare e saper vivere sono la stessa cosa e
che tutti i cicli narrativi su cui si basa la nostra civiltà
testimoniano che è proprio l’essenza dell’amore a dare consistenza alla
nostra vita, trascinandola attraverso storie struggenti e sublimi,
mitiche e reali, sensuali e spirituali, tenere e torbide, romantiche e
violente. E in tutte, pur traguardate attraverso una visione religiosa e
sacrale, non può non emergere un giudizio sulla qualità di questo amore
che, puntando a un sentimento più forte della morte, respinge proprio
quella violenza che della morte, intesa come dissoluzione, è prodromo.
Guardandola da un punto di vista schiettamente laico, invece, le cose
cambiano un po’. Umberto Galimberti, con quel suo rigoroso gusto per
l’apparentemente paradossale, afferma che «Non conosciamo più la
passione perché l’abbiamo affogata nel sesso che, nel corpo a corpo,
annulla la distanza di cui la passione si alimenta. Finché la
generazione non si stancherà del sesso – dice – sarà difficile reperire
passioni in quella forma eroica e sublime che l’età romantica conobbe e
seppe distinguere dall’amore». Ma lo dice quasi con scettico sollievo,
in quanto, continua, «A differenza dell’amore, la passione non ubbidisce
a regole, ignora il governo di sé, risponde a un’attrazione violenta
che non conosce il limite, non si alimenta di progetti e costruzioni, ma
cammina nelle prossimità del sacrificio di sé, sino a fiancheggiare la
morte, perché, in preda alla passione, indiscernibile diventa il confine
tra la forza del desiderio che trascina e la morte che chiama».
E la passione può continuare la sua creazione fantastica soltanto se
ad alimentarla sono il dubbio e l’incertezza. Però, sciolta dalla
realtà, inevitabilmente la passione può farsi inquieta, esponendosi al
gioco dell’illusione e della delusione, e nutrendosi di speranze
insoddisfatte. Talvolta questo continuo procedere sul filo del rasoio fa
perdere il controllo di sé, in una situazione che non conosce
mediazioni, né adeguamenti, ma quasi soltanto irriducibilità e
sofferenza del non possesso, e che può portare gli amanti a una
condizione in cui diventano alieni a se stessi, e anche stranieri l’uno
per l’altro.
È la passione, insomma, la causa di tante ferite, di tanti lutti e
sofferenze? È qualcosa da evitare, o addirittura proibire come vogliono
fare la maggior parte delle religioni? Non è detto; in quanto, se la
passione riesce a evitare il proprio suicidio, allora quell’amalgama di
immaginazione e di emozione che scatena è la prima forza che consente a
ciascuno di prefigurare una felicità al di là della pigra rassegnazione,
di costruirsi una visione del mondo più luminosa di quella offerta
dall’opacità del reale. E pensiamo a cosa sarebbe il mondo se nessuno ne
avesse sognato uno migliore, se nessuno fosse stato disposto a
sopportare umiliazioni e dolore perché accadesse qualcosa di meglio
rispetto agli scenari che la prudenza della ragione e il calcolo del
realismo prefigurano per una teorica sicurezza che cancella ogni utopia.
George Bernhard Shaw disse: «L’uomo ragionevole si adatta al mondo;
l’irragionevole insiste nel tentare di adattare il mondo a sé. Quindi,
ogni progresso dipende dall’uomo irragionevole».
Ho già citato più volte il concetto di possesso che tende a
instaurarsi quando la passione non approda all’immedesimazione con la
persona amata e che, come ho detto parlando del corpo, porta a credere
che il corpo dell’amata, o dell’amato, non sia più nella disponibilità
del suo vero e unico proprietario.
Ma il processo di espropriazione
continua a convivere con quello di riappropriazione dando vita a un
conflitto complesso e aperto che va seguito con attenzione e che, per
non sfociare in esiti drammatici, va collocato nel sistema dei nostri
valori etici, sociali e culturali. Il possesso, comunque, riduce alla
persona amata le possibilità di relazioni, fino a sacrificarla nello
spazio ristretto in cui l’assillo dell’amante la imprigiona. In questo
assedio, a essere sacrificata non è soltanto la persona amata, ma anche
l’amante che, a sua volta, riduce le sue relazioni con il resto del
mondo e il significato della propria esistenza al puro e semplice
possesso dell’amato con estremizzazioni che possono investire anche il
campo dei rapporti di forza e portare, appunto, alla violenza.
Poi, prima o dopo, se non causa danni, la brama di possesso cessa, ma
soltanto perché si estingue la passione a lei legata che, in realtà non
era amore per l’altro, ma perverso amore di sé. Però normalmente non
scompare quella gelosia che praticamente tutti abbiamo provato e che non
è, pur essa, un segno d’amore, ma quasi sempre una specie di bisogno di
tirannia che, se non è subito individuato come tale, diventa
difficilissimo da estirpare anche perché è un tormento che attorciglia
l’anima e finisce per alterare la percezione, l’attenzione, la memoria,
il pensiero e il comportamento.
Shakespeare, nell’“Otello”, fa dire a
Emilia: «Per i gelosi non c’è una cagione: son gelosi perché sono
gelosi, e tanto basta. La gelosia è un mostro che si genera da sé, è
figlia di se stessa». E Jago rincara: «Guardatevi, signore, dalla
gelosia: è il mostro dagli occhi verdi che irride al cibo di cui si
nutre». Alcuni sociologi sostengono che in origine la gelosia non era un
evento connesso all’amore, ma un requisito che garantiva le condizioni
di sopravvivenza. Attraverso la gelosia, infatti, il maschio, che ha
sempre considerato il corpo della donna come una sua proprietà, si
tutelava dal rischio di allevare figli non suoi, mentre la donna, grazie
alla gelosia del maschio, garantiva per sé e per la sua prole cibo e
sicurezza. Sarà vero, ma poi sicuramente la sua natura è cambiata perché
altrimenti ancora oggi questo sentimento dovrebbe trovare più posto
nelle società povere, nelle economie di sussistenza, mentre invece si
allarga a tutti i ceti sociali.
A complicare il quadro c’è il fatto che alcuni gelosi indirizzano la
propria ostilità contro il partner e altri contro il rivale. Molti
psicologi, tra cui soprattutto Freud, hanno tentato di analizzare questo
sentimento andando a collocarne quasi sempre la nascita tra i piccoli o
grandi traumi dell’infanzia, ma a noi, più delle cause interessano le
conseguenze, anche culturali, che, in molti luoghi e in molte epoche
hanno portato e portano a conseguenze degradanti per le donne, come
l’accertamento della verginità, o le pratiche crudeli di mutilazione dei
genitali femminili, in una sorta di odiosa gelosia preventiva.
È una specie di “cannibalismo sentimentale”, che vuole divorare
l’essere amato affinché nessuno possa più sottrarcelo, e che, quando si
esce dall’ambito metaforico, diventa violenza, anche omicida. E così, di
quello che una volta era un grande amore, rimane soltanto un titolo di
cronaca con foto della vittima, magari sorridente, e ancora ignara di
quello che le accadrà. Si è voluto suggellare con il nulla la fine di un
amore. E non sono rari i casi in cui la follia rende anche tanto
orgoglioso del suo misfatto l’assassino da farlo autoaccusarsi subito,
cercando quella che lui considera una gloria, su Facebook, o su altri
social.
Se la gelosia, comunque, è motivata, allora arriviamo al tradimento
che offende chi è tradito, ma ravviva, in chi tradisce, la fiducia in se
stesso. Il vero problema, però, è che non esiste tradimento se non
all’interno di un rapporto d’amore. A tradire infatti non sono i nemici e
tanto meno gli estranei, ma i padri, le madri, i figli, i fratelli, gli
amanti, le mogli, i mariti, gli amici. Solo loro possono tradire,
perché è su di loro che un giorno abbiamo investito il nostro amore.
E non importa neppure quale sia l’oggetto d’amore: un uomo, una
donna, un amico, la famiglia, la Chiesa, la legge, i rapporti con i
nostri simili e persino il rapporto con Dio. A riguardare i nostri sacri
testi, troviamo molti tradimenti: Adamo cacciato dal paradiso
terrestre, Giobbe tradito da Dio, Mosè a cui è negato l’ingresso nella
Terra promessa, Gesù tradito da Giuda e lasciato dal Padre a morire
sulla croce («Elì, Elì, lammà shabctani» (Dio, Dio, perché mi hai
abbandonato?). Tutti rinviano a uno scenario simbolico in cui forse
neppure Dio vuole che l’uomo cresca in una fiducia incondizionata,
perché in questo tipo di fiducia totale non offre la coscienza del bene e
del male.
Mentre, invece, il male bisogna incontrarlo, e talora lo si trova
proprio dove neppure lontanamente ne sospetteremmo la presenza. Nella
fiducia originaria, come in quella dei bambini, infatti, non c’è traccia
del male, anzi neppure il sospetto, perché quando la realtà non appare
nel suo doppio, non nasce il dubbio. E ancora una volta l’etimo si
rivela un prezioso alleato perché va notato anche che «doppio» e
«dubbio» hanno la stessa radice, cosa che appare ancora più evidente in
tedesco con “zwei” (due) e “Zweifel” (dubbio). Il dubbio, insomma,
quello che spezza la fiducia originaria, nasce come duplice aspetto,
come doppia essenza di ogni realtà.
Cartesio può sconfiggere il «diavoletto maligno» che gli insinua
dubbi nella mente e può superare il dubbio solo perché lo affronta
basandosi su quel «cogito», quel “penso”, che giustifica e dà sostanza
all’«ergo sum», all’esistenza di ognuno di noi. E anche in questo il
concetto di doppio balza in evidenza in quanto la parola “diavolo”
deriva da “dia-bállein”, che significa “divaricare”, riferito alla
coscienza, dilaniata tra il bene e il male, tra il vero e il falso, ma
soprattutto dall’allontanamento da quell’epoca giovanile e felice in cui
tutto era buono, bello e giusto e la fiducia era una costante naturale.
Se esaminiamo le possibili reazioni al tradimento, all’opposto di
quella, umanamente molto difficile, del perdono, per prima cosa troviamo
la vendetta, che è una risposta emotiva che salda il conto e, se è
immediata non ha altro significato se non quello di scaricare una
tensione, mentre se è procrastinata imprigiona in fantasie di astio e
crudeltà. La vendetta, insomma, rattrappisce l’anima. E lo si vede
anche, se non soprattutto nelle vendette praticate tramite i social in
cui immagini di momenti di amore vengono pubblicate trasformandole in
pornografia e, quindi, in spietate accuse di immoralità che il
vendicatore immagina si rivoltino soltanto contro l’ex amato e non anche
contro se stesso che evidentemente si ritiene, in quanto presuntamente
offeso, al di sopra di ogni giudizio morale altrui. E la violenza di
questo gesto informatico non è inferiore a quella che avverrebbe con un
vero contatto fisico, in quanto non di rado porta al suicidio di chi non
resiste alla vergogna di sentirsi esposta alle critiche di presunti
benpensanti molto più capaci di stigmatizzare peccati di tipo sessuale
che peccati contro le persone.
C’è poi il meccanismo della negazione del valore dell’altro che prima
era stato idealizzato. Si passa infantilmente dall’amore cieco al cieco
odio. Più pericoloso è il cinismo, che non solo nega il valore
dell’altro, ma addirittura quello dell’amore e si finisce per ridurre in
cocci anche i rapporti che con quell’amore ferito, anzi, ormai morto,
nulla avevano a che fare. La negazione di un tradimento altrui, insomma,
può diventare il tradimento di se stessi e di quello che fino a quel
momento si è stati.
E forse è proprio per uscire da un posticcio e inaccettabile
disprezzo per se stessi che si arriva all’odio. Fin dall’antichità si è
tentato di presentare l’amore e l’odio come due sentimenti che sempre si
attorcigliano e si avvinghiano tra loro. Catullo, per esempio, in uno
dei suoi Carmi, scrisse: «Odi et amo», che significa «Odio ed amo» e
prosegue: «Perché lo faccia, mi chiedi forse. / Non lo so, ma sento che
succede e mi struggo». È vero che i due sentimenti albergano nella
stessa persona, ma credo mai contemporaneamente: è quando l’amore
scompare e lascia spazio all’odio che si verifica la maggior parte dei
crimini passionali.
Ma da dove viene l’odio? E perché raggiunge le sue espressioni più truculente proprio nelle relazioni cominciate con l’amore?
I pessimisti ritengono che gli esseri umani siano violenti per
natura. Nel Seicento il filosofo Thomas Hobbes diceva che «Homo homini
lupus» (L’uomo è lupo per gli uomini); più recentemente l’etologo Konrad
Lorenz ha assimilato l’aggressività a una forza indomabile come la
fame, che è utile per la sopravvivenza, per la difesa del territorio,
per assicurare un vantaggio sessuale al più forte, per fornire una base
alla nascita di una leadership. E, infatti, se non ci sono guerre da
combattere abbiamo bisogno di sport competitivi per esprimere la nostra
aggressività, se non abbiamo nemici evidenti dobbiamo crearcene di
fantastici.
Gli ottimisti, dal canto loro, ritengono che gli esseri umani siano
per natura, se non proprio amorevoli, senz’altro socievoli, per cui
l’aggressività non scaturisce dal nostro interno, ma ci contamina
dall’esterno. Così la pensava Jean-Jacques Rousseau, secondo il quale
gli uomini sono buoni per natura e diventano cattivi vivendo in società,
come risposta alla frustrazione delle loro intenzioni, per natura
benigne.
In ambito sociale, vista con gli occhi di Hobbes, l’aggressività è
l’espressione inevitabile del desiderio umano di potere e di dominio e
l’amore è solo un breve interludio di pace nelle relazioni naturalmente
bellicose. Vista con gli occhi di Rousseau è la risposta alla
frustrazione che si estrinseca nella povertà, nell’indigenza e
nell’impotenza, frustrazione che, però, può essere lenita proprio con la
vicinanza, non soltanto fisica, di altri esseri umani.
Ma in amore la questione non è tanto quella di stabilire se
l’aggressività è innata, o reattiva, se è una pulsione autonoma, o è una
risposta alle minacce. Le cose sono più complicate, perché in amore la
posta in gioco non sono il potere, il denaro, il successo. In amore la
posta in gioco siamo noi, noi che amiamo. E l’aggressività è il riflesso
dello stato di pericolo in cui versa chi ama. «Quando diventa oggetto
del mio desiderio – scrive acutamente Galimberti – la persona amata
acquista un potere enorme su di me, e la mia vulnerabilità è
direttamente proporzionale alla profondità del mio amore. Anche se non
sembra, questa è la storia di ogni serial-killer che uccide le donne
perché queste hanno un potere su di lui. Esse, infatti, eccitano il suo
desiderio e quindi, ai suoi occhi, detengono il potere sulla sua
gratificazione, o sulla sua frustrazione. Vendicandosi, il serial-killer
vuole capovolgere la situazione, vuole recuperare la sua dignità. Anche
se non siamo dei serial-killer, quando in amore odiamo mettiamo in moto
la stessa macchina».
Insomma, bisogna fermarsi prima che l’odio diventi patologia, prima che
si trasformi in follia. E qui torniamo a Platone, ma con l’avvertenza
che non bisogna leggere Platone in modo “platonico”, cioè ascetico,
edificante, diciamo così, “cristiano”. Platone non assimila la
mortificazione del corpo alla mortificazione dei piaceri, delle
passioni, della sessualità. Platone guarda più in alto, alle regole
della ragione e agli abissi della follia e si chiede – e ci chiede –
cosa con esse l’anima riesca, o non riesca, a dire. Ed è dove il dire si
interrompe che si apre il buio panorama della follia che spesso trae
origine dalla coscienza che il possibile supera in maniera eccessiva il
reale.
Ed è curiosa, non solo perché mitica, la storia che Platone ci
racconta per spiegare l’esistenza dell’amore. «L’antica nostra natura
non era la medesima di oggi», dice il filosofo. In principio gli uomini
erano l’uno e l’altro, la loro forma era intera e rotonda, «non
generavano per reciproca unione, ma per unione con la Terra». Un giorno
Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due. Da
allora «ciascuno di noi è il simbolo di un uomo» in cui una metà cerca
l’altra metà, il simbolo corrispondente. Per curare l’«antica ferita»,
Zeus, dopo averla inflitta, inviò Eros, Amore che, tra gli dei è l’amico
degli uomini, il medico, colui che può ricondurci all’antica
condizione. «Ed è cercando di far uno ciò che è due – dice Platone – che
Amore cerca di medicare l’umana natura. Da allora gli uomini si
congiungono tra loro e così generano, non più per unione con la Terra,
ma per unione reciproca. Mediatore fra gli uomini e gli dei, Amore
interviene al limite dell’umano, là dove la nostra storia è cominciata e
ancora ci vive dentro come follia rimossa. Chi riesce a toccare questa
follia ci affascina e induce in noi quel progressivo cedimento di noi
stessi che rende possibile la liberazione dell’antica follia e la
realizzazione dell’amore.
È così che Platone erge Amore a simbolo della condizione dell’uomo,
«a cui, però – sottolinea – non è concesso distogliere l’occhio dal
proprio taglio». Ed è questa è la ragione per cui Amore non è soltanto
vicenda di corpi, ma è anche traccia di un’antica lacerazione, e quindi
continua ricerca di quella pienezza, in cui ogni amplesso è memoria ma
anche tentativo, sconfitta ma anche vittoria, gioia ma anche ferita.
Ed è proprio dentro ogni essere umano che si può trovare la forza per
non usare più il pronome “io”, ma per utilizzare quel “noi” che è la
chiave necessaria per entrare nel mondo di un amore che non sia
possesso, ma che tenda al bene dell’altro. Del resto, Erich Fromm, ne
“L’arte di amare”, scrive: «L’amore immaturo dice: “Ti amo perché ho
bisogno di te”. L’amore maturo dice: “Ho bisogno di te perché ti amo.”».
Se ci pensate, quello che si imputa al traditore è di essere uscito
dal noi, di essere diventato diverso e di muoversi non più in sintonia,
ma da solo.
Ebbene, dopo tutte queste parole, queste elucubrazioni e queste
escursioni nelle idee, nei ragionamenti e negli scritti di chi
sull’amore ha pensato a lungo, possiamo dire di saperne di più? Pur con
la grande differenza di anni e di esperienza, che dovrebbero aiutarci a
sbagliare di meno, a rendere meno dolorose le nostre illusioni e,
soprattutto, a renderci capaci di capire le necessità della persona
amata e a soddisfarle, pur con tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di
un bambino? Assolutamente no: anche un bimbo nato da poco ne sa,
istintivamente, esattamente quanto ne sappiamo noi perché l’amore è
qualcosa di assolutamente terreno e, insieme, di terribilmente
soprannaturale. E, infatti, lo sforzo di trovare un punto di unione, un
massimo comun divisore, tra tutti i vari tipi di amore si è rivelata nei
secoli un’impresa filosofica che, come difficoltà, potrebbe essere
paragonata, in fisica, alla ricerca dell’unificazione delle forze.
Ma se, come il bambino, non sappiamo cosa bisogna fare, noi adulti
sappiamo benissimo, invece, cosa non si deve fare per evitare di ferire
un amore, o, addirittura, di ucciderlo. E se, invece, lo facciamo, non
abbiamo scuse.
Senza mai dimenticare, poi, che la violenza non è soltanto fisica, ma
può essere anche verbale e psicologica. E che, a questo proposito,
quando noi uomini condanniamo senza mezzi termini i maltrattamenti
altrui, molto probabilmente la maggior parte delle nostre mogli può
pensare, con ragione, che predichiamo bene, ma razzoliamo un po’ male. E
per questo credo davvero che da parte nostra, da parte maschile, ci sia
un dovere di scuse individuali, oltre che di quelle di genere.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
Nessun commento:
Posta un commento